Riflessioni

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Le esperienze urbanistiche sono cambiate, ma restano incerte implicazioni e conseguenze del mutamento
Pier Carlo Palermo
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Sei anni dopo l’approvazione della nuova legge urbanistica regionale dell’Emilia Romagna (febbraio 2017) è ormai disponibile un pacchetto significativo di sperimentazioni urbane, che consentono un primo bilancio e qualche valutazione. In questo quadro, il caso del PUG di Bologna può diventare un progetto-guida, utile per chiarire opportunità e limiti della nuova legge, le sfide emergenti per la tecnica urbanistica, i temi cruciali e gli effetti possibili delle innovazioni in corso, anche ai fini di un’eventuale riforma della disciplina alla scala nazionale – responsabilità elusa da molti decenni, nonostante le buone intenzioni e un certo numero di tentativi concreti, sempre destinati all’insuccesso.  Per riflettere su questi temi, mi sembra utile qualche considerazione preliminare sui presupposti e sul contesto, politico e disciplinare, dell’esperienza bolognese.

 

1. Pregiudizi

Qualche osservatore ricorderà che l’avvento delle nuove esperienze è stato vigorosamente contrastato da una serie di critiche pregiudiziali (che peraltro hanno accompagnato, con argomenti sostanzialmente equivalenti, qualunque tentativo di riforma della prima e unica legge urbanistica generale, che in Italia risale ancora al 1942). Le obiezioni principali mettevano in discussione tre nodi cruciali. L’abdicazione – o quanto meno l’indebolimento sostanziale – della funzione pubblica di comando e controllo di usi e trasformazioni del suolo: una sorta di revisionismo disciplinare (De Lucia) che impedirebbe all’urbanistica di assolvere degnamente le sue responsabilità istituzionali. Il coinvolgimento diretto di interessi privati nel processo di pianificazione, tramite varie modalità di partnership, cooperazione e intese con le istituzioni di governo. L’apertura, di conseguenza, verso una concezione incrementale e adattiva dell’azione disciplinare, che violerebbe i requisiti (essenziali) di certezza e trasparenza delle regole e procedure urbanistiche (d’altra parte, la critica dell’idea di «planning by doing» ha investito persino il lavoro di Campos Venuti, durante l’elaborazione del piano di Roma, alle soglie del secolo). Nel complesso, queste scelte segnerebbero la fine dell’urbanistica, come funzione pubblica indispensabile per le sorti di ambiente e società, e del piano come suo strumento fondamentale; aprirebbero le porte al caos, con una serie di (ineluttabili) effetti perversi su città e territorio; trasformerebbero l’esercizio dell’azione disciplinare in una farsa, come insieme di atti formali, ampiamente svuotati di senso e di effetti virtuosi, mero simulacro o leva strumentale a disposizione dei più influenti interessi di parte. Una visione ribadita ancora una volta nel periodo di elaborazione della nuova legge emiliana (Agostini, 2017); certamente non inedita, perché si limitava a replicare posizioni di principio già espresse (dagli stessi attori disciplinari) nell’occasione di qualunque tentativo di riforma del settore, a qualunque scala (si veda, per esempio, Gibelli, 2005, o le critiche formulate dal circolo Eddyburg al progetto Lupi, 2014). Il dato che mi colpisce, in questa visione del mondo, è la scarsa fiducia nell’autorevolezza e nella capacità di influenza della cultura disciplinare, che solo per forza di legge (cioè grazie all’imposizione di vincoli generali e prescrittivi) sarebbe in grado di garantire il rispetto e l’applicazione delle sue visioni e proposte. Trovo sorprendente la scarsa attenzione per il problema della costruzione del consenso, se è vero che la cooperazione fra interessi di parte diventa una precondizione rilevante per la fattibilità di qualunque progetto. Non condivido la presunzione della tecnica di poter prefigurare un assetto futuro ideale, come se fosse disponibile un sapere esperto, solido e affidabile, in grado di superare ogni dilemma, e fosse ragionevole la volontà di prestabilire con un certo dettaglio scelte influenti di medio-lungo periodo, indipendentemente dall’evoluzione possibile di bisogni e desideri delle nuove generazioni urbane. Questi limiti continuano a pregiudicare la visione dei nostalgici del progetto moderno (ridotto, ahimè, a pura ideologia), ma evidentemente sono sottovalutati dagli urbanisti “massimalisti” (per usare un’espressione più volte evocata dallo stesso Campos): eppure possono mettere in dubbio la rilevanza effettiva della visione, che rischia di diventare una mera petizione di principio, mentre resta imbarazzante, in troppi casi, lo scarto fra decisioni formali e capacità d’azione effettiva. Naturalmente, l’esperienza emiliana non è ancora sufficientemente matura e compiuta per poter fin d’ora dimostrare che le «visioni delle Cassandre» (Montanari, in Agostini, 2017) erano ideologiche, ingiustificate, irrilevanti. Si può notare però che l’enfasi della critica da qualche anno si è sensibilmente attenuata. Il fenomeno non è inedito: la discussione sembra divampare, in modi stereotipati e ripetitivi, ogni qual volta il tema della riforma emerge nell’agenda politica. Poi rapidamente il dibattito si spegne, anche se i nodi del problema restano sostanzialmente irrisolti: l’insostenibilità attuale, da un lato, di qualunque modello di fedele ispirazione modernista; la sfida tuttora aperta dei tentativi riformisti, i cui esiti restano parziali e controversi, sotto il peso di dilemmi, incognite e rischi, certamente non banali. Non ho dubbi però: sono queste le sfide da raccogliere, mentre ogni appello nostalgico a un passato largamente “inventato” resta elusivo e inconcludente.

