Alcuni indirizzi per il futuro di EWT

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L’azione e la parola. I mondi divergenti dell’urbanistica contemporanea
Pier Carlo Palermo PDF




1. Bridging the gap

Quante volte, nel mondo del planning, abbiamo ascoltato l’appello a colmare lo scarto fra teoria e pratica, rappresentazioni e realtà, forme discorsive e azioni concrete? L’esigenza sembra ovvia, ma le buone intenzioni rischiano di ridursi a una petizione di principio, ripetitiva e senza sbocchi, che fatica a superare lo stadio delle mere esortazioni; mentre persistono divergenze profonde fra il mondo dei fatti urbani e le costruzioni intellettuali degli urbanisti. Per riprendere la questione, mi accingo a svolgere un esercizio per me inusuale: prendere in considerazione le rappresentazioni dell’urbanistica che emergono da alcune riviste accreditate del settore. Queste fonti possono essere uno strumento utile per comprendere e valutare, in una certa fase, le tendenze fondamentali dell’area disciplinare? La questione sorge spontanea nel momento in cui una rivista come EcoWebTown intende riflettere sul suo decennale. La risposta potrebbe sembrare scontata, ma io credo che qualche dubbio sia legittimo nel campo specifico dell’urbanistica (e più in generale dell’architettura). Aprendo gli ultimi numeri di alcune riviste storiche del settore, un osservatore curioso farebbe fatica a ricomporre un quadro d’insieme, critico e prospettico, al tempo stesso significativo ed esauriente; si troverebbe invece di fronte a un paesaggio spesso tradizionale (quasi immobile e inerte), a volte instabile ed effimero (sotto gli impulsi emergenti di fase in fase), in generale assai frammentato e confuso; dove la varietà estemporanea dei temi e dei casi non consente di fare chiarezza su alcuni nodi da tempo irrisolti, che purtroppo incidono sulla reputazione e sull’autorevolezza dell’area. Ho sempre pensato che in questo campo la produzione di contributi meno parziali e occasionali (nella forma di saggi o libri più impegnativi) fosse più significativa per rappresentare e discutere la cultura e la pratica disciplinare. Ogni tentativo di assimilare queste pubblicazioni allo stile esigente – incomparabile per gli alti requisiti di rigore e innovazione –  delle riviste edite nel campo delle scienze matematiche e fisiche, rischia di risultare ingenuo e fuorviante. In questo caso, infatti, prevalgono i contributi di divulgazione e commento di esperienze ormai compiute oppure aperture di orizzonti che valgono come scenari eventuali, talora plausibili o auspicabili, ma ancora privi di sviluppi concreti. È vero però che gli articoli su rivista generalmente implicano tempi più brevi di elaborazione e di stampa rispetto ai libri; potrebbero rappresentare, pertanto, un indicatore più sensibile delle tendenze in atto o emergenti. Per queste ragioni, aprirò la mia riflessione con una rapida ricognizione sui contributi più recenti di alcune riviste internazionali. Il quadro di riferimento ormai è così affollato che diventa difficile orientarsi, ma io adotterò due criteri molto semplici. La prima opzione tende a privilegiare alcune fonti che possono vantare una lunghissima tradizione e un’autorevolezza (un tempo) indiscussa. Mi riferisco alla britannica Town Planning Review (nata a Liverpool, culla dei primi insegnamenti di urbanistica) e al Journal of the American Planning Association (edito in un’altra città-madre dell’urbanistica, come Chicago). Le due riviste alle origini hanno dato evidenza a due orientamenti culturali non equivalenti: la concezione “fisica” della pianificazione in Gran Bretagna, alle soglie del Novecento; l’apertura di orizzonti, nei primi decenni del secolo, del city planning nordamericano, più sensibile ai temi giuridici, amministrativi, processuali, sociali e ambientali. La mia seconda opzione mette in gioco il ruolo controverso della teoria. Non mancano i dubbi sulla legittimità e sulla rilevanza delle riflessioni teoriche che la disciplina ha coltivato nel lungo periodo (non senza incertezze e ripensamenti, che però raramente hanno dato vita a vere revisioni critiche). In questo quadro, potrebbe essere interessante osservare le tendenze di qualche fonte che della teoria ha fatto il focus distintivo: come la rivista Planning Theory edita da SAGE, in Gran Bretagna, dal 2002 (per un breve periodo, a fine Novecento, Luigi Mazza ne ha curato una versione preliminare in Italia). L’obiezione più comune a queste esercitazioni intellettuali evidenzia qualche rischio di astrazione, accademia, irrilevanza. Per osservare le reazioni disciplinari a tali effetti potenziali (non privi di plausibilità), suggerisco di prendere in considerazione un’altra rivista, pubblicata anch’essa in Gran Bretagna da un paio di decenni, che fin dal titolo si propone di gettare un ponte fra teoria e pratica: Planning Theory and Practice, che ha sede nell’Oxfordshire (Milton Park), mobilita autorevoli figure accademiche, ma cura anche le relazioni con la principale associazione professionale britannica, il Royal Town Planning Institute. Innumerevoli altre fonti potrebbero essere prese in considerazione, ma la mia ipotesi è che questa selezione possa offrire qualche indicazione di tendenza: due riviste storiche, con un orizzonte ormai quasi secolare, e una esplorazione aggiornata, nell’arco degli ultimi 20 anni, sul terreno controverso delle teorie. Sarà necessario anche delimitare l’orizzonte delle osservazioni: ho scelto gli ultimi tre anni, che sono stati segnati da criticità intense e in parte inattese, sul fronte sanitario e ambientale innanzi tutto. È ragionevole chiedersi come la disciplina, da tempo alle prese con una crisi ormai endemica, abbia voluto e saputo reagire alle nuove emergenze di sistema.

2. Orientamenti in atto della riflessione disciplinare

Apriamo gli ultimi numeri delle quattro riviste che ho selezionato1, relativi agli anni 2020-2022. Il Journal of the American Planning Association in quel periodo ha pubblicato i volumi 86-88 (in totale 12 numeri). È la rivista di riferimento di APA, l’associazione professionale più consistente nel mondo dell’urbanistica. Nel 2018 dichiarava circa 40.000 associati, dislocati in 90 paesi (ma la rappresentanza più significativa era nordamericana). Si tratta indubbiamente di una delle riviste storiche del settore, le cui prime anticipazioni, a Chicago, risalgono al 1915 (con il titolo City Plan). Ha fatto seguito l’esperienza di City Planning (dal 1925); poi Planners’ Journal (dal 1935) e Journal of the American Planning Institute (dal 1944). Il formato JAPA esiste dal 1980. Dal 2019 la direzione è affidata a Ann Forsyth, attualmente a Harvard. L’Editorial Advisory Board comprende quasi cinquanta membri: pochi sono oggi i maestri di chiara fama, e soltanto due gli europei (un esponente della scuola di Delft e Yvonne Rydin, attualmente alla Bartlett School di Londra). Si manifesta dunque uno scarto fra l’orizzonte internazionale di APA e la struttura-guida della rivista, che risulta fortemente radicata nel continente nordamericano. L’impact factor di JAPA ha raggiunto un picco nel 2021 (4.8), ma l’indice continua a variare sensibilmente nel tempo (nei tre anni precedenti, nell’ordine, il dato ha assunto i valori: 2.5, 3.8, 1.9).

Tra il 2020 e il 2022, Town Planning Review ha pubblicato i volumi 91-93 (17 numeri nel momento in cui scrivo). Edita fin dal 1910 dall’Università di Liverpool (che in quel periodo ha attivato il primo corso di civic design), la rivista è rapidamente diventata un’istituzione per l’urbanistica britannica, precedendo di pochi anni la costituzione del primo organismo professionale, fondato nel 1914: il Town Planning Institute, che nel 1959 ha ricevuto la Royal Charter e nel 2018 contava circa 25 mila associati, in massima parte britannici (poco più di un migliaio avevano una cittadinanza diversa). La gestione della rivista ha mantenuto le radici territoriali: la direzione è affidata a tre studiosi, due britannici (Alex Lord e John Sturzaker, il primo in rappresentanza dell’università di Liverpool), e uno nordamericano (Daniel Hess). Il comitato editoriale è internazionale e comprende una trentina di membri: fra i più noti, Alterman, Davoudi, Lauria, Ann Forsyth, Freestone, Stiftel,  Talen, Tewdwr-Jones, Verma. Da tempo la rivista non esprime un chiaro orientamento editoriale (manca qualunque presa di posizione da parte dei responsabili) e si configura come una collezione di contributi per molti aspetti contingenti (l’esito mi fa rimpiangere riviste più strutturate, come la nostra Urbanistica). I numeri monografici costituiscono un’eccezione: generalmente i temi scelti sono classici (regolazione, densificazione, green urbanism), ma spicca l’attenzione, forse un po’ emotiva e fuori misura, dedicata alla pandemia nell’ultimo biennio (il tema esclusivo dei primi tre numeri del 2021).  Da tempo l’impact factor è modesto (inferiore a 2 nel 2021; anche più basso negli anni precedenti).

Radicalmente differente è l’esperienza di Planning Theory, edita a Londra dal 2002 (dopo una breve stagione italiana) e giunta nel periodo ai volumi 19-21 (al momento 11 numeri). L’orientamento teorico è confermato dalla figura del responsabile editoriale, che ha sempre avuto un profilo eccentrico rispetto alle pratiche disciplinari: dapprima Jean Hillier e Michael Gunder (che fieramente si proclamavano «urbanisti poststrutturalisti», in omaggio ad alcuni orientamenti della cultura francese del tardo Novecento); poi (dopo la scomparsa di Gunder nel 2018) Angelique Chettiparamb, attualmente a Reading, autrice di studi di frontiera (per la disciplina) perché ispirati dalle teorie dei sistemi e della complessità. In ogni caso, la rivista ha saputo attirare l’attenzione delle figure più autorevoli del mondo internazionale del planning. In passato, hanno fatto parte del comitato editoriale personaggi di grande notorietà; attualmente sono presenti (fra gli altri), Hillier e Sanyal (con responsabilità editoriali specifiche), Susan Fainstein, Sager, Stiftel, Huw Thomas, Thorgmorton, Verma, Yiftachel. È vero che l’adesione a un comitato si può ridurre a un atto meramente formale (infatti, alcuni attori partecipano al Board di più di una rivista, anche di diverso orientamento), ma appare evidente un interesse potenziale per le questioni teoriche della fondazione o rifondazione disciplinare. L’impact factor sembra confermare queste attenzioni: nonostante l’impostazione specialistica (rispetto per esempio a JAPA, che si rivolge innanzi tutto a una vasta corporazione professionale), nel 2021 il dato ha superato il valore 3, allo stesso livello del 2018 (è stato leggermente inferiore nei due anni intermedi).

Planning theory and practice è un’esperienza coeva, anch’essa britannica. Nel periodo ha pubblicato i volumi 21-23 (14 numeri). Ogni numero è aperto da un editoriale, affidato di volta in volta a voci diverse, che propone riflessioni sul tema al centro dell’attenzione, ma cerca anche di tracciare un filo di continuità e di coerenza fra tutti i contributi pubblicati in quella sede (operazione volonterosa, ma spesso un po’ forzata e non del tutto plausibile). La volontà di gettare un ponte fra accademia e professione è la ragion d’essere della rivista. Trova sostegno in una rete di autori di chiaro prestigio accademico, ma anche nel rapporto privilegiato, di confronto/cooperazione, stabilito con il Royal Town Planning Institute (funzione già svolta, in passato, dalla Town Planning Review). In questi anni la responsabile è Heather Campbell, attualmente alla British Columbia (Canada), fino al 2018 a Sheffield (UK). Il comitato editoriale è costituito da una generazione di studiosi emergenti che si accompagna a figure di spicco del tardo Novecento (Booher, Susan Fainstein, Healey, Roy, Salet, Sandercock, Sanyal, Allen Scott, Talen, Verma); alcuni personaggi autorevoli assumono impegni editoriali specifici (Forester, Jill Grant, Kuntzman). L’impact factor dell’ultimo anno assume un valore inferiore a 4 solo per pochi centesimi; la tendenza è in ascesa dal 2016 (quando però il dato superava appena l’unità). È il caso di osservare che, in tutte le pubblicazioni qui prese in considerazione, il valore di questo indicatore è molto inferiore ai livelli abituali delle riviste più prestigiose in campo scientifico o medico. Questo significa che i meccanismi di circolazione e citazione dei contributi non sono strettamente comparabili, per consistenza e capacità di influenza (i mondi restano diversi, nonostante i tentativi di imitazione). Vediamo ora i caratteri salienti dei contenuti più recenti di queste fonti.

Journal of the American Planning Association (JAPA). Paradossalmente, la rivista si rivolge a professionisti che operano in un gran numero di paesi (90), ma mantiene un carattere regionale – anche se la regione di cui si tratta corrisponde agli Stati Uniti d’America! Infatti si contano sulle dita, nel periodo, i problemi e le esperienze di pianificazione che appartengono a contesti diversi dal Nord America: un contributo estemporaneo dall’Olanda, escursioni singolari in Sud Africa o in Asia; un’attenzione meno sporadica verso l’Australia. Ciò nonostante, la responsabile della rivista (Ann Forsyth, dal secondo numero del 2019) sostiene che l’orizzonte vuole essere internazionale (Forsyth, 87-1). Forse viene data per scontata l’egemonia culturale delle scuole ed esperienze nordamericane sull’intero campo disciplinare. Forsyth rivendica anche un orientamento generalista (Id., 86-2), cioè la volontà di trattare i principali problemi emergenti nel mondo della pianificazione urbana e territoriale: con riferimento ai molteplici settori di intervento (casa, forme insediative, infrastrutture, mobilità, ambiente) e a diverse funzioni disciplinari (regolazione, previsione, conservazione, ma non la progettazione). Questa dovrebbe essere una scelta di continuità rispetto a una tradizione disciplinare che risale a Harvey Perloff nel cuore del Novecento, ma emerge un punto rilevante di differenza. L’aspirazione generalista era giustificata, secondo Perloff, dalla disponibilità di un metodo comune per trattare la varietà dei problemi (Burns e Friedmann, 1985). La rivista, invece, non dispone di un quadro di riferimento unitario, che possa valere come visione teorica e approccio metodologico effettivamente condivisi. L’orientamento generalista si manifesta soltanto tramite la giustapposizione di una pluralità di temi, la cui elaborazione risponde a criteri contingenti (non mancano affinità fra i casi, ma neppure divergenze significative). Nel merito dei problemi, la rivista non esprime una linea editoriale, anche se ogni numero si apre con un intervento della responsabile. Il contributo in qualche caso (ma non sempre) allude a questioni fondamentali: what is planning? (Forsyth, 88-1); come intendere e costruire la teoria (Id., 86-4, 87-2), la ricerca (Id., 87-3), la conoscenza del futuro (Id., 86-1); come superare il solco imbarazzante che normalmente divide teoria e pratica (Id., 85-2), accademia e professione (Id., 85-4). Lo scopo degli interventi, tuttavia, è chiaramente circoscritto: non interessa una riflessione critica e tanto meno una possibile revisione o innovazione concettuale, ma innanzi tutto richiamare indirizzi e criteri utili per la composizione dei testi da pubblicare sulla rivista (il discorso diventa palesemente autoreferenziale): quale stile di argomentazione e di scrittura viene raccomandato (Forsyth, 88-4); come opera la peer review (Id., 87-4, 88-2); quale è la funzione delle diverse sezioni della rivista (Id., 86-1); come gestire e, per quanto possibile, condividere le basi di dati sulle quali gli studi sono fondati (Id., 88-3). JAPA in effetti si presenta come una collezione di esperienze specifiche, con caratteri eterogenei e contingenti. Ogni caso viene illustrato e commentato sulla base di indagini generalmente accurate, ma non diventa materiale per una riflessione teorica e neppure per qualche generalizzazione empirica, utile per orientare le pratiche. Il contributo di conoscenza e valutazione, per lo più, resta legato al caso e al contesto specifico. Le raccomandazioni tendono a privilegiare una famiglia di temi e obiettivi indubbiamente edificanti, ma restano vaghe sul piano degli strumenti più opportuni per conseguire gli scopi virtuosi, e totalmente elusive rispetto ai problemi della progettazione (l’urban design risulta estraneo al dominio disciplinare). Nella maggior parte dei casi, le conclusioni sono provvisorie e non prive di elementi di incertezza, che non dipendono da un deficit di conoscenza, ma generalmente dalle tensioni o contraddizioni irrisolte fra interessi contrastanti e in competizione. Non bastano le buone intenzioni degli urbanisti di fronte all’inerzia e all’attrito dei processi reali, che continuano a generare difficoltà e dilemmi di difficile soluzione.

