Alcuni indirizzi per il futuro di EWT

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Terza Missione
Pepe Barbieri PDF




“Terza Missione” è il titolo che propongo – in occasione del suo decennale – per una nuova sezione di EWT. Lo scopo è diffondere e poter confrontare, in modo sistematico, i prodotti di un patrimonio rilevante, e spesso poco noto, di esperienze di ricerca applicata realizzate dai dipartimenti universitari nei campi delle discipline del progetto.
«Per Terza Missione si intende l’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società, affiancando le missioni tradizionali di alta formazione e ricerca. Con la Terza Missione le università entrano in contatto diretto con soggetti e gruppi sociali ulteriori rispetto a quelli consolidati e si rendono quindi disponibili a modalità di interazione dal contenuto e dalla forma assai variabili e dipendenti dal contesto»
E’ la definizione che compare nei documenti dell’ANVUR e che, nel Manuale per la valutazione, indica le attività che si possono considerare in questo ambito: conto terzi; siti archeologici e poli museali; consorzi; formazione continua; public engagement (conferenze, lezioni, eventi pubblici, presentazioni).
Gli esiti delle diverse articolazioni delle attività conto terzi della ricerca progettuale nelle università possono evidenziare la necessità, per lo sviluppo del Paese, di un esteso coinvolgimento di queste strutture multidisciplinari, presenti in tutto il territorio, negli indispensabili processi di trasformazione che rispondano ad una domanda latente di una effettiva modernizzazione – un adeguamento a pressanti mutate condizioni del presente e una conseguente diversa e aperta visione di futuro -  che in Italia è sempre, complessivamente, mancata. E’ un coinvolgimento che, quando avviene, deve muoversi nei limiti ambigui di una normativa contro la quale da anni le società scientifiche del progetto stanno combattendo per una sua revisione, a fronte di una illogica ostilità degli ordini professionali che non leggono il potenziale di ricadute di occasioni per i loro iscritti che viene offerta da queste ricerche, soprattutto quando collocate nella dimensione, concettuale e spaziale, del progetto urbano.
Con la Terza Missione si afferma il ruolo centrale della conoscenza – della sua produzione, trasmissione e valorizzazione – nei processi di trasformazione delle città e dell’ambiente. Sono percorsi complessi in cui il progetto, anche considerata l’assenza di una domanda consapevole di architettura, non può limitarsi ad una mera prestazione di servizio con l’applicazione spesso frammentaria e settoriale di metodiche e strumentazioni tradizionali.Quella contemporanea è una condizione che richiede una indispensabile ed urgente revisione del rapporto tra saperi, poteri e diritti. Si tratta di attivare un nuovo intelletto collettivo sociale (Bonomi, 2018) per produrre qualità ed efficacia nel progetto di territorio e di città, o meglio dei territori che nel nostro paese divengono città, dovendo prendere atto di una rivoluzione spaziotemporale in cui un dominio pervasivo delle tecniche produce esiti sempre più lontani dalla capacità degli abitanti di comprenderli, così da poter considerare dimora i paesaggi impoveriti che incessantemente si depositano loro intorno.
E’ per generare una plurale coscienza dei luoghi che, nel rispondere all’interrogativo heideggeriano “se il territorio prima lo si abita e poi lo si pensa o se prima lo si pensa e poi lo si abita?”,1 diviene sempre più necessario, in una società circolare e liquida, immettere enzimi di conoscenza – anche per mezzo dell’evidenza esemplare di prototipi di futuro - che consentano di diffondere le modalità con cui metabolizzare l’impatto molteplice della variegata articolazione dei flussi nel loro attraversare e fertilmente contaminarsi con i luoghi.
Occorre che i saperi possano proporre innovazioni di processo e di progetto perché si eserciti efficacemente un diritto alla città nei nostri preziosi e fragili territori che inconsapevolmente vengono abitati in modo metropolitano. La loro trasformazione, deve ispirarsi ai principi di una tutela attiva, come previsto all’articolo 9 della Costituzione, dove si mettono in connessione sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio. Quindi non soltanto cura del passato, ma proiezione di questi fondamentali beni comuni al futuro, perché si eserciti il diritto ad abitarli attraverso un processo democratico di scelte, sottraendoli alla furiosa e distruttiva spinta incontrollata delle diverse e distratte speculazioni che li consumano.
Spetta, quindi,  in primo luogo ai centri per la formazione e la ricerca in architettura – dove non solo si interpreta, ma si ridefinisce la domanda, i suoi temi e i gli ambiti; si individuano i referenti e le competenze; si forma e si informa - esplorare come mobilitare territori, che si offrono come un tessuto che pulsa in una sequenza ininterrotta e intrecciata di pieni e di vuoti, in cui si deve intendere superata la tradizionale divisione tra interno ed esterno, tra centro e periferia, verso un nuovo condiviso paesaggio della sostenibilità.
E, infatti, di fronte ai conclamati rischi climatici e ambientali una crescente attenzione ai problemi del metabolismo urbano e territoriale, ha portato il legislatore ad una fondamentale integrazione dell’art. 9.