 

2. Rinnovare i programmi riformisti

Il punto certo, a mio avviso, è che l’urbanistica deve cambiare se aspira a svolgere un ruolo pubblico e sociale realmente influente, nel presente e nel prossimo futuro. La ricerca di forme istituzionali e tecniche più idonee al tempo e al contesto è stata una costante nel lungo periodo (fin dalla reinterpretazione nordamericana, nel primo ‘900, dei modelli classici dell’urbanistica tedesca, evidentemente incompatibili con lo spirito del luogo). L’istanza è diventata più urgente e pervasiva verso la fine del secolo, quando un po’ ovunque, nel mondo occidentale, sono stati concepiti e messi alla prova dei progetti di riforma del settore. In Francia, per esempio, la riforma urbanistica del 2000 si è preoccupata di sviluppare la dimensione strategica (non solo regolativa e strutturale) della pianificazione comunale. Ulteriori, ambiziosi interventi legislativi, nel 2014 e 2015, avrebbero voluto potenziare le funzioni della pianificazione d’area vasta, come strumento di lungo periodo (con un orizzonte esteso fino a 10-15 anni), in grado di assicurare scelte più giuste, efficaci e sostenibili rispetto ai singoli piani locali. Quella visione (maturata sotto una presidenza socialista: era un altro mondo!) è stata lodata dagli ambienti italiani più tradizionali, ma gli esiti sono stati deludenti: come era facile temere per le tensioni plausibili fra volontà prescrittiva (sovraordinata alle autonomie locali), orizzonte di lunga durata e difficoltà di formazione del consenso fra livelli diversi di governo. Anche in Olanda, nel 2000, è parso necessario rivedere la legislazione urbanistica, perché il bilancio delle esperienze risultava (sorprendentemente) insoddisfacente, nonostante una lunga e solida tradizione, e una reputazione internazionale generalmente positiva. Infatti, insufficiente, per tempestività ed efficacia, era considerata l’applicazione delle previsioni/prescrizioni dei piani locali; troppo debole la capacità effettiva di indirizzo e di coordinamento tramite gli strumenti della pianificazione d’area vasta. Tuttavia, le linee della riforma del 2000 sono state scarsamente innovative. L’obiettivo principale era semplificare i piani locali, ma nello stesso tempo rafforzare la loro valenza prescrittiva. Inoltre, si intendeva potenziare la funzione di indirizzo dei quadri programmatici d’area vasta e la capacità di cooperazione inter-istituzionale. Aspirazioni non originali, ma generalmente incompiute: il tema è stato ripreso, senza risultati più significativi, dal Spatial Planning Act del 2008, alla ricerca di nuovi equilibri fra le istanze concorrenti di flessibilità e di certezza delle norme urbanistiche. In effetti, il disegno e le funzioni del sistema di pianificazione olandese non sono stati realmente trasformati da quelle leggi, e le prestazioni non sono sensibilmente migliorate. In Gran Bretagna, invece, la riforma del 2004, voluta dal governo laburista guidato da Tony Blair, ha rappresentato una svolta degna di nota (la prima veramente radicale, secondo la valutazione di alcuni esperti) rispetto alla tradizione normativa sancita dalla legge del 1947 e ben documentata, nel lungo periodo, dalle esperienze esemplari di Patrick Abercrombie. Così ha preso forma un modello in parte inedito di spatial planning, teso a promuovere e guidare lo sviluppo più che a vincolare usi e trasformazioni del suolo. Peraltro, i successivi governi conservatori, in carica dal 2010, hanno rapidamente smantellato larga parte delle innovazioni programmatiche (considerate inefficaci e superflue), assicurando invece un impulso vigoroso (con il Localism Bill del 2010 e altri atti conseguenti) alle tendenze deregolative già anticipate dalla riforma Blair. In Italia, il tentativo più significativo di riforma risale alla metà degli anni ‘90, grazie al contributo determinante di Giuseppe Campos Venuti. Osservando le date, qualcuno potrebbe suppore che la tendenza italiana abbia addirittura anticipato le iniziative europee appena citate. In realtà, si è trattato di un movimento in chiaro ritardo, che ha cercato di rimediare all’immobilismo del passato rilanciando ipotesi – come la distinzione fra visioni strutturali e strumenti operativi – già sperimentate da qualche decennio in diversi contesti internazionali. Con esiti non molto convincenti, se è vero che proprio in quei paesi, nei primi anni 2000, si sono moltiplicati i dubbi e le critiche, ed è parso necessario avviare i tentativi di riforma che ho brevemente segnalato. Tentativi che peraltro, come ho anticipato, non sono riusciti a risolvere i problemi più rilevanti: le esigenze di rinnovare leggi e strumenti sono rimaste largamente insoddisfatte.