In effetti, lo stile dell’argomentazione segue una sequenza tipica, che si ripete fedelmente nella maggior parte dei contributi pubblicati: «analisi-buone intenzioni-difficoltà-dilemmi». Ho già accennato alla ricchezza delle analisi empiriche. Si tratta spesso di accurate indagini quantitative, che elaborano grandi basi di dati, ufficiali e a scala vasta, spesso ricorrendo a metodologie statistiche non elementari. Il limite principale è il carattere aggregato delle fonti, che consente comparazioni a distanza nello spazio e nel tempo, ma non approfondimenti locali. Infatti, rarissime sono le indagini quantitative progettate ad hoc dai ricercatori in un contesto specifico. Non mancano invece inchieste qualitative svolte in qualche ambito problematico grazie a interviste mirate, che coinvolgono una schiera spesso consistente di testimoni privilegiati (politici, tecnici, amministratori, cittadini-utenti). Nel complesso, i contributi di analisi rappresentano i risultati più solidi (o tra i più solidi) di cui la rivista dispone: quasi JAPA volesse competere con la gloriosa Urban Studies. Un altro carattere saliente – ma sarebbe difficile intenderlo come un risultato – è il richiamo costante a buoni valori e intenzioni. I temi dell’equità, dell’inclusione, della partecipazione, della sostenibilità, della qualità dell’abitare e della vita comunitaria, ricevono un’attenzione pervasiva e, all’apparenza, costituiscono una priorità condivisa. Il dato non è ovvio, perché il planning è stato spesso inteso, nelle esperienze nordamericane, come strumento funzionale alla growth-machine urbana e territoriale (Palermo, 2022, cap. 4.7): non è questa, forse, la sua missione principale? JAPA, che pure ai professionisti innanzi tutto si rivolge, sembra sostenere un punto di vista diverso: il primato indiscusso dei valori. Forse si tratta di un riflesso coerente del «codice etico» che APA ha voluto sottoscrivere; forse soltanto di un’opzione retorica. Comunque, sulla carta, alcuni principi etici sono celebrati e promossi come raramente avviene in altri contesti disciplinari (l’enfasi è certamente inferiore nelle altre riviste che commenterò in questa sede). Questo non significa che il bilancio finale sia positivo. Per una sorta di contrappasso, all’enunciato di buone intenzioni fa seguito, generalmente, il riconoscimento di difficoltà non banali, che condizionano le pratiche e non sembrano ammettere soluzioni semplici. Apriamo, a caso, un numero della rivista, per esempio l’ultima pubblicazione di cui dispongo (88-4, 2022). Troviamo un appello a favore dell’inclusionary zoning (che dovrebbe evitare qualunque forma di discriminazione sociale e abitativa); la conclusione, però, evidenzia gli ostacoli che, in pratica, si frappongono al pieno conseguimento dell’obiettivo (Wang, Fu). La modifica delle regole di zonizzazione (rezoning) può diventare una grande opportunità di giustizia e di progresso, civile e territoriale, ma non possiamo escludere il rischio di processi di gentrification e, in generale, una distribuzione non equa dei benefici conseguenti (Grodach). L’accessibilità è un tema-obiettivo storico della pianificazione; non è facile, però, affrontarlo senza suscitare problemi di giustizia distributiva degli investimenti da decidere e attuare (Martens et al.; Brown et al.). Considerazioni simili sorgono in relazione al tema del controllo dello sprawl urbano: perché il modello della edge city è ambizioso, ma non ha dato esiti sempre convincenti (Day et al.). Contrastare il climate change è un obbligo morale prima ancora che politico, ma le misure in agenda sollevano problemi notevoli di giustizia ambientale (Fitzgerald). Il collaborative planning presuppone la possibilità di intese convinte ed efficaci fra istituzioni e parti sociali, ma l’esperienza dimostra che forme di dissenso, resistenza o conflitto sono molto comuni (Margerun et al.). Alla ricerca continua di tecniche nuove e più funzionali, da qualche tempo i planners hanno rivolto lo sguardo verso le procedure gestionali di scenario planning: dobbiamo ammettere, però, che le indicazioni conseguenti dai primi esperimenti restano un po’ vaghe e incerte; su tali basi, sembra difficile fondare o giustificare scelte di grande responsabilità (Chakraborty, Sherman). L’elenco dei temi e dei problemi è davvero emblematico (sebbene questo sia un numero qualunque della rivista). Si tratta evidentemente di timori ben noti, di voci già ascoltate; non c’è traccia di una revisione critica, né emerge alcuna prospettiva nuova. Le buone intenzioni devono misurarsi con la durezza delle pratiche.

Non si tratta soltanto di difficoltà: la rivista tende continuamente a riproporre una serie di dilemmi emergenti, che si prestano a una declinazione tragica – perché francamente non si intravede la via per uscirne. Una grande famiglia di dilemmi riguarda le tensioni insorgenti fra istanze di regolazione pubblica e interessi e strategie di mercato. Le strade sono progettate dagli ingegneri secondo standard di funzionalità e sicurezza del traffico, che comportano un notevole consumo di suolo. Non sarebbe più efficiente e opportuno destinare una parte di quello spazio a investimenti edilizi più produttivi (88-1: Millard-Ball)? Gli standard urbanistici generalmente prevedono ampie aree di parcheggio. Anche in questo caso, non vi sarebbero buone ragioni per ridimensionare le destinazioni d’uso destinate a quello scopo (87-3: Hess, Rehler), per consentire, invece, nuovi processi di densificazione (con finalità forse sociali, forse di profitto)? Il trattamento urbanistico dei problemi dell’accessibilità appare insoddisfacente per più di una ragione. Da un lato, il sistema delle infrastrutture e dei trasporti non riesce a sanare situazioni diffuse di disuguaglianza e ingiustizia: le opportunità di alcune fasce sociali restano oggettivamente inferiori (87-2: Bierbaum et al.; 87-4: Blumenberg, King; Siddick, Taylor).  D’altra parte, gli standard adottati sui tempi limite di accesso a certi servizi risultano spesso sovradimensionati rispetto ai bisogni percepiti dagli utenti stessi, con uno spreco conseguente di norme e di risorse (87-4: Merlin et al.): il sistema dunque offre troppo o troppo poco! La gloriosa griglia ortogonale ha svolto una funzione indiscutibile ai fini dell’ordinamento e dell’organizzazione degli insediamenti (86-1: Case Scheer). Non è tempo, ora, di adottare regole più flessibili e contestuali, per rispondere alle esigenze insoddisfatte e/o favorire la crescita (87-1: Boeing)? Il deficit di abitazioni a prezzi accessibili è una costante in una varietà di contesti. Perché le misure a sostegno della produzione fanno fatica a migliorare la situazione, e spesso finiscono per favorire gli interessi consolidati (87-4: Raynor et al.; 88-2: Garde, Song; Le, Guo: 88-4: Wang, Fu)? Perché gli investimenti in infrastrutture e trasporti non riescono a incidere, in molti contesti, sui bisogni della domanda più debole e priva di alternative (86-2: Dong; 87-4: Millard-Ball; Palm et al.)? Perché i progetti di rigenerazione urbana troppo spesso determinano processi di esclusione sociale e gentrification (88-1: Pendall et al.; 88-2: Chava, Rennes; 88-4: Grodach)? Perché l’urbanistica non riesce ad assicurare un’organizzazione funzionale e convincente alle espansioni insediative, che spesso determinano effetti perversi, cioè inattesi e non desiderabili (86-2: Keunhyun et al.; 86-3: He et al., sul caso di Hong Kong)? Il punto dolente è che non solo questi interrogativi sono ben noti, ma la rivista non offre contributi positivi e originali ai temi in discussione: si limita a confermare che un dilemma persiste. 

Il repertorio delle tecniche a disposizione risulta molto tradizionale.  Lo zoning è ancora lo strumento principe. Anzi, la versione che suscita ancora maggiore interesse è quella single-family e exclusionary, cioè la più rigida e elementare: implica, su vasti territori, il divieto di derogare dal modello dell’abitazione unifamiliare. In effetti, una decina di anni fa quasi due terzi della popolazione degli Stati Uniti viveva in questo tipo di dimora e adottava lo stile di vita conseguente (88-3: Whittemore, Curran-Groome). Solo in Australia la quota era superiore (75%), ma il dato andava decrescendo per effetto di politiche e preferenze diversamente orientate. Una tendenza alla riduzione si manifesta anche in Canada, dove alla stessa data la quota di abitazioni unifamiliari era pari al 55%. Il dato medio europeo, utile come termine di confronto, non superava la quota del 35%. Questa situazione atipica ha suscitato un grande dibattito negli Stati Uniti, almeno nel mondo del planning. Alcuni studiosi hanno sostenuto con determinazione l’esigenza di modificare radicalmente le regole, abolendo il vincolo esclusivo. In qualche contesto, la visione è diventata un progetto politico (è il caso, spesso citato, del piano Minneapolis 2040, Minnesota; si veda 86-1: Mogush, Worthington; 87-3: Kuhlmann). Le motivazioni sono chiare: quel modello insediativo comporta un alto spreco di suolo; non consente di rispondere alla domanda diffusa e insoddisfatta di abitazioni (soprattutto nella fascia dell’edilizia sociale); non favorisce lo sviluppo di funzioni e valori urbani (per i quali sembra emergere una domanda crescente fra le giovani generazioni); pertanto, sembra giustificata una politica di ragionevole densificazione (86-1: Manville; Wegmann; Yerena; 87-2: Whittemore). Non mancano però le obiezioni: si tratta di un modello insediativo che è profondamente radicato nello spirito del luogo; eventuali incrementi di densità in aree private risponderebbero eventualmente alle esigenze dei proprietari  o del mercato solvibile, difficilmente ai bisogni sociali; qualunque tentativo di imposizione politica di un regime fondiario e di un modello insediativo alternativi sarebbe profondamente impopolare e potrebbe determinare una crisi seria di consenso; è improbabile che il sistema politico voglia correre simili rischi (86-1: Searle, Phibbs; Chakraborty; Knaap, Finio; Kendig; Etienne; 87-2: Honey-Rosé, Zapata). Ecco dunque un altro dilemma di difficile soluzione: la conseguenza più verosimile è una situazione di stallo. In realtà, questo nodo rappresenta una declinazione specifica di un’alternativa più radicale (certamente non inedita): è più giusto, o almeno più efficace, fare affidamento su regole certe e impositive, oppure è meglio lasciare libero corso alla costruzione di intese su base volontaria, tramite processi opportuni di mediazione o negoziazione? Anche su questo tema le posizioni sono divergenti. La disciplina sembra ancora sensibile al bisogno di prescrizioni cogenti (86-4: Davis, Renski; 87-2: Berglund; Redaelli; 87-3: Buter et al.; 87-4: Raynor et al.), ma la società e la politica sono riluttanti o esplicitamente contrarie; alcuni planners sono pronti a prendere atto di questi orientamenti, riconoscendo il contributo essenziale degli operatori privati al buon governo delle trasformazioni territoriali (86-1: Turner, Stiller; 86-2: Kim et al.; 87-1: Stern, Lester; 87-4: Rigolon et al.). Pertanto, i dilemmi investono inevitabilmente la sfera dei valori che sono fieramente proclamati. L’equità effettiva delle misure di planning è un dato incerto e a rischio in molti contesti (86-2: Goetz et al.; 87-1: Agrawal). Le scelte urbanistiche sono davvero coerenti con i principi di giustizia (sociale, ambientale e spaziale) oppure esprimono una subordinazione agli interessi più forti, cioè rispondono a priorità e strategie di parte (87-2: Loh, Kim)? La partecipazione può diventare un meccanismo rituale: dovrebbe attivare energie e costruire consenso, ma rischia di svolgere, in molti casi, funzioni solo retoriche o strumentali (87-3: Dewar; 88-1: Pokharel et al.; 88-2: Cohen-Blankshtan e Gofen; il tema è ampiamente trattato dai numeri del 2019, vol. 85). Nulla di nuovo.