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»

Quindi non solo, come aveva già sottolineato il presidente Ciampi, la stessa connessione tra i due commi [i primi] dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile.
Ma si dilata e diviene più complesso l’oggetto stesso di tale tutela, necessariamente “creativa”. Scrive Loredana Nazzicone a questo proposito: «Insomma: non siamo più al territorio nazionale “inteso alla maniera di una mappa catastale secondo le coordinate binarie del lotto edificabile”, ma alla tutela di un nuovo spazio, risultato della implicazione fra azione umana, specie viventi e ambiente naturale.[…]Ormai la Corte costituzionale accosta in un unico sintagma la “tutela paesistico-ambientale” affermando che “l’integrità ambientale è un bene unitario … che deve, pertanto, essere salvaguardato nella sua interezza” e che paesaggio ed ambiente sono un’endiadi. E parla di “diritto a vivere in un ambiente non inquinato”»2.
Ogni intervento di modificazione del territorio non può più essere inteso secondo la tradizionale dicotomia tra edificato e natura, tra discreto e continuum. Anzi l’endiadi di paesaggio e ambiente indicata dalla Corte appare proporre un compito alle discipline del progetto: come far sì che le azioni di trasformazione, nel loro inevitabile incidere sull’ambiente, piuttosto che rivelarsi – come spesso avviene – un danno per il paesaggio (specialmente nella sua tradizionale accezione di porzione di territori di affermata qualità configurativa), concorrano invece alla costruzione dei nuovi paesaggi dell’abitare contemporaneo (nell’accezione innovata dalla Convenzione Europea del 2000 che ne dilata i valori multipli in quanto riconosciuti in modo variabile dalle comunità nello spazio e nel tempo).
In questa prospettiva l’attività di ricerca progettuale dei centri universitari – e non solo – assume un ruolo fondamentale per due principali aspetti che riguardano l’intero processo delle trasformazioni specialmente nella dimensione multiscalare e plurimaterica dei fenomeni urbani contemporanei.

1. Deve cambiare la tradizionale concezione del progetto, se considerato, come è sempre necessario, nella sua capacità di produrre urbanità. Infatti se l’ambiente, come affermava Argan, può essere condizionato, ma non progettato3, occorre rinunciare alla idea di un progetto che, calato linearmente dall’alto, sia destinato ad imprimere direttamente la propria forma al territorio. Operando soprattutto sul duro e trascurando la malleabile terra, le vene superficiali e sotterranee delle acque e la loro ibridazione nelle wetlands. Si moltiplicano, quindi, i materiali, gli agenti e gli attori che trasformano continuamente l’ambiente. A questi il progetto deve riconoscere lo spazio e, soprattutto, il tempo di libere modificazioni e adattamenti. Occorre coniugare le risorse proposte dalle innovazioni tecnologiche alla capacità delle disposizioni spaziali – anche per la bellezza da loro offerta - di generare quell’equilibrio del metabolismo urbano di cui oggi siamo alla ricerca: la risposta, nel rapporto tra forma e materiali, al governo dei cicli dell’acqua, dell’aria, degli scarti.