Anche in Italia (che in linea di principio avrebbe potuto trarre qualche insegnamento dalle esperienze affini già compiute da altri), è inevitabile constatare, a distanza di 30 anni, che i principali obiettivi della riforma non sono stati conseguiti. Nel 1995, Campos Venuti aveva indicato formalmente quattro priorità del cambiamento auspicato: la funzione della pianificazione urbanistica come strumento (non esclusivo, ma) determinante di governo del territorio, capace di integrare una varietà di temi e di istanze in un quadro unitario e coerente (di visione, regolazione e trasformazione) per ogni specifico ambito territoriale; il rilancio della pianificazione d’area vasta (come strumento in teoria essenziale, ma storicamente disatteso); l’articolazione del piano locale in componenti funzionali (regolative, strutturali, operative) distinte, ma sempre opportunamente integrate; la scelta della perequazione come strumento principale dell’attuazione. Sul primo e sul secondo punto non è stato compiuto alcun progresso reale: il sistema di piani è rimasto un disegno di carta; la funzione integrativa dell’urbanistica una mera aspirazione; il governo del territorio continua a essere affidato a una pluralità di strumenti debolmente coordinati. La concezione “scomposta” del piano è stata l’innovazione più concreta, specifica e diffusa. Sfortunatamente, il bilancio non può essere considerato positivo: infatti, le principali tendenze post-riformiste prevedono una forma di piano comunale che è nuovamente unitaria (dalla legge emiliana del 2017 alle tracce di riforma nazionale delineate dall’INU, alla fine del 2022). Il metodo della perequazione ha effettivamente trovato un’ampia diffusione, ma in molti casi (forse nella maggior parte delle esperienze) l’applicazione non ha rispettato fedelmente le attese: gli accordi negoziali non hanno rappresentato soltanto (come Campos auspicava) una modalità strettamente attuativa di scelte urbanistiche fondate su una chiara e autonoma ragione pubblica, ma sono diventati parte costituente della formazione delle scelte stesse. Ho sempre riconosciuto a Campos il merito di un impegno riformista coraggioso e indispensabile (nonostante le mediazioni inevitabili in quella fase). È giusto osservare, però, che la riflessione critica su questi limiti, che sono oggettivi, resta sorprendentemente carente. Eppure, ormai è chiaro che il programma originario di riforme, in questo campo, ha perso credibilità, speranze e una reale spinta propulsiva: se non si rinnova, è destinato alla irrilevanza. Credo che il senso e il valore delle nuove esperienze bolognesi debba essere inteso e valutato in questo quadro di tendenze di lungo periodo.

 

3. Le sfide della pianificazione debole

Un dato non sembra in discussione. La forma-piano che si viene a configurare, anche in Emilia-Romagna, è sensibilmente più debole rispetto ai modelli tradizionali. Come hanno dimostrato le esperienze internazionali, ormai cospicue, di spatial planning, strategic planning o scenario planning, se mettiamo a confronto le forme emergenti di piano con gli strumenti tipici dell’urbanistica moderna, del primo ‘900. È evidente che le funzioni sono radicalmente mutate: dal «comando e controllo» di usi e trasformazioni dei suoli, tramite piani generali e prescrittivi, verso una responsabilità di indirizzo e guida dei processi evolutivi, grazie a più vaghi quadri programmatici; fino a un ruolo complementare di facilitazione e accompagnamento di scelte territoriali che trovano le determinazioni essenziali nello sviluppo e nella composizione (se pur temporanea) di interessi e strategie di parte. Di conseguenza, vengono a mutare i requisiti della tecnica: che ora deve elaborare obiettivi, indirizzi, forse anche strategie (spesso, però, generiche o scontate); ma è molto cauta nella formalizzazione di prescrizioni cogenti, in assenza di accordi fra le parti, realmente maturi e condivisi (mi pare che la tendenza confermi alcune anticipazioni di Luigi Mazza, a fine secolo: originali e acute, ma forse male intese da critiche impazienti e forse pregiudiziali; si veda ad esempio, Mazza, 1998, 2004). Questo significa che il nuovo piano è oggettivamente debole: ha bisogno di robusti complementi operativi per dimostrare una reale capacità di influenza sul corso dei processi. Sorge una questione, che non mi sembra possibile eludere. Questo tipo di strumenti sarà adeguato e sufficiente per rifondare la reputazione e la rilevanza sociale dell’urbanistica nel prossimo futuro? Oppure l’oggettiva incompletezza della nuova strumentazione – che ha bisogno di importanti sviluppi operativi per dimostrare la sua valenza effettiva – dovrebbe suggerire agli attori disciplinari e professionali una (inevitabile) estensione di impegni e responsabilità? In sintesi, il dilemma può essere formulato nei termini che ho già esposto in altre sedi (Palermo, 2022a, 2022b): l’urbanista, oggi e in futuro, potrà continuare a occuparsi soltanto delle precondizioni dei fatti urbani (nella forma di regole o visioni del cambiamento auspicabile), oppure sarà indotto (forse costretto, se aspira a svolgere un ruolo pubblico e sociale di qualche rilievo) ad accogliere direttamente le sfide dell’azione effettiva, cioè della elaborazione e attuazione di politiche, progetti, accordi, interventi specifici e concreti? Io ritengo che la seconda via sia ormai obbligata: se la pianificazione è debole, l’estensione di campo verso nuove responsabilità (che non si riducono al puro plan-making) diventa una mossa fondata su buone ragioni, ma anche strategicamente opportuna – nell’interesse non solo del mondo, ma della categoria stessa.