Queste sono, mi sembra, le voci principali nel periodo. Per capire e valutare il senso della rivista, penso che sia utile soffermarsi anche sui temi che invece sono elusi. La questione ambientale sembra diventare una priorità soltanto nelle situazioni di grave emergenza e in relazione ai problemi di strategia e di giustizia post-traumatica (86-3: Miller; 88-1: Spencer et al.; 88-2: Chandrasekahr et al; Zoe-Rivera et al.; 88-3: Balachandren et al.; Watson; Meerow, Keith). Qualche spazio è concesso al tema del climate change (86-2: Goh; 87-1: Kim et al.; 87-3: Buter et al.; 88-4: Fitzgerald) oppure alle questioni di environmental justice (87-1: Carolini, Raman; 87-3: Sadler et al.; 88-1: Lieberknecht). Mancano invece riferimenti significativi ai problemi classici: verde in città, ecologia, sostenibilità. Non vi è traccia di riflessioni sui luoghi, neppure nelle forme (che sono state) di moda del place-making o dei form-based codes (la concezione della regolazione è tradizionale, come ho documentato). Sono totalmente elusi i temi dell’urban design (che pure Forsyth ha trattato, quando operava alla Cornell University), come se quello fosse un altro mondo rispetto alla pianificazione (lo riconosce onestamente uno studioso autorevole e interessante come Robert Beauregard, 2020, pp. 4-5). JAPA accetta dunque, senza turbamenti, una divisione storica fra planning e design, che ha provocato molti danni. La politica, le politiche sono temi che restano in ombra, anche se non vi è professionista che ne ignori il peso e le conseguenze. La rivista si limita a pochi cenni, del tutto sporadici. È utile constatare che possono differire le preferenze di politici e tecnici rispetto alle priorità della pianificazione territoriale (la politica è certamente più sensibile ai temi della riduzione delle tasse o della funzionalità dei servizi, rispetto alla declamazione dei valori etici del planning: 87-2, Han et al.). È opportuno verificare la coerenza, non sempre adeguata, tra forma del piano e azioni effettive (87-1: Ohm). Sono leciti dubbi sull’influenza effettiva (da valutare) del piano urbanistico rispetto ai processi più rilevanti di decisione e trasformazione territoriale (86-1: Liao et al.). Elementi tutti degni di interesse, che restano però sospesi nel vuoto, perché manca una riflessione non episodica sulle relazioni fra politica e planning. Altrettanto debole è la discussione dei temi della governance, che per una struttura di governo a molti livelli rappresenta una sfida sempre attuale, che è difficile eludere. Sono disponibili solo pochi contributi, evidentemente occasionali: un caso di integrazione fra politiche territoriali a scale differenti, in Olanda (86-4: Yu et al.); un modello di pianificazione dei trasporti, negli Stati Uniti, che cerca di coordinare diversi livelli di governo, introducendo anche meccanismi di deliberazione pubblica (88-3: Ray); un’esperienza statunitense di pianificazione regionale, che vorrebbe conciliare le funzioni di coordinamento multilivello con un approccio locale place-oriented (88-2: Randolph-Currid, Hakett). In verità, manca anche, sorprendentemente, qualunque riflessione sul plan-making, cioè sulla costruzione e attuazione della forma-piano (come se la questione fosse ormai da considerare scontata). Mi sono imbattuto in un solo contributo sul tema, che riprende la questione in relazione ai problemi incombenti del climate change, purtroppo limitandosi a parafrasare – ancora oggi! – il vecchio modello razional-comprensivo (86-1: Meerow, Woodruf). Neppure la visione, o meglio il visioning, è oggetto di attenzione. Come ho accennato, sono disponibili soltanto alcuni contributi di scenario planning (86-2: Knaap et al.; 86-6: Avin, Goodspeed; 88-4: Chakraborty, Sherman): ultima versione della riflessione e sperimentazione, largamente fallimentare, di varie forme di spatial planning/strategic planning, negli ultimi decenni. Sfortunatamente, la proposta attuale è ancora più debole, tecnicamente e politicamente, delle soluzioni precedenti. Basta prendere in considerazione non le banali generalizzazioni dei consulenti di management, ma gli esperimenti – sofisticati, ma non produttivi – che Bernardo Secchi ha coraggiosamente tentato in contesti complicati (Parigi e altrove): non può essere questa una prospettiva innovativa e convincente per gli sviluppi della disciplina (Palermo, 2022, cap. 10). Ho già rilevato che i contributi di analisi sono notevoli; manca però qualunque riflessione sui problemi della conoscenza urbanistica, che non è soltanto analitica, ma anche interattiva, comunicativa, partecipata, insorgente e altro ancora. Qualche appunto marginale si trova solo in alcuni editoriali di Ann Forsyth (che ho già segnalato), ma si tratta soltanto di esortazioni: la teoria dovrebbe…, il planning vorrebbe…, i rapporti fra accademia e pratica dovrebbero essere più curati e più fertili. Come politica editoriale, la rivista non intende trascurare i problemi della teoria, ma è disponibile a prendere in considerazione soltanto i riferimenti che sono veramente utili alle pratiche. Il rischio è che la scatola rimanga vuota; infatti, questa volontà e cura resta latente nella maggior parte dei contributi. D’altra parte, una progressiva caduta di interesse per le questioni teoriche è documentata oggettivamente da JAPA, nel corso degli ultimi 30 anni (86-4: Fang, Ewing).

La mia impressione, per provare a trarre qualche conclusione dopo una lettura minuziosa, ma non entusiasmante, è che la rivista sia un organo largamente autoreferenziale: si rivolge a una corporazione chiusa, che non vede motivi per mettersi in discussione; è abituata a convivere con i condizionamenti del mondo reale; non sembra in grado o non si preoccupa di reagire alle difficoltà e incertezze conseguenti. Nella forma, è sempre pronta a proclamare principi virtuosi e non dubita di essere dalla parte giusta della storia. I tempi, i modi, le possibilità effettive di un’applicazione concreta di questi valori, non sembrano essere una priorità da indagare e discutere. Inoltre, gli argomenti vengono esposti con indiscutibile cura (lo stile JAPA), ma sono in massima parte già noti, quindi non originali. L’immagine delle pratiche disciplinari/professionali che emerge dalla rivista risulta dunque parziale e forse tendenziosa: uno spazio enorme è concesso ad alcuni valori edificanti (equità, inclusione, partecipazione); una vigile attenzione è dedicata ai problemi più tradizionali della regolazione (come il single-family exclusionary zoning); sullo sfondo, in ombra, ma incombenti, si stagliano gli interessi concreti che sanno incidere sulle trasformazioni insediative e territoriali. Su tutto il resto, silenzio. Se questa è una visione generalista, se questo è un orizzonte globale… 

Town Planning Review (TPR). La rivista offre un’immagine della disciplina per molti aspetti differente dal quadro appena delineato. L’osservazione dà sostegno a un’ipotesi: è imprudente dare per scontata una concezione unitaria e condivisa dell’urbanistica; le pratiche (gli interessi prevalenti e gli orientamenti guida, prima ancora) variano sensibilmente secondo il contesto, in relazione a fattori istituzionali, sociali, anche culturali. TPR è una rivista britannica, fin dalle origini sensibile alle esigenze della professione in UK (dove il Royal Town Planning Institute è essenzialmente un’istituzione nazionale, mentre la presenza di APA è più diffusa nel mondo). Tuttavia, a differenza di JAPA, la rivista di Liverpool mostra un’apertura internazionale più significativa, quanto meno entro i confini del vecchio continente: numerosi sono i contribuiti dedicati a qualche paese europeo e le analisi comparate che attraversano le frontiere. Inoltre, sebbene manchi una linea culturale dichiarata (i responsabili rinunciano a presentare un editoriale all’apertura di ogni numero), la ricorrenza di issues monografiche (quindi in qualche modo progettate) è molto più frequente rispetto al caso di JAPA: per esempio, sui temi della densificazione (91-3), della regolazione (92-5), del green urbanism (92-6), delle politiche ambientali (in Germania, 93-2), del localismo (in UK, 93-4), ma anche della New Urban Agenda elaborata dalle Nazioni Unite nel  2016 (92-6). La lista dei temi specifici di indagine e di riflessione corrisponde in sostanza al caso JAPA, ma cambia sensibilmente il peso dei singoli elementi, e anche la loro rilevanza nel quadro d’insieme che si viene a configurare. Ho segnalato l’enfasi appassionata e pervasiva (forse semplicemente retorica) che JAPA tende a concedere ai principi dell’equità e della partecipazione rispetto alle scelte territoriali. L’orientamento di TPR sugli stessi temi appare più sobrio e pragmatico: si guarda alle declinazioni concrete in situazioni particolari, senza lasciare troppo spazio alla ideologia e alle buone intenzioni. La partecipazione non deve essere solo rituale (91.2: Tippet, How; Sheng). Deve essere garantito ai soggetti più deboli il diritto di partecipare, in modo attivo e influente (92-4: Wakely e Martaraararchchi; 93-1: Radcliffe). Occorre evitare che gli interessi di parte più forti abbiano il sopravvento su chi si oppone, con buone ragioni, a eccessi di densificazione (91-2: Dockerill; 91-3: numero monografico sul tema) o a progetti di sviluppo che potrebbero mettere a rischio l’ambiente o il clima (91-2: Nurse, North; 91-5: Hooper; 93-3: Goode, Charles). Non si tratta di una campagna ideologica, ma di prese di posizione specifiche rispetto a qualche problema concreto. La regolazione, naturalmente, è un tema essenziale, ma anche in questo caso i modi della discussione sono diversi. Nel periodo di riferimento, mi pare che su TPR non sia stato pubblicato neppure un contributo dedicato al tema dello zoning (tanto meno unifamiliare) e neppure alla preservation (nonostante la presenza di un patrimonio storico più ricco di quello nordamericano). Interessano di più questioni ormai classiche di politica fondiaria e fiscale: land evaluation (93-4: Ball et al.; 93-5: Dey Bisvas, Hartman); value capture (91-6: Jones, Stephens; 92-5: McKearney et al.); planning gain (93-3: Thompson, Hepburn). In relazione al dilemma fondamentale – regole prescrittive o flessibili? – l’orientamento disciplinare prevalente è a favore di una valenza normativa più chiara e forte, anche come reazione motivata alle politiche di deregulation adottate dal governo conservatore da più un decennio (92-5: McClymont, Sheppard; Harris; Clifford, Ferm). Tuttavia, non mancano aperture verso una maggiore flessibilità, in contesti particolari; per esempio, nel campo delle politiche ambientali in Germania (91-4) o della densificazione in Olanda (91-3); due contesti dove è vigile l’attenzione per i problemi di giustizia ambientale e spaziale che possono conseguire all’adozione di regole soft. Come JAPA, TPR non si occupa intenzionalmente di plan-making, ma più estesa e significativa è l’attenzione per i temi della politica del piano e di una varietà di politiche territoriali. Sul primo punto, i capisaldi sono la questione istituzionale del localism (così come è definito dalle leggi in vigore) e il problema correlato delle interazioni, interdipendenze e possibilità di cooperazione fra livelli diversi di governo. Il localismo appare come un fenomeno, un orientamento ambivalente: può essere inteso come una opportunità virtuosa di partecipazione dal basso, o come un pretesto e un impulso per la realizzazione di interessi di parte (93-3: Lee et al.; 93-4: Yuille). Tecnicamente, si tratta di impostare nel modo più opportuno le relazioni fra neighbourhood plan, lo strumento principale del localismo (91-1: Graham), e local plan, il dispositivo più tradizionale, con funzioni direttive su un territorio più vasto (93-1: Saler). Il tema richiama la funzione della governance territoriale (91-1: Hickman, Martin), e quindi le relazioni fra poteri pubblici e interessi privati; questioni già anticipate dalle politiche laburiste ai tempi di Tony Blair; a quella fase, infatti, risalgono le visioni della new public governance (Osborne, 2010), che presuppone rapporti di cooperazione o addirittura di sostituzione del privato al pubblico, per rendere più efficienti le prestazioni di alcuni servizi. Questi temi di indagine sono dunque strettamente correlati alle vicende britanniche, politiche e urbanistiche. Radicato nel contesto è anche l’interesse per alcune politiche territoriali. Il tema della casa è trattato indirettamente, attraverso le lenti della densificazione o del localismo (ricordo un solo contributo mirato, che riguarda però la Cina: 91-1, Feng). Maggiore attenzione è dedicata ai problemi delle infrastrutture, sempre alla ricerca di una migliore integrazione con il territorio (91-1: Marshall; 91-5: Neumann), e al tema del coordinamento territoriale, a scala vasta, di alcune politiche di settore (93-4: Bafarasat et al.). Un rilievo speciale è concesso alle questioni ambientali: per i conflitti potenziali fra ragione pubblica e interessi privati (92-4: Van Karnenbeeck; 93-5: Whitten), ma anche per la possibile ambivalenza delle politiche relative, fra istanze veramente riformiste o strategie di puro greenwashing (il dilemma è la chiave del numero monografico dedicato al tema: 91-4). A differenza di JAPA, marginale risulta l’interesse per le situazioni traumatiche di disastro ambientale (incide la differenza delle condizioni naturali dei due contesti). Per esempio, il tema del climate change non attira l’attenzione che forse sarebbe opportuna (93-2: Iutto et al.; Fuchs et al.). Sorprende lo spazio enorme di riflessione concesso alla pandemia: tre interi numeri monografici nel 2021 (92-1, 2, 3) e alcuni altri saggi. Una reazione forse emotiva che ha prodotto risultati poco significativi. La densità abitativa, sempre più elevata, aumenta i rischi di infezione pandemica. Le forme insediative più comuni si sono rivelate inadeguate rispetto all’emergenza sanitaria, per problemi di organizzazione, accessibilità, dotazione e distribuzione di spazi verdi e pubblici (non è chiaro se l’obiezione sia rivolta anche ai modelli del new urbanism o delle new towns). Il sistema dei trasporti su ferro non è stato in grado di gestire in modo sicuro la domanda di mobilità, rispetto ai rischi di origine pandemica. La qualità dello spazio pubblico diventa una priorità che dovrebbe richiedere maggiori cure, anche se i vincoli sanitari sull’uso sociale dello spazio sembrano negare, nell’immediato, una reale possibilità di fruizione. Cresce l’importanza della vita privata, in casa, ma il mercato non offre soluzioni (solvibili) adeguate per dimensioni e qualità. In particolare, gli standard abitativi, sempre più compressi, non sono compatibili con il fabbisogno crescente di homeworking. Sembra plausibile attendere qualche cambiamento nella domanda e nell’offerta del mercato delle abitazioni. Che cosa chiedere all’urbanistica, durante e dopo la pandemia? Una (inedita) capacità di risposta temporanea, rapida ed efficace, alle crisi emergenti. Una preparazione più lungimirante a eventuali minacce future (ma sappiamo che il principio di precauzione è adottato con parsimonia e riluttanza dalla politica, quando i costi delle misure, in termini economici e di consenso, sembrano troppo pesanti). Una presa di responsabilità di fronte ai rischi che corrono le categorie più deboli, perché qualunque disastro, naturale, sanitario o economico, colpisce in modo più grave quelle fasce sociali. Un rinnovamento profondo per rispondere alle sfide, che dovrebbe investire il progetto di città, le regole, la governance, la gestione… tutto. Nulla da eccepire (a parte l’enfasi sul cambiamento totale), ma si tratta di osservazioni banali e propositi la cui attuazione è complicata. L’impegno editoriale non ha generato grandi risultati.