Sono, letteralmente, nuove culture dell’abitare perché, in base ad una metafora agricola, piuttosto che a quella meccanica della modernità, il loro approccio prevede che le città siano, in senso lato, effettivamente coltivate. Dove la natura acquisisca lo stesso statuto di bene comune degli spazi urbani: una multiforme natura pubblica,4quindi, affidata alle cure degli abitanti. Essere nell’ottica della cura – destinati, cioè, all’aver cura –vuol dire co-esistere, con-vivere, come attori consapevoli e responsabili di una multipla relazione di cose e corpi. Un compito quanto mai indispensabile oggi che è diventato ancora più evidente come siano quei venti centimetri, o poco più, di Humus, che calpestiamo distratti, a generare l’alimento fondamentale della vita.5
E’ quindi necessario – nella direzione di una innovazione di politiche territoriali votate alla realizzazione de quell’equilibrio metabolico invocato – saper spingere le comunità all’esplorazione di mondi possibili attraverso la produzione di architetture che prima di essere oggetti sono processi di conoscenza e confronto. Così la “costruzione dell’attore” di questi processi assume il carattere di una dimensione del fare in cui, conta più la Gestaltung - il formare - piuttosto che la Gestalt, la forma. Più la tessitura che il tessuto. Non la ricerca di una struttura, ma l’azione di una strutturazione che necessita di un soggetto in essa implicato, «recettivo e attivo a un tempo, di un attore capace di patire e che esperendo esteticamente la città può mettere in atto quella commistione, quella circolarità dello spazio e del tempo in grado di rinnovare le nostre prospettive»6.
E’ evidente che un tale lungo e complesso processo richiede la presenza e collaborazione di diverse figure. Certamente il mondo delle diverse professioni, ma è necessario che sia prevista una guida condotta da quello che, in altro campo, Clementi ha denominato, a proposito degli interventi nei territori post-terremoto, un centro di intelligenza collettiva.7Un organismo a geometria variabile che deve attivare le diverse filiere di competenze e azioni, collocando le diverse iniziative in una prospettiva spaziale e temporale in grado di utilizzare i layer sovrapponibili di diverse figure ed entità territoriali in funzione della natura dei problemi affrontati. Un compito perfettamente inquadrabile nelle attività previste nella Terza Missione in cui l’esplorazione progettuale (il conto terzi) non si esaurisce nella produzione di una risposta ad un quesito circoscritto, ma corrisponde a modi di interrogazione per suscitare una domanda ancora inespressa e si deve accompagnare ad un percorso di “costruzione degli attori”: una sorta di formazione continua non solo per i professionisti, ma per i diversi soggetti coinvolti nel percorso delle scelte.

2. Terzietà. I centri di ricerca universitari possono anche assumere, in modo sistematico, il compito di soggetto “terzo” nelle valutazioni dell’interesse collettivo nei processi complessi di trasformazione territoriale. La sostituzione di un percorso dialogico a quello tradizionale – assertivo, lineare -  nelle diverse forme degli interventi sui territori, moltiplica le occasioni in cui si rende necessaria la valutazione dei termini degli accordi e dello scambio pubblico-privato.