 

4. Evitare una deriva post-urbanistica

Il rischio, altrimenti, è di ridurre la funzione dell’urbanistica a una serie di adempimenti formali: che sulla carta sembrano imprescindibili, in qualunque democrazia matura, ma potrebbero ridursi, appunto, a pure forme, da applicare ritualmente, mentre interessi e strategie influenti vanno alla ricerca di una composizione almeno parziale. Forme largamente svuotate di senso e di partecipazione, come già è accaduto in seguito alla istituzionalizzazione di alcune procedure di valutazione (ambientale e strategica), che nella generalità dei casi sono diventate un adempimento di routine, che scarsamente incide sull’esito e sulla qualità dei processi. E come rischia di accadere allo stesso regime politico democratico, secondo Colin Crouch (2004): le sue forme, le sue regole continuano a valere (fortunatamente) in molti contesti; tuttavia, sembrano perdere sempre più senso e consenso, e faticano a suscitare passioni e partecipazione da parte della società civile. Il rischio – annota Crouch – è di ritrovarsi in condizioni di post-democrazia: perché del sistema democratico sembrano restare solo o soprattutto le forme. Per analogia, non è il caso di temere l’avvento di una stagione (ormai) post-urbanistica (Palermo, 2022a)? Credo che il dubbio sia pertinente anche per l’ultima esperienza bolognese.

 