Su altri fronti, invece, emergono chiare affinità fra TPR e JAPA. Ritroviamo gli stessi vuoti, a mio avviso imbarazzanti. Non una parola sui luoghi, sulle visioni, sul design: una sola guida alla progettazione residenziale rappresenta l’eccezione, che resta poco significativa (91-5: Moreton). Non una parola sui fondamenti della disciplina: di quale conoscenza si tratta? Possiamo leggere solo un contributo autorevole, nel quale Barrie Needham (92-4) ammette che le conoscenze utilizzate dagli urbanisti per le loro elaborazioni di piano sono sempre state e probabilmente continueranno a essere non affidabili! Non una parola sulla teoria del planning, come se il tema fosse irrilevante. Qualche considerazione sull’esercizio della professione: quali ruoli (91-6: Moroni), quale etica (93-3: Hickman), quale formazione (91-5: Adams et al.). Tuttavia, la concezione del ruolo non si spinge oltre la distinzione fra operatore pubblico o privato, senza indagare la pluralità di funzioni che il professionista può interpretare nei processi effettivi: regolazione, progetto, gestione, mediazione, negoziato, attention-shaping, e altro ancora. Le riflessioni sui processi formativi si limitano a segnalare i problemi possibili di coerenza fra l’offerta tipica delle scuole britanniche e le domande di formazione espresse da contesti sociali e culturali assai diversi, situati in altre parti del mondo. La visione che la professione ha di se stessa non è entusiasmante (93-4: Taylor, Close); non manca dunque la percezione di alcune criticità, ma non è chiaro quale potrebbe essere la via per riconquistare reputazione e autorevolezza. Temo che la sola prospettiva suggerita dalla rivista, nel periodo, sia provare a fare leva sulla New Urban Agenda promossa dalle Nazioni Unite (92-4: Stiftel; 92-6: Hague). Un’ipotesi, un tentativo illusorio, che richiama altre ingenuità del passato. È bene che l’Agenda sia stata sottoscritta da un consesso mondiale (dopo un processo di elaborazione, in verità, lungo e faticoso). Non dimentichiamo però che si tratta soltanto di un manifesto virtuoso (in 175 punti!), che esprime un auspicio (e nulla più): che le città future siano più «just, safe, healthy, accessible, affordable, resilient, sustainable», in un quadro di inclusione, prosperità e qualità della vita che dovrebbe diventare sempre più diffuso e soddisfacente nel corso del tempo (UN, New Urban Agenda, 2016, p. 5). L’ipotesi che questo orientamento di valori possa offrire nuove opportunità concrete agli urbanisti per svolgere un ruolo più influente e apprezzato nel prossimo futuro (per «reinventare la professione», sostiene Cliff Hague, 92-6) è una speranza infondata e poco plausibile. Come ha già dimostrato in Europa l’esperienza deludente della European Spatial Development Perspective (ESDP), alla fine degli anni ‘90: un documento programmatico – o meglio un manifesto di principi – formulato e condiviso dall’Unione Europea, che ha suscitato tante attese, speranze e illusioni, ma ha avuto effetti quasi irrilevanti. Il problema è che gli urbanisti non dispongono delle condizioni politiche e istituzionali, ma anche tecniche e operative, che consentono di tradurre in fatti concreti le belle intenzioni. Su questo fronte la rivista non offre alcuna indicazione. Come JAPA, ci propone una rappresentazione che è ampiamente rivolta al passato. È lontana l’illusione del progresso che pure era stata un requisito essenziale per la fondazione della disciplina. Il quadro mostra un’inerzia diffusa (gli stessi problemi continuano a incombere nel corso del tempo) e una scarsa capacità di innovazione (mancano idee originali e, ancora più, esperimenti innovativi). Più che di progresso, qui si tratta di un eterno presente, che non risulta neppure confortante. Questo forse è un limite di riviste come JAPA e TPR, che vantano una storia lunga e gloriosa, ma forse restano troppo legate alle tradizioni e al mondo professionale. Progetti editoriali meno agé, più sensibili alle sfide della teoria e della ricerca, possono aprire prospettive diverse e più favorevoli?

Planning Theory (PT). La rivista rappresenta un buon banco di prova rispetto alle questioni appena formulate. È nata in questo secolo; fa della teoria il suo focus primario. Ha attirato l’interesse di autori importanti.  Anche in questo caso non è evidente la linea editoriale. L’attuale responsabile, Angelique Chettiparamb, interviene raramente (solo due editoriali nel periodo preso in considerazione). I temi sollevati non sono di poco conto: la natura della disciplina e della teoria (Chettiparamb, 20-1), i rapporti con le pratiche (Id., 21-1). I contributi, tuttavia, restano superficiali e poco originali: non fanno chiarezza sui nodi essenziali, né introducono ipotesi e visioni nuove; si limitano a esprimere buone intenzioni. Come nel caso di JAPA, l’interesse primario sembra essere offrire indicazioni utili agli autori che intendono sottoporre contributi per la pubblicazione. Raramente la rivista propone un tema monografico: nel periodo di riferimento, una riflessione sulle ideologie sottese a diverse concezioni del planning (19-1) rappresenta l’eccezione; un tema che evoca tradizioni lontane più che esperienze e domande dei nostri giorni. Nella generalità dei casi, si tratta di una collezione di contributi che restano contingenti e non rivelano neppure chiare priorità tematiche: varietà e occasionalità sono i caratteri prevalenti. Nel complesso, sembra più difficile classificare i lavori pubblicati secondo gli schemi d’ordine adottati per JAPA e TPR, che si valgono di categorie generali come regolazione, politica, equità, ambiente, e così via, La singolarità dei contributi diventa un carattere peculiare e il lettore può aspettarsi qualunque sorpresa.  Per esempio, l’ultimo numero che ho potuto consultare (22-3, 2022) tratta in sequenza modelli di analisi spaziale; le responsabilità dell’urbanistica coloniale; le modalità di coproduzione di scelte territoriali; il tema del diritto alla città, in contesti assai diversi, di Asia, Africa o Sud America. Possiamo riconoscere un filo comune, come garanzia dell’identità e della continuità della rivista?  Credo che il solo riferimento possibile sia una certa idea di teoria, che trovo francamente discutibile. Lo scopo principale del lavoro teorico dovrebbe essere favorire la comprensione, giustificazione e realizzazione delle pratiche urbanistiche in atto in un contesto, grazie a esercizi opportuni di osservazione, critica, progettazione e attuazione. La teoria consisterebbe dunque in un complesso di principi, metodi e strumenti, fondato su indagini sul campo, riflessioni critiche e criteri progettuali, utile per orientare e rendere effettiva l’azione urbanistica. Non è questo il caso: lo stile della rivista privilegia un approccio diverso. Le teorie sono prese in considerazione come un presupposto potenziale – per lo più esterno e precostituito rispetto all’area disciplinare: come sistemi o tradizioni di pensiero, o quanto meno visioni d’autore (di solito, di chiara fama), che sono stati elaborati in qualche luogo e in qualche tempo, senza una relazione diretta con le esperienze urbanistiche. I pretesti non mancano perché i problemi dell’urbanistica, per costituzione, mettono in gioco una grande varietà di questioni extradisciplinari: economiche, sociali, politiche, giuridiche, ambientali, storiche, antropologiche, psicologiche, filosofiche. Si può comprendere che alcuni urbanisti, a volte, sentano il bisogno di avventurarsi in uno di questi domini, alla ricerca di nuove suggestioni teoriche. Qualche problema può nascere per il modo e il senso di tali esplorazioni. L’ipotesi più comune – assunta come un principio che non sembra richiedere verifiche e discussioni – è che sia interessante trasferire qualche contributo esterno di pensiero, per analogia, nel campo specifico dell’urbanistica. Ne segue una trascrizione calligrafica: i discorsi degli urbanisti sono riscritti secondo il nuovo linguaggio. L’auspicio è che tale esercizio possa aprire agli attori disciplinari nuove e più efficaci prospettive di interpretazione e d’azione; anche se nella maggior parte dei casi, a distanza di anni, queste sono rimaste pure esortazioni. Il serbatoio dei riferimenti potenziali può sembrare inesauribile, data la varietà e complessità delle implicazioni che entrano in gioco in qualunque pratica urbanistica di un certo impegno. L’esercizio intellettuale, però, dovrebbe rispettare alcuni requisiti. La scelta di un riferimento teorico “esterno” dovrebbe essere giustificata con argomenti specifici e convincenti (perché quella ipotesi, e non altre, sembra promettente nel campo disciplinare). Inoltre, dovrebbe sempre valere un ragionevole principio di sussidiarietà: non è il caso di chiamare in causa sistemi di pensiero estranei e inutilmente sofisticati, se altri quadri concettuali, più semplici e familiari, sono in grado di produrre risultati sostanzialmente equivalenti. Infine, l’analogia non può essere basata soltanto su assonanze formali. Un esempio limite: trovo del tutto ingiustificata l’idea di trasferire nella sfera dell’urbanistica il pensiero complesso di Jacques Lacan, solo perché le categorie psicoanalitiche di mancanza, pulsione, desiderio e fantasia, potrebbero sembrare vagamente pertinenti per riformulare alcune retoriche urbanistiche (gli stessi problemi possono essere enunciati in forme più semplici ed efficaci: infatti, più di quindici anni di esercitazioni sul tema di ispirazione lacaniana non hanno prodotto alcun risultato significativo: Gunder, Hillier, 2009). Un solo esempio: si propone la nozione lacaniana di «significante vuoto» per evidenziare il ruolo ideologico e strumentale di alcune immagini in uso nelle retoriche urbanistiche, che non esprimono un significato, una “verità” ben definiti; preferiscono l’ambivalenza che consente di intercettare una varietà di interpretazioni e consensi nel corso del tempo. Secondo un orientamento affine (ma indipendente), la visione al futuro di un territorio può essere concepita come un «boundary object» (Star, Griesemer, 1989; Star, 2010); l’uso analogico del concetto nell’area disciplinare è proposto da Matysalo et al. (19-3). Il senso di un tale oggetto può essere percepito, ma non è univoco, né compiuto; i confini restano sfumati, l’identità può essere mobile (almeno in parte) secondo le spinte emergenti dal contesto; i margini di indeterminazione e molteplicità (rispetto, comunque, ad alcuni punti fermi e condivisi), possono diventare un fattore positivo nel corso del processo, facilitando il confronto, la comunicazione fra visioni diverse, e il sorgere di una strategia cooperativa. Nulla di nuovo, in fondo; dovremmo concludere però che, cancellando ogni riferimento a Lacan, non cambia la sostanza e la forza dell’argomentazione. Eppure la suggestione permane: nel periodo, troviamo almeno tre contributi che fanno appello esplicito a una visione lacaniana (20-3: Jabareen; Bahmanteymouri; 21-2: Wang); altre tracce rinviano alla mediazione influente di Ernesto Laclau (1985, con Mouffe; 2005) oppure di Slavoj Žižek (1999, 2008); due autori che, fra i primi, hanno esplorato un uso analogico del pensiero di Lacan nei mondi della cultura e della politica. Lo stesso processo è stato replicato innumerevoli volte, in relazione ad altre possibili fonti. Prima di Lacan, Gilles Deleuze è stato per qualche tempo un autore guida per alcuni teorici del planning, ma gli esiti non sono stati più fertili (Hillier, 2007). È più semplice giustificare i riferimenti al pensiero di Bruno Latour: per esempio, l’idea di assemblage come modalità emergente delle trasformazioni sociali e territoriali (Id., 2005); oppure l’idea di natura come costrutto almeno in parte socialmente determinato (Id., 1999, 2015). Non mancano buone ragioni per evocare le visioni originali di Michel Foucault: non pochi urbanisti e geografi si sono cimentati in questo esercizio, non sempre con risultati notevoli. In questa sede, la concezione del potere di Foucault ha ispirato un lavoro di Yvonne Rydin sulle relazioni fra potere, ideologia e regolazione (19-2). I temi attualissimi del politico e del postpolitico hanno giustificato attenzioni diffuse, nell’area disciplinare, verso una galleria di autori di fama: Mouffe e Laclau, Hardt e Negri, Rancière, Badiou. Peccato che le loro posizioni siano distinte e in qualche caso contrapposte, mentre le escursioni urbanistiche tendono spesso a indebite sovrapposizioni o intrecci confusi (Palermo, 2022, cap. 4.8, 4.9). Non mancano riferimenti più occasionali, che possono essere considerati fortuiti e generalmente restano esperienze singolari. Ho già segnalato l’uso della nozione di boundary object (19-3: Matysalo et al.). Blecic e Cecchini (19-2) hanno voluto parafrasare letteralmente il concetto di anti-fragile, elaborato da Nassim Taleb (Things that gain from desorder, 2012), per discutere il tema della resilienza in urbanistica. Lo scopo è suggerire un’alternativa alla concezione più diffusa, che allude alla capacità di un sistema di recuperare l’equilibrio preesistente dopo una perturbazione esterna. L’idea è che la reazione a una crisi possa essere anche una trasformazione proattiva: un’ipotesi già ampiamente esplorata dalla cultura del progetto e non estranea alle interpretazioni della resilienza (Palermo, 2022, cap. 4.5), senza alcun bisogno di chiamare in causa Taleb. Andreas Faludi ha voluto riprendere da Jan Zielonka (2014) l’idea di «nuovo ordine medievale», come sistema di poteri disposti a diversi livelli, con confini locali permeabili, aree di sovranità parzialmente sovrapposte, una rete di connessioni e interazioni funzionali nello spazio. Lo scopo era trovare un’alternativa alle concezioni «territorialiste» della disciplina: alternativa necessaria, a suo avviso, perché il territorialism rappresenterebbe una cultura chiusa e miope, un’idea di governo conservativa, ma anche un ostacolo alle funzioni di spatial planning (Faludi, 2018; la recensione del libro, a cura di Jonathan Metzger, si trova in 20-1). Faludi evidentemente non prende in considerazione le ragioni che hanno indotto Alberto Magnaghi a sostenere per anni una visione edificante che assume il principio di territorialità come fondamento (fino a Magnaghi, 2020). Resta il semplicismo di un esercizio analogico, da parte di Faludi, che può valere soltanto come una vaga suggestione. Altri riferimenti potrebbero emergere dai prossimi numeri della rivista, in forme anche inedite e sorprendenti; con ogni probabilità, però, non cambierà la concezione della teoria, e quindi i limiti che ho evidenziato non saranno superati. PT si configura come un paniere di escursioni estemporanee, talora arbitrarie o superflue, che purtroppo in molti casi non riescono a produrre risultati solidi e innovativi.

Il punto è: questi esercizi consentono almeno di fare chiarezza sui problemi aperti della teoria urbanistica? Paradossalmente, possono essere fonte di ulteriore confusione e ambiguità. Ci troviamo in un mondo di nuances sempre più indistinte, dove i dilemmi non trovano soluzione, ma si riproducono senza sosta, fra incertezze irrisolte e contaminazioni sempre possibili.  Per esempio, è noto che la tradizione del communicative planning non concede uno spazio rilevante alle forme e modalità di esercizio del potere. La riflessione teorica su PT tende a dimostrare che non è proprio così: le due sfere sono spesso intrecciate (21-2: Westin). Viceversa: le concezioni agonistiche del planning generalmente lasciano in ombra i problemi della formazione del consenso. La riflessione teorica può segnalare che il ricorso a forme di mediazione e intese concordate diventa comunque indispensabile (20-2: Kühn). L’orientamento strategico è nato per riconoscere e possibilmente ricomporre interessi e visioni a contrasto (senza poter assicurare che la distribuzione dei benefici risulterà equa). Tuttavia, la messa in scena di questo processo non ricorre soltanto a forme di razionalità strategica, ma può o deve valersi di tecniche di comunicazione persuasiva: dunque, due forme distinte di razionalità – strategica e comunicativa – vengono in pratica a convivere (19-3: Matysalo et al.). La concezione più tradizionale della razionalità di piano – il cosiddetto modello razional-comprensivo – generalmente è considerata superata. Tuttavia, sopravvivono nostalgie e allusioni: si esplorano forme «rivisitate» di razionalità che dovrebbero valere come surrogato; il problema è far convivere il razionale e il politico (20-4: Ozdemir). L’idea del politico che PT sembra prediligere è orientata verso le manifestazioni insorgenti. Manca qualunque riferimento al policy-making tradizionale. L’attenzione è rivolta ai movimenti che emergono dal sociale, quando è attraversato da tensioni politiche (19-4: Huq). Questi processi tendono a mettere in discussione l’ordine costituito, rivendicando nuovi diritti; danno vita a pratiche di auto-organizzazione e producono nuova conoscenza, oltre i limiti del sapere esperto (20-2: Sletto). Dalle pratiche potrebbe emergere un ordine nuovo, quanto meno alcune trasformazioni rilevanti. Nella forma, i processi possono essere considerati illegali, ma non sono privi di buone giustificazioni (21-2: Basta); in ogni caso si tratta di un’alternativa potenzialmente rilevante ai normali procedimenti istituzionali, che può dare un impulso positivo alla qualità democratica dei processi (20-2: Zakhour). Il dato certo è che cresce la partecipazione (20-2: Alfasi), in forme non rituali, ma potenzialmente trasformative (19-4: Zakhour). È evidente un pregiudizio positivo verso questa famiglia di processi, che sembrano incontaminati e privi di rischi, e dovrebbero fare le veci del planning istituzionale. Resta un dubbio, a me pare: è ragionevole, è utile porre sullo stesso piano qualche esperienza di auto-organizzazione e le forme ordinarie di pianificazione pubblica?  Sono perplesso, anche se l’opzione è stata avallata da Friedmann, Sandercock e tanti altri; per la rivista il problema non sembra esistere. 