Secondo Carlo Olmo: La terzietà è un bene politicamente rarissimo: e non a caso. Forse a favorirla potrà essere la percezione del rischio che uno sviluppo senza terreni dove ci si possa confrontare (ma vorrei aggiungere dove anche si possano simulare processi ed esiti, si possa cioè praticare la comparazione) oggi reca con sé. La terzietà corre certamente tutti i rischi dell’interrompersi della convergenza, ma l’erosione oggi di risorse limitate del suolo, sta mettendo in discussione lo stesso modello di sviluppo.8
Questo compito comporterebbe l’esistenza, presso le amministrazioni, di strutture per la valutazione dotate della necessaria competenza ed autorevolezza per svolgere tale ufficio che, come è evidente, si presta a problematici contenziosi. Questione rilevante specialmente per amministrazioni di piccola dimensione e con organici ridotti che, nel quadro di rilevanti trasformazioni territoriali che toccano i loro territori, possono trovarsi a dover decidere su accordi e scambi da contrattare con attori anche di dimensione nazionale.
Peraltro i termini di uno scambio pubblico-privato non possono essere predeterminati in astratto, né essere espressi in termini puramente quantitativi - tanti diritti edificatori, tante opere pubbliche - occorre che la valutazione avvenga nel concreto della proposta verificando qualitativamente il rispetto degli obiettivi di carattere pubblico.9
L’assunzione di un tale impegno da parte di centri di ricerca universitari vuol dire legare l’esplorazione progettuale ad una complessa attività di continuo supporto alle decisioni al cui centro è l’obiettivo di restituire allo spazio la densità di snodo problematico tra forma, usi, diritti e poteri e in cui è essenziale l’adozione quella strategia dell’ascolto che possa continuamente alimentare una mobile visione strategica, aperta alle revisioni e adattamenti richiesti da un interattivo percorso dialogico. E’ un obiettivo che si deve confrontare con la “pluralizzazione” del pubblico che moltiplica i tempi e i luoghi del confronto o del conflitto. La politica, peraltro, trascura il ruolo delle strutture spaziali nel generare disuguaglianze, e le città, da luogo dell’integrazione e dello scambio, si sono trasformate, come scrive Erbani, “in una potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e dei loro insiemi, entro cui agiscono le ideologie del mercato e le retoriche della sicurezza”.
Proprio i temi connessi ai rischi ambientali offrono l’occasione per trasformare i rituali burocratici della partecipazione in più efficaci forme di cooperazione nel percorso delle scelte. Si sta producendo un nuovo rapporto tra oggetti e soggetti nelle trasformazioni dell’abitare, in una sorta di democratizzazione dell’innovazione e della creatività, in cui assume un ruolo più decisivo il capitale sociale rispetto a quello, oggi predominante, finanziario. In questo modo nella società molecolare, proprio attraverso la percezione di un futuro a rischio, soprattutto per le questioni ambientali ed energetiche, si è costretti ad uscire dai propri individuali ripari per partecipare ai percorsi di modificazione dell’ambiente in cui attivare, come è indispensabile, i contesti per rispondere ad una generale domanda di protezione e prevenzione. Tuttavia, a fronte della percezione diffusa di una società totalmente atomizzata - non cittadini, ma, consumatori i cui bisogni e desideri sono alimentati da un immaginario globale prodotto altrove - si deve, invece, cogliere l’opportunità rappresentata dall’affiorare di forme diverse di comunità (possibili corpi intermedi e nuovi soggetti, anche in conflitto tra loro) che potrebbero costituire agenti di coagulo di interessi diversi e assumere, quindi, un ruolo più incisivo nei percorsi delle decisioni. 
Può essere rilevante quanto potrebbe avvenire, ad esempio, per mezzo di una guida intelligente nella realizzazione di comunità energetiche locali. La trasformazione, auspicata da Rifkin, da consumatori a produttori di energia, passando da azioni individuali a iniziative collettive, potrebbe permettere di intervenire in quel patrimonio grigio di molte città del tutto inefficiente, non solo dal punto di vista energetico. E’ una opportunità di particolare rilevanza se si considera, appunto, la difficolta del reperimento di risorse pubbliche per interventi di largo respiro soprattutto per quell’esteso coacervo di edilizia ad elevata densità, ma di cattiva qualità, con una proprietà parcellizzata che rende difficoltosa una azione di trasformazione da condividere tra una molteplicità di soggetti, se non per mezzo di un’azione coordinata da un soggetto unico.  Una società finanziaria o una nuova configurazione delle STU, ad esempio che potrebbe vedere in questo caso coinvolte anche le utility dell’energia o le ESCO. La possibilità di operare mediante società di trasformazione urbana, costituite dal Comune anche con la partecipazione della Provincia e della Regione e con la partecipazione di soci privati, è già prevista – com’è noto – dall’art. 120 del testo unico degli enti locali, il quale consente appunto la preventiva acquisizione mediante esproprio delle aree interessate dall’intervento.
Pensiamo anche ai temi proposti dalle diverse forme di “partenariati di collaborazione reciproca”. Ad esempio nei contratti di fiume o nei progetti per le aree interne.  Sono percorsi da intendere secondo la concezione di «regione funzionale» sostenuta dall’Ocse in cui superare le formule standard di una pianificazione dall’alto secondo i rigidi confini definiti dalle competenze amministrative.
È, infatti, pericolosamente fuorviante una lettura ed una conseguente agenda di politiche territoriali, programmaticamente e istituzionalmente circoscritta alle cosiddette “aree interne”, per cui le azioni da condurre non nascano dalla valutazione, invece, della fertilità – già presente storicamente – dell’interscambio tra diverse entità (tutte, secondo questa interpretazione, in qualche modo “diversamente interne”) in cui, come per metalli diversi messi in contatto, si sviluppi, per i diversi “potenziali”, una vitale corrente.
In questo modo si offre alla trasformazione di questi territori una delle condizioni essenziali per la valorizzazione delle diverse identità locali: una migliore e più equilibrata e diffusa accessibilità materiale che possa accompagnare una più pervasiva accessibilità digitale. Se la globalizzazione non annulla il ruolo dei territori locali, il riconoscimento del modo proprio di ogni area di essere differente è la chiave primaria per promuoverne la attivazione come fattore essenziale di sviluppo, soprattutto nella prospettiva di un auspicato passaggio dalla città smart a un territorio smart, così da poter immettere nei circuiti globali, innalzandone la qualità abitativa, il pulviscolo insediativo che connota oggi la realtà europea e specialmente italiana.
Questo il traguardo che le esperienze condotte nella Terza Missione possono indicare: la condivisone del ruolo strategico della affermazione di Sorkin su cosa possa essere una idea di democrazia per i nuovi territori metropolitani: un “sistema che tutela non più tanto l’insieme dei diritti che ci consentono di essere uguali, ma piuttosto l’insieme dei diritti che ci permettono di essere diversi.”10 Perché nei territori sempre più simili per poter concepire un progetto di territorio, infine“ciò che conta sono le differenze che possono produrre differenze, cioè accrescimento della varietà dei territori abitabili.”11