5. Urbanistica in azione

Riconoscere che l’urbanistica è (deve essere) azione sembra una buona mossa per provare a scongiurare la deriva. La prospettiva non è certamente inedita. Più di mezzo secolo fa, John Friedmann (1969) sosteneva già questa tesi, ma il suo messaggio ha perso forza e chiarezza, in seguito, entro una visione ideologica e teorica troppo eclettica e confusa, che ammetteva come alternative – apparentemente commensurabili e sempre contingenti – le posizioni tecnocratiche come quelle “insorgenti”. Io credo, invece, che distinzioni e scelte più radicali siano inderogabili. Concepire l’urbanistica come azione significa riconoscere le responsabilità politiche e discrezionali della regolazione; dare sostanza alle visioni come strumenti significativi di governance delle relazioni fra livelli diversi di governo, che devono convergere sulla selezione/condivisione di progetti locali di trasformazione di interesse realmente strategico per il territorio complessivo; significa mettere alla prova le competenze e le esperienze degli urbanisti per la concezione e realizzazione di progetti urbani di qualità più convincente rispetto agli esiti oggi più comuni (come testimoniano le mediocri esperienze milanesi degli ultimi anni). L’innovazione non concerne soltanto la sfera della strumentazione. La cultura urbanistica ha bisogno di nuovi quadri concettuali, perché risultano inadeguate (rispetto alle nuove responsabilità) le tradizioni consolidate del formalismo giuridico, del normativismo, dei modelli idealtipici di città o di piano, che sono stati fondamenti dell’urbanistica moderna. A mio avviso, la filosofia “tacita” degli urbanisti si dovrebbe valere di altri riferimenti, meno familiari: ho già suggerito di chiamare in causa i principi del realismo critico, del pragmatismo, del possibilismo, come tradizioni di pensiero e d’azione (debitamente intese) che probabilmente sono state sottovalutate nel contesto. Inoltre, viene a mutare il senso politico dell’azione urbanistica. Alle origini, la matrice più influente è stata la cultura del welfare state: la crescita (economica e urbana) era un presupposto indispensabile; una parte del surplus diventava oggetto di politiche redistributive, tese a migliorare le condizioni dei ceti e degli spazi più disagiati. L’urbanistica, come istituzione e come disciplina, veniva a svolgere una funzione rilevante nel processo. Oggi questa prospettiva non appare più sufficiente. I temi della sostenibilità (della vita umana e sociale, delle condizioni e trasformazioni urbane) sono all’ordine del giorno da più di 30 anni, ma in questa fase risultano non solo attuali, ma critici e prioritari. Credo che sia questa la sfida cruciale – assai più importante di molti discorsi di moda su smartness, resilienza, biofilia o temi affini – perché ci impone di affrontare dilemmi e compromessi ineludibili: fra istanze (legittime, ma potenzialmente contrastanti) di sviluppo, di equità, di qualità ambientale e sociale. Di fronte alle crisi incombenti, una mutazione di valori e comportamenti appare indispensabile. Il problema emergente è la suddivisione sociale dei costi che il processo di transizione certamente comporta. È plausibile che anche l’urbanistica si debba fare carico di queste responsabilità. Non basta più il mantra «crescita, crescita». Una società matura deve saper assumere scelte sostenibili per le generazioni future. Le sue componenti dovrebbero essere disposte a fasi carico degli oneri conseguenti, secondo principi di giustizia sociale e ambientale. Certo, è più facile partecipare a un processo di redistribuzione di benefici, piuttosto che di ripartizione dei costi sociali della transizione ecologica. Ne è consapevole una destra conservatrice, che a priori si oppone a qualunque iniziativa effettiva in questo senso, con l’obiettivo di consolidare un consenso facile, ma forse miope; ma anche tra le file dei progressisti non sono mancati atteggiamenti ideologici e impazienti (sustainability is non enough, proclamava Peter Marcuse, 1998). Tuttavia, le conseguenze dell’inerzia e dell’irresponsabilità potrebbero essere catastrofiche: questa potrebbe diventare una buona ragione per sostenere una reale svolta green della politica come dell’urbanistica. Su questi temi, ho formulato da tempo argomentazioni e proposte (le più recenti in Palermo, 2022a, 2022b). Le esperienze urbanistiche attuali, post-riformiste, mostrano qualche traccia di un movimento in questa direzione? Il caso bolognese sembra offrire qualche segno confortante: che riconosco non solo nella enunciazione di obiettivi virtuosi, ma nella cura (non scontata) per le dimensioni operative dei problemi.

 