Il tema della conoscenza urbanistica continua a essere un’altra fonte di dubbi o dilemmi: meglio puntare sulla conoscenza esperta o affidarsi alla interazione sociale? Un contributo su PT (20-4: Boonstra, Rauws) suggerisce di non rinunciare ad alcuna opportunità: una forma urbana può essere indagata con i metodi del realismo critico (Bhaskar, 1975, 2011), cioè come esito di eventi e fattori oggettivi, che sarebbe possibile ricostruire, correlare, misurare e quindi spiegare; oppure come assemblage delle azioni e interazioni di attori influenti, secondo la visione attiva e processuale che è stata sviluppata da Bruno Latour (2005). Sono due prospettive profondamente diverse: ancora una volta prevale un atteggiamento eclettico; si evita di prendere posizione. Ancora sul tema della conoscenza: la possibilità di concepire la disciplina urbanistica come una scienza sembra francamente da escludere, da lungo tempo ormai. Tuttavia, un contributo su PT segnala qualche idea emergente di attività scientifica: che non fa riferimento a Karl Popper e ai classici della epistemologia, bensì a contributi di non eccezionale notorietà che assocerebbero la valenza scientifica (soltanto) a un presunto carattere sistematico delle operazioni disciplinari (presunto, perché neppure questo requisito sembra valere per molte pratiche urbanistiche correnti). In questo senso, anche il planning potrebbe essere inteso come una pratica scientifica (19-2: Beherend, Levin-Kehtel). Non è chiaro come questa visione (che considero insostenibile) potrebbe aprire qualche prospettiva ai tecnicidel planning; a meno che il requisito della sistematicità non voglia alludere ancora una volta alla (insostenibile) ideologia razional-comprensiva. Comunque l’interesse per la scienza, non esclude una cura rinnovata per i temi dell’ideologia, che PT sembra voler rilanciare dopo una lunga fase di relativa marginalità. Proclamarne la fine è stato un errore; visioni, regole e processi di planning sono certamente influenzati da un complesso di convinzioni o pregiudizi latenti, che possono essere strumentali o infondati; è responsabilità dell’urbanista – come insegna la tradizione illuminista –  mettere in luce questi presupposti per poter meglio comprendere e agire (19-1: Sheperd et al.; Davoudi, Galland; Zanotto; 21-2: Hue). Spazio alla critica dunque, ma non al progetto. Continua a mancare qualunque riferimento all’urban design. O meglio, il tema della progettazione è sfiorato in un contributo (20-1: Van Dijk), ma si tratta soltanto di un richiamo al system thinking come approccio metodico che dovrebbe irrobustire le esperienze di collaborative planning: la dimensione fisica del progetto resta al bando.

Questa serie di contributi ha l’effetto paradossale di mettere in crisi i riferimenti teorici più popolari nell’area disciplinare (come la teoria comunicativa e tutti gli altri riferimenti fin qui evocati): infatti, mostra come ogni posizione sia in pratica contaminata da altre visioni e prospettive, in linea di principio considerate distinte o alternative. Così sorge l’impressione che il lavoro teorico debba sempre ripartire da zero. oppure sia sempre incompiuto o sostanzialmente inutile. Alcune riflessioni, in verità, esprimono o sottintendono un chiaro intento strumentale. Andreas Faludi, come ho accennato, si scaglia contro le visioni territorialiste (Faludi, 2018), ma la sua critica non ha come bersaglio le esperienze sovraniste e deregolative del localism britannico (discusso da TPR e PTP); il problema principale è che quella visione ostacola le aspirazioni del (fallimentare) spatial planning europeo! Qualunque sia la logica delle singole mosse, il quadro che si delinea è radicalmente eterogeneo. Non si capisce quali dovrebbero essere i punti fermi intorno ai quali la disciplina potrebbe ricostruire le sue fondamenta. La riflessione teorica non aiuta a prendere posizione di fronte alle vie alternative che la disciplina ha esplorato in tempi e contesti differenti, e che ora dovrebbero convivere in uno spazio indistinto (dove l’esercizio tecnocratico del potere può essere affiancato da pratiche insorgenti).  Non è neppure possibile sostenere che questi giochi di pensiero consentirebbero di mettere a fuoco concetti inediti e generativi. Nel periodo, nei testi pubblicati mi pare di individuare solo un paio di proposte non proprio consuete. Thomas Buhler (20-4) suggerisce che la vaghezza non dovrebbe essere sempre considerata un limite, in relazione a quadri concettuali, scenari, strategie, persino ai programmi d’azione. La ragione, un po’ opportunistica, sarebbe che impegni preliminari meno stringenti consentirebbero una maggiore libertà di comportamento nel corso dei processi (anche qualche cambio di rotta, se necessario). Riemerge il tema del boundary object, ma l’osservazione è francamente banale. Sarebbe utile ricordare all’autore le riflessioni di Vittorio Gregotti: un progetto può essere vago, cioè ammette variazioni versatili, ma giustificate e di qualità nel corso del tempo, solo se queste possibilità sono sapientemente precostruite fin dall’inizio. La vaghezza non è quindi disimpegno, ma sapienza progettuale (Gregotti, 1986, 1993); mentre il contributo di Buhler sembra solo eludere le responsabilità della disciplina. D’altra parte, John Forester raccomanda all’attenzione una nozione senza storia nell’area disciplinare: il concetto di kindness (20-1). Perché il planning non se ne occupa? L’autore allude ad alcuni requisiti auspicabili dello sguardo e dell’azione dell’urbanista: inclusion, sensitivity, recognition, respect, verso l’umana vulnerabilità e sofferenza. Non mi pare che il suggerimento abbia chiare giustificazioni (fin dalla scelta arbitraria del nome: perché non civility, se politeness o courtesy sembrano meno pertinenti?). Non penso che il concetto apra prospettive nuove e rilevanti: anzi, può facilmente essere sostituito da qualche semplice perifrasi.

Devo concludere che, nell’insieme, chi non guarda al singolo contributo si trova di fronte a un quadro non solo confuso, ma sostanzialmente immobile: perché qualunque visione teorica appare a rischio di contaminazione, mentre il ciclo «analogia-parafrasi-esortazione» resta il principale carattere identitario e si ripete inesorabilmente, senza effetti veramente significativi.  Nonostante qualche voce di (pacato) dissenso, che resta però estemporanea e obiettivamente marginale.  Ernst Alexander (21-2) ha ribadito i limiti di molti discorsi teorici. È necessario ristabilire il primato delle pratiche: qualunque riflessione deve muovere dalla specificità di fatti e processi, spesso irriducibili alle schematizzazioni proposte dalle teorie in uso. Bish Sanyal (20-3) ha preso le distanze dalle concezioni più comuni dei rapporti fra teorie e pratiche, criticando severamente l’autonomia, l’eclettismo di certe riflessioni teoriche (purtroppo le più diffuse). Il pretesto è la recensione di un libro di Haughton e White (2019) che vorrebbe chiarire agli operatori sul campo i contributi possibili della teoria, ma fallisce lo scopo, secondo Sanyal, a causa di un’impostazione troppo accademica e astratta. Io condivido questi richiami: si tratta però di due contributi (soltanto) in tre anni, rispetto a quasi cento articoli pubblicati. Se è la linea prevalente che stabilisce la natura e il senso della teoria, capisco la diffidenza o l’indifferenza di molti professionisti.

Planning Theory and Practice (PTP). La rivista condivide con PT la generazione (appartiene al nuovo secolo), la cura esplicita per i problemi della teoria, l’attenzione di una schiera autorevole di figure guida della disciplina. Il carattere distintivo più interessante è ovviamente la volontà di approfondire, perfezionare le relazioni fra le teorie disciplinari e le pratiche effettive: obiettivo che non può che essere condiviso, ma sembra continuamente sfuggire di mano, nonostante le migliori intenzioni. A differenza di JAPA, TPR e PT, in questo caso una linea editoriale è manifesta. Ogni numero della rivista è aperto da un editoriale, affidato di volta in volta a voci diverse della redazione (nel periodo, la responsabile, Heather Campbell, è intervenuta soltanto una volta, 22-1). Ogni testo propone il tema chiave del giorno e anche una rapida ricostruzione del filo che dovrebbe collegare i contributi pubblicati in quella occasione (anche se, in verità, appare quasi sempre discutibile la pretesa di unità e coerenza dell’insieme: le riviste non costruite secondo un progetto editoriale, ma sulla base dei contributi spontanei inviati dagli aspiranti autori, sono destinate a sopportare qualche limite di contingenza e eterogeneità). Una linea culturale comunque emerge: potremmo dire, una ideologia del planning, chiaramente orientata e ribadita con continuità. Il periodo si apre con un richiamo ai tempi duri che il mondo sta attraversando, fra crisi ambientali sempre più gravi e nuove minacce sul fronte sanitario. La disciplina è chiamata a nuove responsabilità e dovrebbe esprimere una migliore capacità d’azione (Upton, 21-1). John Forester ritiene necessario che l’urbanista si faccia carico di impegni più rigorosi e performativi: non basta declinare i temi della giustizia ambientale e sociale; l’azione urbanistica deve mostrarsi capace di offrire risposte efficaci all’umana vulnerabilità e sofferenza (Forester, 21-2). L’autore esprime questo orientamento tramite il concetto di kindness, che abbiamo già incontrato su PT. David Scott (21-3) affronta i problemi dell’emergenza COVID, che a suo giudizio suscitano i dilemmi tipici della resilienza: l’obiettivo non dovrebbe essere soltanto la ricerca di qualche forma di adattamento sostenibile alle criticità del momento, ma cogliere l’occasione per una trasformazione progressiva, di portata e con orizzonti più vasti: da bounce back verso bounce forward. Mee Ng osserva (21-4) che gli obiettivi dello sviluppo urbano sostenibile formulati dalle Nazioni Unite nel quadro della New Urban Agenda (già richiamata da TPR) risultano più che mai attuali e urgenti nel tempo della pandemia: la loro realizzazione dovrebbe essere una priorità condivisa. Secondo Jill Grant (21-5), l’esperienza del COVID sta cambiando il modo di pensare della pianificazione. Trovano nuovo sostegno e maggiore forza le istanze di inclusione, equità, progresso, sempre care all’urbanistica riformista. Peccato che, quando è il momento di ragionare sugli strumenti disponibili allo scopo, l’autrice (dopo aver ribadito l’inadeguatezza di molte tradizioni: il new urbanism e altre) sia in grado di suggerire soltanto il filone di scenario plannng (il cui contributo, a mio avviso, resta marginale ed effimero, come ho anticipato). Nei primi mesi del 2021, Heather Campbell riflette già sulle prospettive del post-pandemic planning (22-1). L’emergenza sanitaria globale ha aggravato il peso di limiti e difficoltà che da tempo condizionano la disciplina. Potrà dare un impulso positivo al cambiamento? Le sfide sono complicate; non bastano la critica e le esortazioni. Un rinnovamento sostanziale sarebbe necessario nelle istituzioni, nei paradigmi, nelle pratiche (ma al momento si tratta solo di auspici). John Forester (22-2) suggerisce di apprendere dall’esperienza. Non basta proclamare obiettivi e disporre di una conoscenza esperta; risulta decisiva la capacità di mediazione che il planner saprà esercitare nel corso dei processi (come peraltro l’autore sostiene da decenni). Andy Inch (22-3) è turbato dallo scarto, evidente e forse incolmabile, fra le esigenze di rilancio della pianificazione (che il COVID ha esaltato) e gli orientamenti del governo britannico che, con il libro bianco di Boris Johnson (Planning for the future, 2020), prefigura una urbanistica sempre più debole e marginale: non ci sarà più futuro per la pianificazione? Nella fase, Chrystal Legacy (22-4) vorrebbe una disciplina capace di resistere alle scelte (discutibili) del potere del momento. A questo scopo sarebbe necessario riscoprire la dimensione politica del planning, in un senso radicale (sulle tracce di Rancière, Badiou e altri). Peccato che gli strumenti indicati non siano altro che strategic spatial planning o scenario planning (chiacchiere e pretese vane, sulla base delle esperienze già compiute). Per Nick Bates (22-5), sfide, criticità e limiti sono certamente pesanti; si può comprendere una certa delusione e stanchezza del mondo del planning, ma la disciplina deve continuare a sperare in un cambiamento radicale. Tuttavia, nel 2022 il discorso ha preso forme ancora più generiche o vaghe. Katie McClymont (23-1) ribadisce l’esigenza che le esperienze siano radicate nel contesto. Mee Ng (23-2) auspica regole e standard più coerenti con i principi della giustizia spaziale e ambientale. David Scott (23-3) ripropone lo stesso tema in relazione alle politiche di transizione energetica. Infine, nell’ultimo contributo al momento disponibile (23-4), Jill Grant mette in guardia gli urbanisti: quando la politica vi chiede una pianificazione migliore, è tempo di preoccuparsi, perché le iniziative di riforma del settore generalmente esprimono tendenze regressive, che la disciplina dovrebbe contrastare. Ecco dunque la sequenza delle posizioni che dovrebbero scandire la linea di PTP. La ricognizione è stata un po’ lunga, ma credo nell’utilità dell’esercizio. È la sequenza stessa che dimostra in modo inconfutabile l’orientamento edificante ed esortativo della rivista, ma anche la povertà degli strumenti, e la scarsa plausibilità di un cambiamento sostanziale.