Note

1 In A.Bonomi, Per un intelletto collettivo sociale. Piccole note per una teoria e una pratica dell'esodo, Scienze del Territorio, vol. 6,  2018, p.29.

2L. Nazzicone, Commento all’art. 9 della Costituzione in La Magistratura, organo della ANM.

3 G.C.Argan, Storia dell’arte come storia della città, Editori Riuniti, Roma 1984, p.224.

4 Cortesi I. Natura pubblica, in: Criconia A., Cortesi I., Giovannelli A. (a cura di), 40 parole per la cura della città. Lessico dei paesaggi della salute, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 161-163.

5 Pavia, R., Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale, Donzelli, Roma, 2019.

6 Messori R. La porosità dei muri. Su alcune analogie tra Walter Benjamin e Maurice Merleau-Ponty in Ricerche di S/Confine, vol.II, n.1 (2011) - www.ricerchedisconfine.info, p.277.

7 A.Clementi, Editoriale, EWT 25.

8 C.Olmo, Confini, valori, terzietà oltre il villaggio di Euclide, in De Rossi A., (a cura di) Grande Scala, List, Trento 2009, p. 328.

9 Non è sulla base di un rapporto meramente quantitativo che può valutarsi la rispondenza o meno all’interesse pubblico nella scelta di ricorrere al programma integrato d’intervento dovendo piuttosto considerarsi se gli interventi di nuova edificazione (maggioritari o minoritari che siano) siano funzionali agli obiettivi di carattere pubblico” (Cons. Stato sez.IV 2985/2008)).

10M.Sorkin, La tematizzazione della città, in Lotus n.109, 2001.

11 C.Donolo, in Territori, sempre più simili, PPC 22/23.