6. Il PUG di Bologna come esperimento pilota

Come la legge regionale del 2017, l’ultimo piano urbanistico di Bologna a me sembra un progetto di soglia, per diversi aspetti interessante, ma al momento ancora in bilico. La revisione legislativa ha investito profondamente l’idea e la forma del piano comunale.  Infatti, ha rilanciato il principio dello strumento unico, dopo circa due decenni di divisione fra quadri di struttura e programmi operativi. Le ragioni della revisione non sono state chiaramente esplicitate (anzi, sembra essere mancata una vera discussione pubblica sui fondamenti della critica e del cambiamento). Tuttavia, è plausibile supporre che due ordini di argomenti abbiano pesato sulle scelte. La moltiplicazione degli strumenti è stata percepita come un fattore di rischio, in termini banalmente funzionali: infatti, può favorire ritardi operativi o difetti di coordinamento, come ha sempre temuto Leonardo Benevolo (mentre anche i “massimalisti” come Edoardo Salzano, negli anni ‘90, hanno accolto con interesse l’ipotesi di articolazione formale del piano tradizionale). Inoltre, probabilmente sono aumentati i dubbi sulla rilevanza, efficacia e reale necessità dei contenuti peculiari del piano di struttura; che in effetti, nei primi anni 2000, è stato vanamente rivisto in Olanda; rilanciato, ma poi abolito in Gran Bretagna; ridisegnato in Francia, con una improbabile valenza prescrittiva. Nello stesso tempo, la predisposizione formale di un piano operativo è stata percepita come un impegno troppo gravoso in termini amministrativi e politici: le ragioni della semplificazione e della flessibilità hanno trovato spazi e consensi crescenti (nonostante l’opposizione degli ambienti più legati alla tradizione). In ogni caso, l’adozione di uno strumento unico è parsa ragionevole (o inevitabile) nel momento in cui i contenuti tecnici e politici del piano locale venivano intenzionalmente indeboliti. Il nuovo PUG, infatti, rappresenta soltanto un quadro di riferimento, con funzioni di indirizzo o meglio di orientamento strategico. Prescrizioni cogenti sono generalmente rinviate (salvo i requisiti indispensabili di dotazioni o invarianti territoriali) alla fase direttamente operativa: tramite accordi territoriali o programmi e progetti mirati di intervento su aree limitate e specifiche, che possono nascere da iniziative private, se pur sottoposte a limiti, indirizzi e valutazioni da parte della politica e dell’amministrazione. Una visione pragmatica, che confida nella responsabilità e autorevolezza della funzione pubblica, invece di preoccuparsi di irrigidire a priori il processo mediante vincoli spesso privi di debite giustificazioni e di possibilità concrete di attuazione. È evidente che la prospettiva non è priva di rischi, ma la tradizione ortodossa da tempo ha mostrato chiari limiti, provocando una varietà di effetti perversi. La svolta, non banale, è accompagnata da una palese scelta di campo, a favore dei principi della sostenibilità e della rigenerazione urbana (in linea con la New Urban Agenda elaborata dalle Nazioni Unite nel 2016). L’appello a questi valori diventa, retoricamente, la giustificazione principale dell’inversione di rotta legislativa – mentre resta sotto traccia qualunque riflessione critica sui limiti delle esperienze precedenti, che pure potrebbe offrire buoni argomenti alla necessità di un cambiamento. Sembra anche mancare una piena consapevolezza dei limiti oggettivi della nuova strumentazione: perché un orientamento programmatico o meglio strategico è stato ampiamente sperimentato altrove, da decine di anni, e illusioni non sono più consentite. Le esperienze di strategic planning generalmente appartengono alla sfera della comunicazione (non dell’azione) politica. Di conseguenza, non rappresentano un’opportunità reale di composizione fra interessi plurali (troppo vaga e preliminare è la posta in gioco, in quella fase); più plausibile è la formazione (poco impegnativa e certamente non divisiva) di un consenso di massima su obiettivi edificanti, ma spesso generici e ripetitivi. Inoltre, non è lecito dimenticare che l’approdo a questa famiglia di esperienze, da parte degli urbanisti, non è stata una scelta di campo tempestiva e ben giustificata, bensì l’esito di una lenta deriva, segnata dall’insuccesso di altre posizioni, più rigide e direttive, vanamente sostenute nel passato. In ogni caso, il contributo resta debole, per costituzione; la qualità delle scelte dipenderà essenzialmente dalla capacità operativa messa alla prova nelle fasi conseguenti; su quel fronte si spostano le responsabilità essenziali dell’urbanistica (come ho anticipato nel par. 3); gli attori disciplinari, pertanto, dovrebbero riconoscere ufficialmente e saper interpretare nuove famiglie di impegni e competenze. In questo senso, il processo di rinnovamento appare ampiamente in bilico. Inoltre, non mancano elementi ambigui di continuità con il passato. Per esempio, trovo singolare e poco convincente il richiamo formale, all’interno della stessa legge emiliana, ad alcuni moduli tradizionali del sistema di pianificazione: come la reiterazione di strumenti di livello regionale o intermedio, che generalmente non hanno funzionato e rischiano di risultare superflui o controproducenti: sarebbero sufficienti due soli livelli di governo – area vasta e locale – purché ben disegnati, effettivamente funzionali e ragionevolmente coordinati! Riusciremo mai a concepire e a sperimentare un modello essenziale, coerente con questa visione?