L’impressione è confermata se entriamo nel merito dei contenuti di ogni numero. Alle esortazioni di apertura fa seguito, come dato prevalente, la reiterazione continua di alcuni dilemmi, che sembrano cronici e intrattabili (la stessa tendenza, lo stesso limite già emersi dalle tre riviste prese in considerazione in precedenza). Le questioni irrisolte investono temi che devono essere considerati cruciali per l’azione disciplinare. La riflessione non consente di sciogliere i nodi: generalmente li riproduce, talora sembra aggravarli. Come riconosce Abdhul Khakee (21-1) dovremmo ammettere che si tratta di dilemmi non solo insolubili, ma sempre più complicati, anzi insuperabili! La disciplina deve ancora preoccuparsi di concepire e costruire un futuro migliore, oppure può limitarsi a rispondere in forme adattative alle tendenze emergenti dal contesto (21-1: Ferreira et al.; Jon, Reghezza-Zitt; Scott, Lennon; 22-4: Zapata et al.)? Deve riconoscere la priorità dei valori-obiettivo dell’equità e dell’inclusione (celebrati dalle altre riviste), oppure rassegnarsi a umani compromessi, come spesso accade nelle pratiche quotidiane (21-2: Ferm, Raco; Porter et al.; 22-1: Porter et al.; 23-2: Bates; Brookfield; Oseland, Haarstadt)? È inevitabile prendere atto della deregulation in corso, oppure è lecito sperare in un rilancio della pianificazione? Nel caso britannico questo significa rimettere in discussione il National Policy Framework del 2012 (si veda 22-4: Sheperd). Ogni istanza solleva una varietà di problemi, quando deve essere tecnicamente sviluppata; le questioni in gioco non sono solo tecniche, ma richiedono giudizi politici e scelte etiche. È il caso di puntare ancora su una concezione prescrittiva della regolazione oppure è più ragionevole privilegiare negoziati e intese volontarie o di mercato? La rivista ospita molti contributi sul tema, di vario orientamento: questo è un chiaro indizio della centralità che viene riconosciuta alla questione, ma i dubbi restano senza soluzione (21-2: Searle; Powe; 21-4: Cowell et al.; Kosunen et al.; 22-1: Boulton et al.; 22-3: Saldert; 22-5: Biggar; 23-1: Parker et al; 23-2: Hirvola). La formazione delle scelte deve curare la cooperazione fra le parti oppure affidarsi (anche o prevalentemente) a meccanismi di selezione competitiva (22-2: Granqvist et al.)? La pianificazione deve adottare un orientamento strategico, a tempi lunghi e scala vasta (23-1: Hutter, Wiechmann; 23-4: Goodspeed), oppure è più opportuno concentrare l’impegno su azioni tattiche, circoscritte e specifiche (22-5: Vallance, Edwards), al limite semplici pratiche di urban acupuncture (23-2: Hemingway et al.)? Dobbiamo curare di più la continuità dell’azione di planning (21-5: Vuksanoic-Macura et al.) oppure la capacità di risposta alle crisi emergenti (21-3: Reckien)? Il localism deve essere inteso (siamo sempre in UK) come il giusto riconoscimento delle differenze territoriali/culturali, che induce a migliorare le opportunità di partecipazione democratica dal basso e la cooperazione fra livelli diversi di governo (22-2: Buhler; Mattila et al.)? Oppure è la leva strumentale (e la facile retorica) che consente a interessi di parte di prevalere, o quanto meno di ostacolare la creazione di pubblico benessere (23-1: Sturzaker et al.)? Si allude, in particolare, alle relazioni controverse, spesso conflittuali nell’ultimo decennio, fra i neighbourhood plans (voluti dal governo conservatore) e i più ortodossi local plans, tema già sollevato da PT. È giusto continuare a escludere da ogni attenzione i temi del progetto? In verità, PTP (a differenza delle altre riviste) apre almeno un piccolo spiraglio. L’urban design diventa tema di discussione da due punti di vista: la governance dei processi (22-4: Richardson, White); la review dei progetti (23-3: Morrison, Honegger). La questione della design governance è associata ad alcune recenti esperienze scozzesi, che non rappresentano un’innovazione, bensì la ripresa (a distanza di tempo) di un approccio già ampiamente sperimentato in Inghilterra, dove oggi, peraltro, risulta in chiaro declino. Più originale è la riflessione sulla design review, che affronta il tema specifico della sostenibilità dei progetti, e quindi i dilemmi etici che sorgono fra istanze di cura e di sviluppo (23-3: Knapp et al.), ma non si prestano a una declinazione puramente tecnica, in forme schematiche e ripetitive. Dilemmi affini o complementari emergono da vari altri fronti. In questi processi, dobbiamo contare principalmente sulla conoscenza esperta oppure è importante riconoscere e valorizzare il sapere locale, che è tacito o nasce dalle interazioni sociali (22-5: Ndwenya et al.; 23-1: Mattila et al.; 23-3: Westin, Joosse)? Per arricchire la conoscenza, siamo in grado di concepire una ricerca territoriale non banale (ripetitiva, rituale, spesso acritica), bensì originale, creativa e capace di incidere realmente sulla qualità dei processi (22-2: Jon)? Il contributo che possiamo attendere dalle nuove tecnologie dell’informazione (big data, intelligenza artificiale, smart ciy) è solo strumentale oppure potrà cambiare visione, senso e qualità dell’azione urbanistica? Questo è uno dei temi più dibattuti dalla rivista, con un orientamento sostanzialmente positivo (21-2: Potts; 21-3: Connelly et al.; 21-4: Duminy, Barnell; 21-5: Sjoblom, Niitamo; 22-2: Chen et al.; 22-3: Kitchin et al.; 23-2: Mattila; 23-3: Mattila, Nummi). Per concludere, come dobbiamo immaginare il ruolo futuro del planner? Puro testimone di valori e aspirazioni che non trovano un riscontro reale, professionista disposto ad adattarsi alle esigenze del mercato, o agente dell’innovazione, capace di contrastare le tendenze deprecabili, ma anche di conseguire risultati concreti e positivi, se pur parziali (21-3: Parker et al.)? E l’accademia sarà in grado di dare risposte adeguate alla varietà dei problemi emergenti (21-1: Mladenovic et al.; 21-2: Corbera et al.)? Non sono questioni inedite, anzi questo è il trionfo del dèjà vu. Il problema è l’eterno ritorno degli stessi temi, che significa mancanza di risultati originali, convincenti, efficaci.
 La mia conclusione è che la rivista offre una rappresentazione dolente delle incertezze e difficoltà della disciplina; un’immagine non nuova, purtroppo, che non sembra in grado di aprire nuove speranze. Si deve notare che, in questo ambito, il discorso teorico evita le distorsioni così comuni su PT: non vi è traccia di suggestioni tratte da altri domini disciplinari e trasferite nel contesto sulla base di dubbie analogie. La riflessione teorica rappresenta sempre, come è giusto, uno sforzo specifico di indagine, interpretazione e generalizzazione delle pratiche effettive. Tuttavia, è difficile sostenere che i risultati di questo impegno siano più convincenti. Forse ha ragione Ernst Alexander (2015, 2022): non esiste (quanto meno non è rilevante) la teoria del planning, e neppure il planning come categoria generale, ma solo un insieme o meglio una varietà di pratiche specifiche, da affrontare nel contesto, con un approccio e delle tecniche che certamente si valgono dell’esperienza, ma richiedono capacità ad hoc, di progettualità, scelta e messa a punto. Questo è l’impegno che conta, mentre (per Alexander) minori energie potrebbero essere riservate alla storica aspirazione di assicurare un solido fondamento e un chiaro riconoscimento istituzionale a una «undisciplined discipline» (Pinson, 2004), cioè a un campo di pratiche che difficilmente può essere ordinato e diretto secondo schemi generali e precostituiti. Forse, la conclusione potrebbe essere più disincantata: l’urbanista sembra destinato a rimanere il custode di principi e propositi virtuosi, in un mondo riluttante e diffidente, che tende sempre a preferire altre priorità. Come ai tempi del progetto moderno, l’urbanista diventa il testimone di una crisi e di una speranza. Quel modello, però, si è rivelato un’ideologia, e alternative generali, concrete ed efficaci, non sembrano disponibili. Restano solo l’assunzione di responsabilità, l’impegno, le possibilità d’azione tese a creare condizioni migliori in un caso e un contesto specifico, secondo una visione pragmatica, che sa apprezzare i progressi parziali e le soluzioni soddisfacenti. Se è lecito concludere che le volenterose esortazioni sono il contributo principale di PTP, i dubbi sulle possibilità di interpretare un ruolo più ambizioso rischiano di essere fondati.

3. Un quadro diviso, confuso, immobile

Il quadro tracciato nel paragrafo precedente non è confortante. Nello specchio delle quattro riviste, l’accademia appare debole, esitante, ripetitiva; volenterosa, ma priva di strumenti adeguati; prospettive più soddisfacenti sembrano improbabili nel breve, medio termine (forse anche su orizzonti più lunghi). Pesa l’incapacità di tradurre le migliori intenzioni in fatti reali, mentre i nodi critici sembrano diventare dilemmi permanenti (questa valutazione, non positiva, mi ha indotto a limitare la collaborazione alle riviste di settore, che è stata saltuaria, senza mai diventare un impegno prioritario). La situazione è complicata, sulla scena internazionale, da alcuni caratteri emergenti dell’area, che tendono ad aggravare i problemi.

Infatti, il quadro appare profondamente diviso: su valori, ruoli, visioni, paradigmi, strumenti, strategie. La sequenza dei dilemmi che ho appena rievocato è un riflesso imbarazzante delle divisioni esistenti. Che trovano una conferma clamorosa nelle interpretazioni del planning che hanno conquistato maggiore notorietà sulla scena internazionale, e disegnano vie divergenti, per certi aspetti incommensurabili. Per Andreas Faludi, la pianificazione era azione tecnocratica, che avrebbe dovuto rispondere a solidi criteri di razionalità comprensiva. Per Patsy Healey, il requisito essenziale è la capacità di cooperazione interistituzionale, secondo un’idea di collaborative planning che sarebbe in grado di superare tensioni o conflitti fra interessi divergenti. Per Judith Innes, la chiave dei processi è la comunicazione: il tecnico dovrebbe operare per migliorare le condizioni e le opportunità di una comunicazione non distorta, capace di favorire intese più giuste e condivise sulle scelte in discussione. John Forester ha confermato e precisato quella visione: il planner viene a svolgere una funzione decisiva nel corso dei processi, se assume il ruolo di facilitatore, mediatore o addirittura terapeuta, in grado, con la sua competenza, di superare le difficoltà e lenire le sofferenze che affliggono le relazioni sociali. Leonie Sandercock, invece, non ha mai fatto affidamento sulla razionalità comprensiva e sulla conoscenza esperta: l’esito virtuoso dei processi viene associato alle capacità di auto-organizzazione della società locale. Sulla medesima traccia ha preso forma una concezione “radicale” del planning, che sosteneva che solo cambiamenti profondi di istituzioni, leggi e comportamenti, avrebbero potuto consentire scelte territoriali più eque e sostenibili. Più recentemente, una corrente di insurgent planning ha celebrato le funzioni e la positività delle forme di autogoverno locale: il ruolo del tecnico non può limitarsi alla mediazione; diventa rilevante e utile se è capace di attivare le energie del sociale e di dare una rappresentazione tecnica alla progettualità emergente. L’urbanista italiano si può sentire disorientato o a disagio di fronte a questa varietà poco ordinata. Queste immagini del lavoro disciplinare sono molto lontane dalle sue esperienze concrete. Infatti marginali restano i temi della regolazione (che su JAPA assumono forme teoricamente primitive come il single-family zoning), mentre estranei al campo sono considerati i temi della progettazione (l’esclusione è una costante). Considero questa scelta profondamente sbagliata: a mio avviso, questa è una delle cause principali dell’involuzione e della crisi obiettiva della disciplina del planning. Mi sembra giusto osservare, però, che le stesse teorie qui brevemente richiamate sono la rappresentazione di un errore condiviso da ogni singolo autore: ciascuna infatti estremizza una dimensione del problema, rilevante, ma non esclusiva (la razionalità tecnica, la comunicazione, la cooperazione, il conflitto, l’autonomia del locale, e così via), assumendola come fattore dominante per la creazione di una visione ideologica, invece di preoccuparsi di costruire contestualmente equilibri sostenibili fra le diverse istanze, nonostante le tensioni che sono plausibili e ricorrenti. Peraltro, questa esigenza riemerge costantemente proprio tramite i dilemmi che continuano ad assillare il mondo disciplinare (come risulta dalla rassegna bibliografica svolta nel par. 2).

Il quadro non è solo diviso, ma anche profondamente confuso. Perché manca un lavoro adeguato di distinzione, confronto e valutazione delle visioni teoriche emergenti, pur così diverse e, nella sostanza, alternative. Invece di distinguere e di scegliere, l’area disciplinare preferisce adottare un atteggiamento eclettico o ecumenico. John Friedmann, a miei occhi, è stato il primo responsabile di questa deriva: perché il suo monumentale Planning in the public domain (1987) ha legittimato un’idea della disciplina come ventaglio di opzioni incomparabili, che potevano oscillare dal modello tecnocratico puro alle forme insorgenti dell’auto-organizzazione sociale. In relazione al problema e al contesto, il tecnico avrebbe solo dovuto adottare e applicare l’opzione più pertinente. Come se fossero irrilevanti le enormi differenze nella concezione del ruolo e delle pratiche. Considero disastroso questo orientamento, che a mio avviso ha provocato molti danni. Eclettismo e contingenza sono diventati un alibi rispetto all’esigenza di fare chiarezza su alcuni nodi fondamentali: what is planning? quale teoria, quale conoscenza, quale pratica, quali le relazioni fra questi elementi? Sono le domande che continuano a essere formulate e riformulate in letteratura (come abbiamo osservato nelle quattro riviste), in forme, peraltro, spesso superficiali e inconcludenti. Questo limite si manifesta anche nel lavoro di autori il cui profilo è sicuramente interessante. Penso, per esempio, a Graham Haughton (storico coautore di Philip Allmendinger) che, insieme a Iain White, ha pubblicato Why plan? Theory for Practitioners (2019), libro recensito da Bish Sanyal su PT (20-3). Ho già fatto cenno ad alcune critiche di Sanyal (par. 2) che considero giustificate: in effetti, come può Haughton seriamente proporre all’attenzione dei professionisti una lista di ventidue teorie urbanistiche degne di interesse, nella quale – con estrema leggerezza o indifferenza – sono chiamati in causa Keynes, neoliberalismo, marxismo, colonialismo, insurgency, ma anche postpolitica, nudging, assemblage, informality, gender, e altro ancora (il povero operatore sul campo potrebbe legittimamente temere di essere capitato nell’Emporio Celeste di Luis Borges). Un’obiezione simile può valere, a mio avviso, per l’ultimo libro di Robert Beauregard (Advanced Introduction to Planning Theory, 2020), recensito da Ernst Alexander su PT (21-1). Uno studioso raffinato, esperto ed equilibrato come Beauregard, accetta una rappresentazione acritica del mondo delle teorie del planning, che include tutte le posizioni che, in qualche tempo e luogo, si sono candidate a svolgere un ruolo di interpretazione e guida del pensiero disciplinare. In questo campo, al lavoro teorico non si chiede di soddisfare requisiti troppo esigenti: la missione non sarebbe indicare agli operatori il modo migliore di agire nel contesto. La maggior parte degli scholars – Beauregard acconsente – sembra accettare funzioni più modeste: offrire alla pratica buone giustificazioni; chiarirne almeno la realtà e il senso in una situazione data. A questo scopo sono state escogitate visioni assai diverse (in parte incomparabili). Beauregard censisce fedelmente i principali orientamenti, in massima parte ispirati da alte tradizioni di pensiero (per citare solo qualche grande nome, non solo Habermas, Marx e Aristotele, ma persino Wittgenstein o Lacan: si veda il cap. 6, che dovrebbe valere come conclusione e prospettiva). L’area disciplinare non sembra disposta a rinunciare a nessuno dei tentativi compiuti dai suoi esponenti, in vari modi, tempi e contesti, per dare ordine e senso a una materia complicata e sfuggente. Quello che manca è un minimo lavoro critico, teso a riconoscere e valutare le differenze di intenzioni, argomenti, effetti. Come se ogni posizione potesse vantare la medesima credibilità e fertilità. Così il discorso diventa puramente autoreferenziale, all’interno di una presunta accademia che non si mette mai in discussione, ma è tanto debole e incerta da essere considerata poco autorevole (e poco utile) dal mondo esterno. Mi pare evidente che il quadro resta confuso perché l’area disciplinare elude le responsabilità di distinguere e scegliere.