Il PUG di Bologna riflette fedelmente le aperture e le incertezze della nuova legge. In generale, è difficile supporre che una riforma legislativa possa modificare radicalmente le politiche di una città. Una sostanziale continuità di indirizzi e di programmi è lo scenario più plausibile, salvo i casi nei quali il rinnovamento delle regole rende più agevole perseguire certi obiettivi a lungo mancati per una serie di difficoltà oggettive del quadro normativo preesistente. A Bologna, non sembrano emergere ragioni sufficienti per mettere in discussione una visione urbanistica di lungo periodo, che aveva trovato l’aggiornamento più recente nel piano strutturale del 2008 (un progetto che aveva già cercato di anticipare alcune innovazioni rispetto alle norme vigenti, dando un rilievo speciale ad alcuni contenuti strategici e progettuali: Gabellini, 2008, 2018; Palermo, 2008). Sono confermati gli obiettivi e gli indirizzi più rilevanti; anzi, viene a crescere (giustamente) l’enfasi per i valori della sostenibilità, equità, tutela, rigenerazione (abbiamo imparato, però, che la virtù delle intenzioni non è mai un fattore decisivo). Anche l’agenda politica presenta elementi notevoli di continuità: questo è un riconoscimento della solidità dell’impianto programmatico da tempo impostato, ma anche un’ammissione implicita delle fatiche ordinarie dell’attuazione delle scelte deliberate (i processi sono laboriosi; l’orizzonte temporale si estende spesso oltre le attese). Paradossalmente, la sfera dell’innovazione rischia di assumere un carattere principalmente tecnico e strumentale (cioè modalità non irrilevanti, ma pur sempre secondarie). Il primo problema emergente diventa l’interpretazione tecnica di alcuni quesiti (in parte inediti) posti dalla nuova legge: come concepire e rappresentare la nuova articolazione spaziale della normativa urbanistica, posto che non sono più previste zone dai confini chiaramente delimitati, con contenuti funzionali prestabiliti. Si manifesta dunque l’esigenza di una reinterpretazione soft e fuzzy del disegno spaziale, che in verità altrove è stata esplorata da tempo (ma i contributi approfondiscono i nuovi quadri concettuali più che i problemi tecnici conseguenti: Allmendinger et al. 2007, 2009, 2010, 2013); su questo fronte, però, manca ancora nel nostro paese una base consolidata di esperienze e riflessioni. Un altro tema di interesse, più sostanziale, riguarda lo sviluppo della nuova fase operativa (che, come ho anticipato, può diventare la misura essenziale della qualità e rilevanza dell’azione disciplinare). Si tratta di ripensare, in termini formali e procedurali, le relazioni di coerenza fra quadri programmatici e interventi effettivi; ma soprattutto di interpretare degnamente alcune modalità d’azione che vengono ad assumere una funzione determinante, ancora poco sperimentata. È il caso, per esempio, degli «accordi territoriali», che rappresentano un passaggio decisivo per la messa in opera di un progetto, ma anche per la verifica sul campo della mediazione (cooperazione) possibile fra ragione pubblica e interessi di parte. Non si tratta soltanto di trovare un’intesa di massima su qualche parametro o funzione dell’urbanistica tradizionale (requisito minimo, ma qualitativamente insufficiente). L’accordo diventa un’opportunità interessante – forse la più concreta per la pubblica amministrazione – per incidere sulla qualità delle trasformazioni: per esempio, anticipando (saggiamente) i temi e i requisiti di quella che nel mondo anglosassone è la «design review», cioè la cura della qualità progettuale di un intervento, secondo criteri morfologici e ambientali, relazioni con il contesto (effetti collaterali e transcalari), impatto potenziale sul paesaggio e sullo sviluppo urbano. La differenza è che quella verifica normalmente avviene ex post (cioè rispetto a progetti già compiuti, da sottoporre a valutazione). In questo caso, si aprirebbe la possibilità di incidere sul processo fin dalla fase costituente, con maggiori opportunità, sulla carta, di conseguire risultati positivi, perché le condizioni sono più fluide e probabilmente crescono le opportunità di un adattamento virtuoso fra i molteplici interessi in gioco. D’altra parte, questa è stata un’idea più volte abbozzata dagli urbanisti italiani (si pensi alla nozione specifica di «progetto urbano» nell’esperienza del piano di Campos per Roma); anche se i risultati della sperimentazione sono stati molto parziali e obiettivamente inferiori alle attese.

La mia impressione è che i tre temi che ho segnalato rappresentino le sfide più evidenti e significative che il piano di Bologna ha cercato di affrontare: un nuovo disegno dello spazio (per assicurare alle strategie un radicamento territoriale); l’invenzione di nuovi strumenti operativi (anche tramite la reinterpretazione di dispositivi tradizionali); una messa a punto, aggiornata, dei nessi fra quadri di indirizzo e azioni effettive. Si tratta di questioni che assumono una dimensione tecnica specifica e innovativa. Fortunatamente, perché il rischio di una nuova legge è che dia luogo a una riscrittura meramente formale di intenzioni e iniziative antecedenti, da tradurre letteralmente secondo il formato ora prescritto (ricordo gli sforzi volenterosi di molti comuni lombardi, dopo la riforma regionale del 2005, per adattare in qualche modo l’esistente alle complicate forme di piano – tre componenti – allora imposte dal legislatore). In questo caso, l’impegno della riforma non è eluso. Qualche esito può essere considerato promettente, anche se i risultati non possono che essere provvisori. All’orizzonte, mi pare di intravedere due incognite. La principale riguarda i limiti costitutivi di un approccio strategico. Sarebbe un errore sottovalutare le difficoltà che vaste esperienze in questo campo, altrove, hanno già anticipato; celebrando retoricamente l’importanza della svolta (peraltro tardiva), senza riconoscerne le difficoltà e i rischi: che riguardano le pratiche stesse, ma anche la necessità di una mutazione di ruoli e competenze disciplinari. Restano poi dubbi e criticità sul rapporto fra il nuovo piano comunale e gli strumenti, a mio avviso troppo tradizionali, previsti dalla legge regionale a una scala sovraordinata (ma questo è un problema che l’amministrazione bolognese non è in grado di risolvere da sola). Nel complesso, mi pare interessante il tentativo di gestire la riforma: la nuova esperienza sembra inscriversi degnamente in quella tradizione autorevole che è nota come «amministrare l’urbanistica».