La situazione è grave anche perché questo stato di cose sembra essere permanente. Il tasso d’innovazione è modesto nell’area disciplinare. Stimoli nuovi possono emergere dal mondo esterno (quello reale) – la pandemia è stato l’ultimo caso. Tuttavia, l’impressione è che siano facilmente assorbiti entro le visioni e i comportamenti più tradizionali (basta constatare la banalità delle riflessioni suscitate dalla recente emergenza pandemica). Il dubbio è che questa stasi sia correlata alle difficoltà peculiari del lavoro teorico, o di fondazione disciplinare, in un campo come questo. Forse ha ragione Ernst Alexander (2015): l’urbanistica è essenzialmente una pratica. I tentativi di generalizzazione si spingono fino a soglie ormai note, che non è mai possibile superare. Da qui deriva la coazione a ripetere gli stessi dubbi e le stesse domande. Probabilmente, è sbagliata la concezione del ruolo e insufficiente la comprensione delle pratiche reali. Credo che, se davvero aspira al cambiamento, dopo un’evidente, interminabile fase di stallo, l’urbanista dovrebbe mettere in discussione il senso e i modi della sua azione nel mondo reale. Purtroppo la letteratura che ho richiamato offre poche indicazioni utili.

4. Non eludere le responsabilità

Il disagio per lo stato delle cose non è inconsueto negli ambienti disciplinari. Si manifesta periodicamente nella letteratura internazionale, nella forma di cahiers de doléances: purtroppo l’economia, la società, la politica continuano a porre seri ostacoli alla missione dell’urbanista; tendono a non riconoscere i suoi meriti e neppure alcune funzioni che pure sarebbero indispensabili. In Italia, per esempio, solo dieci anni fa Leonardo Benevolo (2012) proclamava e denunciava il «tracollo dell’urbanistica». Il mio punto di vista è altrettanto critico, ma non mi sento di unirmi al coro, per una differenza di valutazioni che considero fondamentale. Benevolo e altri scholars sembrano attribuire le principali responsabilità della crisi a fattori esterni, cioè agli ostacoli che il mondo della vita quotidiana continuamente creerebbe al lavoro degli urbanisti. Se a costoro fosse concesso di agire liberamente secondo scienza e coscienza, con il supporto adeguato di risorse e di consenso, i risultati sarebbero eccellenti. La mia opinione è diversa. Io penso che l’area disciplinare abbia gravi responsabilità rispetto al corso della crisi; penso che nel complesso si sia rivelata inadeguata rispetto a sfide troppo complicate e a problemi spesso mal posti; penso che sarebbe irresponsabile eludere le criticità e non provare a reagire. Il primo passo è una diagnosi critica della situazione. Il dato più evidente è la crisi ormai irreversibile di alcuni modelli. Certamente oggi appare fuori luogo e fuori tempo l’idealtipo dell’urbanistica moderna – un’ideologia in verità, perché le sue realizzazioni concrete sono state episodi eccezionali. Il punto fermo è che ha perso credito e prospettive la concezione dell’urbanistica come funzione pubblica di comando e controllo di usi e trasformazioni del suolo, che si vale di piani generali e prescrittivi. Segni di crisi sono però palesi, ormai, anche nella famiglia dei progetti riformisti che hanno preso forma in molti paesi europei, fra gli anni ‘90 del Novecento e la prima decade del 2000. Quei progetti hanno rappresentato un tentativo di rinnovamento istituzionale e culturale, reputato ormai indispensabile per l’inattualità evidente della tradizione modernista. Pur nella varietà delle soluzioni nazionali, quei progetti hanno condiviso istanze progressiste e valori edificanti (equità, sostenibilità, la ricerca di maggiore funzionalità, e così via). Tuttavia, a distanza di tempo la spinta propulsiva sembra esaurita (pensiamo al programma riformista ispirato in Italia da Campos Venuti, 30 anni fa): senza un rinnovamento sostanziale, il rischio è l’irrilevanza. Dobbiamo abituarci a procedere senza i modelli gloriosi.

Per capire meglio e valutare ciò che sta succedendo, può essere utile osservare l’evoluzione dell’urbanistica nel continente nordamericano che, in questo campo come in tanti altri, sembra anticipare le tendenze (infatti, come fonti ho scelto alcune riviste internazionali). Fin dal primo Novecento, è parso evidente che un’idea «pubblica-generale-prescrittiva» di urbanistica, secondo il modello originario tedesco, era incompatibile con lo spirito del luogo. Infatti, la società locale ha subito cercato di esplorare qualche alternativa, più coerente e funzionale rispetto al contesto. Per qualche decennio, dai tempi del Taylorismo sociale fino alla Scuola di Chicago di Tugwell e Perloff, a metà Novecento, è stata esplorata l’ipotesi della razionalizzazione dei processi, con spirito pragmatico e un orientamento gestionale. Tuttavia, quel filone poteva essere considerato sostanzialmente esaurito fin dai primi anni ‘50, anche se, paradossalmente, qualche tecnocrate (come Andreas Faludi) ha provato a rilanciarlo in Europa, ancora nei primi ‘70. Molto più importante è risultato un altro filone di esperienze nordamericane: la concezione dell’urbanistica come pratica comunitaria; l’attenzione per i problemi della costruzione sociale del consenso sulle scelte territoriali; l’importanza del social learning e della social mobilisation; il contributo “insorgente” di alcune forme di auto-organizzazione o, al limite, di autogoverno locale. Una delle conseguenze è stata che la disciplina si è configurata come un ventaglio di opzioni radicalmente divergenti: da un lato il modello tecnocratico puro; sul fronte opposto le possibilità di insurgent planning (che, francamente, faccio fatica ad accettare come forme pertinenti di pianificazione). Questa visione eclettica è stata avallata, come ho già ricordato, da John Friedmann e altri autorevoli maestri, con effetti perversi, a mio avviso (Palermo, 2022). Un punto rilevante non sembra però in discussione: l’urbanistica nordamericana non comanda e controlla, ma in molti casi, forse nella generalità dei casi, neppure guida il corso dei processi (nel senso della public guidance); piuttosto li accompagna, è in grado di facilitarli, mentre interessi e iniziative di parte si consolidano e trovano una composizione almeno parziale. In questo quadro, emergono due profili distinti di attore disciplinare: da un lato, la figura sociale del facilitatore, mediatore o attivista, che viene a svolgere una funzione rilevante interagendo con i principali players del processo; dall’altro il funzionario, il burocrate che deve garantire una serie di adempimenti formali rispetto a leggi, regole e procedure, spesso obsolete o alquanto confuse: una funzione necessaria, ma emotivamente poco entusiasmante. Questo scenario sottovaluta evidentemente le funzioni del disegno urbano; forse le assimila (e le riduce) a un esercizio burocratico, ma –  come ho documentato – il mondo del planning tende colpevolmente a ignorare questa dimensione. Se ripensiamo questo scenario nel contesto sudeuropeo e in particolare italiano, la prima osservazione è che la figura del facilitatore e (con maggiore evidenza) dell’attivista svolgono un ruolo molto più marginale. Il rischio è che la figura dominante nell’area disciplinare assuma le vesti, soltanto, del burocrate. Per chiarire le implicazioni possibili, mi è parso utile richiamare la nozione di postdemocrazia, elaborata dal sociologo britannico Colin Crouch nei primi anni 2000 (Crouch, 2004 e 2020; Palermo, 2022). Crouch osserva: fortunatamente viviamo in un regime democratico, ma forme, regole e processi della politica sembrano sempre più poveri di partecipazione, passioni, senso condiviso. Questo è un problema perché nessun regime politico è imperituro; anche la democrazia può venire a rischio. Qualcosa di simile non sta accadendo anche all’urbanistica, come istituzione e come prassi? Formalmente, la sua funzione è considerata indispensabile in qualunque democrazia matura. Il rischio, appunto, è che si tratti soltanto di forme: una serie di adempimenti obbligati, da svolgere in modo rituale, come accompagnamento di processi altrove determinati, nel tempo necessario alla loro maturazione. Se l’urbanista viene identificato con questa figura di burocrate, capisco la crisi di vocazioni. 

Ci sono alternative concrete? Poche e non confortanti. In Italia, per esempio, esiste ancora una pattuglia di nostalgici che vorrebbero rilanciare la visione modernista: voci rare e destinate, a mio avviso, alla irrilevanza. Spicca invece una schiera più nutrita di attori disciplinari che potrei denominare «specialisti di trespassing». Il tema è già stato introdotto discutendo la rivista PT. Non mancano i pretesti, per un urbanista, per esplorare qualche dominio extradisciplinare, che in qualche modo si intreccia con il mondo del planning. L’esito è quella sequenza «analogia, parafrasi, esortazione» che ho già illustrato in relazione a quella rivista. Reiterato nel tempo senza effetti significativi, diventa un esercizio stucchevole e sostanzialmente elusivo. Non amo gli urbanisti che fanno accademia, in assenza di impegni più concreti e produttivi. Anche perché l’accademia di cui si tratta, come mi pare di avere dimostrato sulla base di autorevoli fonti, è banale e poco fertile. Diverso è il giudizio verso un’altra famiglia di profili. Non sono pochi gli urbanisti, nelle istituzioni e nella professione, che non si occupano in senso stretto dei problemi canonici della tradizione urbanistica, bensì di una varietà di questioni emergenti di politiche urbane. Le opportunità non mancano perché molti temi settoriali sono messi in gioco dalle missioni dell’urbanistica. La questione della salute ha svolto una funzione costituente alle origini della disciplina; un secolo dopo ha preso la forma della healthy city e della biopolitica. Da 40 anni, la sostenibilità rappresenta, sulla carta, una sfida cruciale; da 20 anni la smartness, la resilienza, la biofilia; da un paio d’anni la pandemia, e così via. Si può comprendere e apprezzare il fatto che qualche urbanista si impegni concretamente in uno di questi campi, contribuendo a indagini, progetti e realizzazioni. Il problema è che queste attività restano supplenze occasionali, che non consentono di ricreare o rinnovare un tessuto disciplinare. Perché manca un confronto serio con le tradizioni disciplinari e con le criticità ereditate (si tratta di esperienze di continuità oppure di una rottura?); soprattutto resta in ombra il tema della possibilità o necessità di un paradigm shift rispetto alla tradizione: lo slittamento eventuale dal mondo dei piani a quello delle politiche non è un problema all’ordine del giorno. Forse qualcosa accade in questo senso, nella pratica, ma non trova una rappresentazione istituzionale e culturale. Perciò questa figura rimane in bilico: forse esprime soltanto una divagazione estemporanea, forse è il sintomo di un bisogno di rinnovamento che è sempre più difficile eludere. Mi sembra di poter concludere che la galleria dei personaggi qui evocata davvero non suscita entusiasmi. Falsi profeti: gli ultimi neomodernisti. Tuttologi, dilettanti e imitatori: i cultori sistematici del trespassing. Praticanti alla ricerca di un ruolo: gli operatori-ombra delle urban policies. Oppure burocrati. Alla fine, la figura più calda sembra essere quella dell’attivista o del facilitatore, che però è marginale nel nostro contesto. Che scarto rispetto alle concezioni eroiche (o tragiche) dell’urbanista. Credo però che una responsabilità peculiare della disciplina sia acquisire consapevolezza della realtà e, eventualmente, provare a reagire.  

5. Fra pratiche e riflessioni: prove di dialogo e rinnovamento

Riconoscere la centralità delle pratiche significa mettere in discussione non solo i ruoli, ma anche i quadri concettuali: non è un paradosso. La ricognizione compiuta sulle riviste mostra, mi pare, che molti frameworks in uso sono inappropriati o controproducenti (perché creano effetti perversi); in ogni caso inadeguati. Le immagini che sono adottate per esprimere le funzioni essenziali dell’urbanistica possono diventare un problema: certe scelte aprono un solco incolmabile tra le forme discorsive e le pratiche reali. Per esempio, mi sento a disagio quando sento affermare: l’urbanistica a Milano ha saputo creare grattacieli e rigenerare aree da tempo abbandonate. Solo la provincia italiana può denominare in questo modo quelle che sono delle semplici torri, e progetti come City Life o Portanuova, ora quasi giunti a compimento dopo 20 anni di peripezie, sono operazioni mediocri o scadenti, a mio avviso, per più di una ragione (le ho esposte in diverse occasioni: fra le altre, Palermo 2017, 2022): la qualità urbanistica è nulla (non vi è traccia di progetto urbano e di suolo; non vi è cura delle relazioni transcalari e degli effetti collaterali; il parco è diventato un’entità residuale); ma anche l’idea di architettura è molto discutibile, perché esornativa e strumentale, a cominciare dalla vertical forest – espressione un po’ overstating – che è un progetto artificioso (poco rispettoso delle condizioni di natura), costoso (come impegno gestionale) e soprattutto ingiustificato all’interno di quello che avrebbe dovuto essere (ma non è diventato) un parco urbano (mentre quel progetto sarebbe più appropriato in aree ad alta densità). Queste trasformazioni sono la prova concreta di un chiaro deficit di urbanistica. In effetti, è difficile sostenere che i due ultimi piani per Milano siano stati influenti: non il piano “delirante” approvato dal sindaco Moratti una dozzina di anni fa (considero esaurienti le analisi curate da Arcidiacono e Pogliani, 2011); ma neppure il piano minimo disegnato dal sindaco Sala nel 2019, che sembra un adempimento formale reputato necessario in quella fase, ma in sostanza secondario rispetto ai cardini dell’azione di governo del territorio: da un lato, una serie di politiche di ispirazione riformista, diffuse nello spazio urbano e generalmente significative; non in grado però, per la loro natura distribuita, di lasciare un’impronta evidente e immediata sull’immagine della città; dall’altro, un pacchetto di grandi progetti di trasformazione, in massima parte ereditati dal piano Moratti, in forme talora appena temperate. Si tratta di processi ancora in corso e un giudizio sugli esiti sarebbe ora prematuro. Il mio auspicio è che non seguano le orme dei casi recenti appena citati – altrimenti la crisi dell’urbanistica troverà nuovo nutrimento. La critica, naturalmente, non riguarda solo Milano: i motivi di rammarico sono innumerevoli. Per esempio, io provo disagio quando sento annunciare dai media: gli urbanisti propongono la tesi del consumo di suolo zero. Oppure la visione di una città nella quale i servizi fondamentali dovrebbero essere accessibili in tempi brevi (15 o 20 minuti). Il tema del consumo di suolo è sicuramente rilevante, ma dedurre la necessità di unvincolo assoluto, e supporre che questa possa essere la soluzione di ogni problema, è evidentemente una semplificazione pericolosa: perché il vincolo generalizzato è una misura verosimilmente non equa, né efficiente, che in pratica verrà ampiamente elusa, probabilmente in forme opache e irresponsabili; comunque, la misura sarebbe una conferma della debolezza della disciplina, incapace di gestire i problemi in modi più articolati e responsabili. Ancora più vacua è l’immagine che esalta l’accessibilità spaziale dei servizi. Perché il problema critico non è (soltanto) la distanza che devo percorrere per raggiungere un centro di servizio, bensì il fatto che la sanità pubblica ordinaria, per esempio, nella ricca Lombardia in molti settori non assicura prenotazioni e visite prima di sei mesi o un anno (o peggio). Pertanto, concentrare l’attenzione soltanto sulle misure di accessibilità nello spazio è una semplificazione fuorviante. Dobbiamo preoccuparci che le immagini in uso siano in grado di rappresentare i problemi cruciali delle pratiche in atto: questo è il prerequisito di qualunque dialogo fra esperienze e visioni.
Se dovessi scegliere, io proporrei all’attenzione un’immagine semplice, che da una decina d’anni ricorre nella letteratura; a mio avviso, consente di mettere a fuoco alcuni nodi, attuali e di prospettiva, delle pratiche urbanistiche. Forse è il caso che gli attori disciplinari provino a pensare il futuro come uno scenario possibile di «planning without plans». L’espressione può assumere significati differenti. Per alcuni (per esempio, Stefano Moroni, in Alexander et al., 2012) allude alla sostituzione degli strumenti tradizionali di piano con un codice regolativo di uso quasi automatico, con una valenza possibilmente generale. Altri – io fra questi – intendono uno slittamento delle responsabilità disciplinari: da alcune forme di piano verso la sfera delle politiche urbanistiche e del progetto urbano. La ragione è semplice. I contenuti tecnici e politici dei piani di ultima generazione sono sempre più deboli e vaghi; hanno dunque bisogno di robusti complementi, soprattutto per assicurare una capacità operativa adeguata e la produzione di effetti urbani di qualche rilievo. Di conseguenza, diventa difficile fondare la reputazione e l’effectiveness della disciplina solo su questi strumenti. Un impegno ufficiale e pubblicamente riconosciuto sul fronte delle politiche urbanistiche e dei progetti urbani (che già trapela, in forme occasionali e informali, come ho anticipato nel par. 4) potrebbe essere una mossa saggia e strategicamente conveniente, perché potrebbe migliorare la visibilità e la capacità di influenza della disciplina. Questo passaggio, però, segnerebbe una discontinuità non banale. Si delinea un vero dilemma, che risulta decisivo per l’orientamento delle pratiche. L’urbanista deve continuare a occuparsi, soltanto, delle precondizioni dei fatti urbani (siano regole o visioni), oppure è disposto a misurarsi, anche, con le sfide dell’azione effettiva (tramite policies e progetti operativi), per provare a contribuire direttamente alla produzione di trasformazioni territoriali, grazie a contributi significativi, capaci di integrare positivamente le competenze degli attori che normalmente agiscono in questi ambiti: architetti, ingegneri, giuristi, esperti di amministrazione, gestione, e altro. Io non ho dubbi sulla seconda opzione: è giustificata, è conveniente per la disciplina. Bisogna riconoscere però che il cambiamento non sarebbe banale: metterebbe in gioco qualche innovazione radicale, che riguarda le radici culturali della disciplina e il suo modo di agire. Una svolta culturale è indispensabile perché non possiamo supporre che formalismo giuridico, normativismo, ideologie della good city e del good planning (presupposti tipici della ortodossia disciplinare) possano valere come guida e come strumenti per una urbanistica che intende misurarsi con l’azione. Il gap sempre denunciato fra teoria e pratica è una conseguenza inevitabile dell’adozione di schemi concettuali largamente inappropriati rispetto agli scopi e ai contenuti delle pratiche effettive. Un rinnovamento radicale diventa indispensabile. Io ho suggerito di assumere come pilastri della revisione auspicabile le tradizioni del realismo critico, del pragmatismo e del possibilismo: come modi di pensare e di agire largamente estranei all’urbanistica tradizionale, ma giustificati entro il nuovo orizzonte (Palermo, 2022, cap. 9).

Una svolta è necessaria anche sul piano delle funzioni operative e delle tecniche in uso. È sempre utile distinguere le funzioni essenziali che costituiscono l’azione di piano, purché siano assicurate le coerenze e integrazioni necessarie. Luigi Mazza da tempo ha suggerito un’articolazione fertile, che riconosce tre domini distinti: le regole, il visioning, i progetti (Mazza, 2004). In ognuno di questi ambiti, è possibile individuare questioni e dilemmi decisivi per la concezione e le sorti della disciplina. Si tratta, mi pare, di nodi più specifici, radicali e determinanti, rispetto agli interrogativi generali, un po’ rituali e scontati, che ricorrono (come si è visto) nella letteratura internazionale. Se il tema è la regolazione, i modi usuali della discussione disciplinare possono essere considerati datati e, in prospettiva, insufficienti. Discutere solo il single-family zoning (come vincolo esclusivo) significa guardare a un mondo del passato, sia pure ancora molto influente, in vari contesti, sull’immaginario e sulle preferenze della società locale. La suggestione dei form-based codes, negli ultimi 20 anni del Novecento, è stata una delle strategie di un movimento professionale (il new urbanism), la cui ambizione di rifondare la disciplina si è rapidamente rivelata insostenibile; ora l’attenzione è fortemente ridimensionata anche nei territori delle origini (la progettazione di quartieri o sobborghi urbani, secondo il sogno americano). L’attenzione crescente per il tema del mixed-use è una tendenza ragionevole, ma certamente datata: l’ipotesi è stata anticipata da molti decenni; semmai si deve deplorare il ritardo con il quale è stata presa in considerazione in certi contesti. Una corrente disciplinare consistente, solida nel tempo, continua a riproporre la tesi dell’indice unico di densità e edificabilità. Adduce argomenti di equità, che trovo seriamente discutibili: perché l’eguaglianza delle opportunità per i cittadini dovrebbe valere (soltanto) a parità delle condizioni urbanistiche e ambientali del suolo da sottoporre a disciplina d’uso (come insegna Norberto Bobbio, 1995). Il timore è che questa opzione sia una scelta opportunistica, perché può facilitare il consenso politico e semplificare il lavoro tecnico (ma, in verità, apre uno spazio, incerto e a rischio, di trasferimento dei diritti edificatori, che può suscitare problemi complessi di giustizia e di governo). Io ritengo, invece, che il tema cruciale della regolazione si imponga su un fronte opposto: la differenziazione contestuale delle regole, la richiesta di eventuali margini di flessibilità, la responsabilità pubblica di un uso discrezionale (ma trasparente e accountable). Questo orientamento mi pare giustificato e opportuno, ai nostri tempi. La valutazione non è condivisa da molti attori disciplinari, ma il dilemma meriterebbe una discussione. Quello che è certo è che il ricorso a regole rigide e uniformi, piuttosto che diversificate, flessibili e discrezionali, apre la via a due tipi di pratiche profondamente differenti. Lo scarto fra teoria e pratica dipende in larga misura dall’uso retorico di qualche modello –  come la pretesa di uniformità e certezza delle regole –  che di fatto è largamente eluso nelle pratiche correnti. Così si fa, ma non si ammette ufficialmente; se sono queste le condizioni, è inutile esortare a bridging the gap…

Il visioning è un campo di esperienze che ha attirato attenzioni crescenti negli ultimi 40-50 anni, sulla base di logiche diverse: come un complemento necessario degli approcci canonici, ma anche, secondo alcune tendenze, come un surrogato potenziale degli strumenti più tradizionali. Il flusso dei discorsi sul tema è diventato esorbitante, un vero profluvio di parole e esortazioni. Lo scopo, in un primo tempo, era solo potenziare la metodologia del planning, migliorando le sue capacità conoscitive, previsionali, visionarie. Negli ultimi 30 anni, però, il tema è diventato il veicolo di un rinnovamento tendenziale: sostituire le vecchie logiche dell’urbanistica prescrittiva con un orientamento più sensibile allo sviluppo, alle interazioni sociali, alle intese fra le parti. In questo senso, la visione può diventare un surrogato del piano tradizionale. Lo scarto non è banale; fare chiarezza sulle opzioni in gioco e sulle scelte preferenziali è una responsabilità da non eludere, qualunque sia il contesto. La mia opinione è che la tendenza abbia rivelato alcuni chiari limiti: i movimenti verso forme ed esperienze di spatial planning, strategic planning, strategic spatial planning, oppure solo scenario planning (ipotesi e strumenti sempre più deboli e di interesse marginale) hanno prodotto una mole impressionante di esercizi retorici e raccomandazioni, che spesso hanno svolto una funzione di diversivo rispetto alle difficoltà obiettive del settore. Tuttavia, è difficile negare che i risultati concreti, generalmente, siano stati modesti e non particolarmente positivi. Tanto è vero che molte riforme urbanistiche, negli ultimi decenni, hanno cancellato senza esitazione quegli elementi, assai controversi. Io penso che anche in questo campo alcune distinzioni siano essenziali. Senza rammarico, possiamo fare a meno di molte interpretazioni del tema come racconti edificanti di un futuro virtuoso, vagamente auspicato. Chi potrebbe dissentire dai principi e dalle intenzioni? Il problema è che gli effetti sono stati generalmente poco rilevanti. La visione ha senso e può essere influente se diventa un dispositivo concreto dei processi reali di governance, che in un territorio complesso non possono che essere a molti livelli. La visione può diventare il dispositivo che favorisce e sancisce le intese interistituzionali fra i diversi enti e livelli di governo che hanno qualche responsabilità sul territorio in esame. Confronto e intesa dovrebbero assumere come posta una selezione di grandi progetti di trasformazione, di sicura valenza strategica (non conta il numero e la dimensione, ma la forza e la qualità degli effetti potenziali sull’intero territorio). Tutto il resto è contorno: la costruzione di quadri compitativi, la lista di obiettivi edificanti, le raccomandazioni di indirizzo. Anche in questo campo, emergono dunque concezioni sostanzialmente alternative, che alludono a pratiche incomparabili. Sarebbe il caso di riconoscere il dilemma e di prendere posizione.

Il tema del progetto urbano è probabilmente il più importante. Non è necessario ribadire il punto su una rivista come EcoWebTown (EWT) che della questione ha fatto la ragion d’essere: una scelta rara e, come ho documentato, in antitesi rispetto alla letteratura internazionale sul planning. In una prima fase, sono state influenti alcune suggestioni emergenti, sui temi della sostenibilità (nella forma aggiornata di ecocity) e, più recentemente, della smartness (con i suoi richiami alla innovazione tecnologica). Nel corso del tempo, a mio avviso è parso evidente dai contributi della rivista – se mai qualche dubbio vi fosse stato – che quelle dimensioni sono rilevanti, ma non decisive, tanto meno risolutive (come vorrebbero alcune retoriche di parte). Devono essere intese con spirito critico e debita ironia, perché il tema del progetto urbano ha una valenza complessa che prescinde da qualunque declinazione (o semplificazione) specialistica. La dimensione ecologica e ambientale è importante, ma non può coprire altri eventuali problemi (secondo la nota strategia che tende a privilegiare gli effetti greenwashing).  L’innovazione tecnologica apre nuove prospettive, ma anche incognite o fraintendimenti. Non è possibile, però, trascurare altre questioni: il progetto di suolo; la concezione urbana (non oggettuale) delle architetture; un’idea di ambiente non esornativa o solo tecnica, ma socialmente costruita e verificata; il rapporto con il contesto storico e morfologico; gli effetti collaterali e la transcalarità; le responsabilità rispetto al corso evolutivo della città futura. Mi sembra che, come linea editoriale, EWT tenda a riproporre l’idea di progetto urbano nella sua complessità, senza privilegiare quei temi che sono stati di moda in una fase recente. Se è così, condivido l’orientamento. Paradossalmente, la prospettiva sembra essere inedita o marginale per molti urbanisti. Che si sono occupati di progetti attuativi, agli albori dell’urbanistica moderna (anche se le esperienze non sono state numerose e tempestive come la teoria avrebbe auspicato). Hanno provato a esplorare il tema dei «progetti norma» nelle forme nuove di piano degli anni ‘90: penso alle esperienze pilota di Gregotti e Secchi; ma quelli non erano progetti “veri” secondo De Carlo; gli esiti sono stati controversi e la tendenza si è rapidamente esaurita – così come segna il passo il movimento dei form-based codes negli Stati Uniti. La disciplina sembra esitare, invece, prima di candidarsi a svolgere un ruolo concreto (di indagine, disegno e realizzazione) nei processi di progettazione effettiva. Io penso che la scelta sia inevitabile se l’urbanista non si accontenta di lavorare sulle precondizioni dei fenomeni, ma vuole provare a incidere (anche) sulle pratiche effettive. Sarebbe una scelta conveniente in termini di immagine e di prospettive, se è vero che gli impegni tradizionali stanno diventando sempre più esili e marginali. Sarebbe anche una scelta coerente con l’idea di visione che ho sostenuto poco sopra: che può essere intesa come una sorta di «progetto urbano a scala vasta», che seleziona, organizza e guida un pacchetto potenzialmente integrato di scelte territoriali contestuali. La domanda di un simile approccio non sembra mancare, data la qualità modesta di molte grandi trasformazioni in corso – anche se il problema non è certamente solo la competenza tecnica, ma investe la crisi della politica e la cecità di alcuni interessi di parte. Non mi dispiace che il tema attiri qualche attenzione in Italia, almeno sulla carta, mentre è desolatamente assente dalla letteratura di settore, sulla scena internazionale.  
 
6. Questa non è una conclusione

Il tema dei rapporti fra teoria e pratica è declinato, nella letteratura disciplinare, in forme e modi che considero spesso stucchevoli e francamente inutili. Ha ragione Ernst Alexander quando ribadisce il primato delle pratiche in questo campo, ma questo non significa che la riflessione sia superflua e possa essere abbandonata. Probabilmente abbiamo bisogno di capire meglio la natura, il senso, i modi delle pratiche effettive, oggi, per ritrovare quadri di pensiero, linee di indirizzo e forme d’azione più pertinenti, più utili, meglio giustificati. Ho cercato di fare qualche passo in questa direzione. Non sono sicuro che le mie ipotesi e proposte siano convincenti, anche se alcune tesi mi sembrano solide: è meglio progettare una rivista di urbanistica, invece di limitarsi a selezionare i contributi emergenti; l’orientamento al progetto deve diventare una priorità; il primato delle pratiche deve prevalere rispetto alla presunta autonomia della riflessione teorica. Su un punto, però, non ho dubbi: questi sono temi che non è possibile eludere; una discussione è necessaria; spero che più di una voce voglia condividere la via.  

 

Riferimenti bibliografici

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Note

1 Nel complesso, gli articoli consultati sono stati circa 400. Mi sono limitato a citare esplicitamente in bibliografia solo i contributi che ho considerato di particolare rilievo. In tutti gli altri casi mi è parso sufficiente segnalare l’autore del contributo, il numero del volume e il numero della issue in cui il testo è pubblicato (le riviste sono accessibili in rete e il lettore interessato può facilmente completare l’informazione).