 

7. Sulle linee e possibilità di una riforma nazionale, oggi

L’Italia, purtroppo, nel lungo periodo ha dimostrato una desolante incapacità di affrontare in modo responsabile ed efficace la necessità di riforme di questo settore. Le iniziative regionali, nei primi anni del nuovo secolo, hanno creato un quadro territoriale sensibilmente differenziato, nel quale è difficile riconoscere una logica e una visione unitarie. Da tempo, comunque, anche a quella scala i programmi riformisti hanno perso vigore e convinzione, sebbene non siano venute meno le domande di cambiamento (la volontà di rinnovamento dell’Emilia-Romagna rischia di rimanere un’eccezione). I tentativi di ricomporre un quadro coerente di indirizzi di valenza nazionale sono sistematicamente falliti nel corso del tempo, per lo stallo fra gli interessi deregolativi della destra e l’opposizione massimalista di settori della sinistra (con la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica). Non si vede come un’inversione di rotta possa diventare plausibile nel prossimo futuro, forse anche a medio termine. Le riflessioni sulla riforma auspicabile rischiano dunque di rimanere un esercizio culturale, utile per chiarire orientamenti di valore e di proposta, a futura memoria o come tentativo di influenzare, in prospettiva, la pubblica opinione e i discorsi della politica rispetto a una materia così delicata. Credo che sia questo il modo più ragionevole di intendere l’impegno neo-riformista dell’INU (ancora debole, in verità), che ha dato vita a pubbliche manifestazioni negli ultimi mesi dello scorso anno (UrbanisticaInformazioni, settembre 2022).
È evidente il nesso fra queste riflessioni e le recenti esperienze emiliane. L’idea di piano comunale unico, di orientamento strategico, è confermata come il nodo cruciale (come se le obiezioni vibranti del recente passato fossero da considerare ormai decadute). L’impianto emiliano costituisce il modello di riferimento (Barbieri e Gabellini, in INU, 2022), senza variazioni significative, ma anche senza reali approfondimenti: non sono oggetto di discussione, e tanto meno di sviluppi progressivi, i punti deboli che ho cercato di evidenziare – la sostanziale incompletezza dei quadri programmatici e strategici, la cui rilevanza ed efficacia può essere confermata solo dalla successiva fase operativa; la necessità conseguente di estendere l’impegno disciplinare dalla sfera tradizionale del plan-making verso il campo delle politiche e dei progetti urbani. Su ogni altro fronte, le innovazioni risultano marginali. Le riflessioni sugli standard e sulla perequazione confermano lo stato delle migliori esperienze (Giamo, Ricci e Sepe; Galuzzi e Stanghellini, ibid.). Purtroppo (la nota negativa è un mio commento) vengono replicate, senza dubbi e cautele, anche le posizioni più tradizionali sulla pianificazione regionale e d’area vasta (Moccia e Talia; Gasparrini e Pavia; Lingua e Moraci, ibid.): un filone che non ha mai dato risultati convincenti nella generalità dei casi, eppure viene riproposto senza critiche e innovazioni di qualche rilievo. Manca, mi pare, la volontà di riformulare il tema: la priorità, a mio avviso, dovrebbe essere migliorare la capacità del sistema di esercitare un’adeguata multilevel governance, in grado di produrre una visione integrata e progetti operativi, strategici, transcalari e condivisi; invece di continuare a declinare formalmente le responsabilità di ogni livello di governo tramite piani per il territorio di competenza, ancora autonomamente concepiti nonostante le evidenti interdipendenze. Questa parte del discorso mi pare ancora conformista e francamente inutile. Vedo una contraddizione fra il riconoscimento (finalmente) delle dimensioni strategiche e progettuali dell’urbanistica comunale, e la reiterazione di un sistema di piani di carta, eco sbiadita dell’antico modello gerarchico (che è stato soltanto un’ideologia). Auspicherei una presa di posizione più coraggiosa: oltre alla dimensione locale, certamente è necessario affrontare i problemi dell’area vasta, ma l’approccio dovrebbe essere unitario, e la via da privilegiare a me sembra essere la capacità di governance (a molti livelli); non la stesura di un grappolo di piani (di carta), ciascuno dei quali si limita a enunciare buone intenzioni. Questo nodo si configura anche nella riforma emiliana, ma lo stato delle esperienze non consente ancora di formulare un giudizio. L’elusione del tema, nei deboli discorsi appena abbozzati su un’eventuale riforma nazionale, accresce fin d’ora i dubbi sulla possibilità attuale di rilanciare le sfide del riformismo. Probabilmente, sarà necessaria una lunga e incerta stagione di pratiche (sulle tracce del modello emiliano e bolognese), prima di poter dare credito a una nuova, effettiva volontà di cambiamento. Il paradosso è che le esperienze dell’urbanistica (come il caso emiliano testimonia in modo inconfutabile) sono oggettivamente mutate, in una varietà di contesti, rispetto ai modelli più tradizionali e tuttora diffusi, o quantomeno retoricamente influenti (Gabellini, 2018). Tuttavia, non sembra ancora chiaro e condiviso il senso più radicale del cambiamento in atto, e notevole resta l’incertezza sulle prospettive che si potrebbero aprire in un futuro non lontano: grazie all’evoluzione delle pratiche, se la riforma dovesse rimanere incompiuta. In questo senso, l’urbanistica di Bologna potrebbe rappresentare, ancora una volta, un modello di riferimento che merita attenzione, critica e apprendimento.

 

 

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