Con tono grave ma il volto sorridente nonostante l'evidente preoccupazione Giuseppe Guerra Baldelli , ingegnere e architetto come prevedeva il diploma degli anni venti ancora non disgiunto tra arte e scienza del costruire, ripeteva spesso che le case, addì 1956, erano ormai fatte per misurarsi con una vita di soli cento anni. (!)
Nulla, davvero nulla per una disciplina, quella del progetto, che da sempre e per statuto si è proposta e imposta nella storia e nel corso millenario del tempo come l'atto di modificazione ultimo ed eterno del luogo a favore del costruito, del naturale a favore dell'artificiale.
Guerra Baldelli era mio nonno e queste sue preoccupazioni risalgono ad appena sessanta anni fa : eppure oggi la preoccupazione per una così "breve" vita dell'architettura (cento anni !) appare davvero l'ultima delle mie preoccupazioni di progettista contemporaneo. L'idea che un giorno qualcuno poteva, con rammarico, constatare che la durata di un edificio fosse solo cento anni, serve solamente a misurare quanto tempo è passato da allora.
Davvero non c'è progetto, tra quelli che oggi io disegno che si misuri con un così sconfinato numero di anni. No. Cento anni sono oggi concettualmente insopportabili per un progetto, figuriamoci l'eternità. Non possiamo, oggi, più pensare ai nostri edifici ritti per sempre sulla campagna ellenica : quel divino ed eterno stare del tempio greco, simbolo della sfida dell'artificialità contro il dominio delle forze della natura, non può più essere riferimento per il nostro progetto.
Ma voglio subito dire che non provo nostalgia nel constatare tutto questo, non provo struggente rimpianto nel sapere che la vita dell'architettura è sempre più accorciata, che il suo rapporto con il tempo è sempre più virtuale.che son stufo del pensare debole, non voglio continuare a rimpiangere quel che oggi ci è culturalmente negato. Non possiamo più pensare, dicevo prima, ma è meglio dire che non vogliamo più pensare ai nostri edifici ritti per l'eternità sulle campagne elleniche, anzitutto perchè quella sfida l'artificialità delle cose l'ha oramai definitivamente vinta cotro la natura e nessuna suggestione ci deriva più, a noi contemporanei, dal vedere la capacità degli edifici a superare la gravità, a saper contaminare la naturalità una volta totalizzante del contesto, a saper vincere la sfida con le stagioni ed il tempo.
Ad altre sfide però mi piace pensare chiamato il progetto contemporaneo : a quella della sua modificabilità nel tempo, a quella della costruzione di una identità non più fondata sulla permanenza, al controllo di territori sempre meno affidati alle certezze totalizzanti e durevoli della pianificazione.
Le trasformazioni avviate e inesorabilmente prossime alle quali la pandemia non ancora conclusa ci ha obbligato, devono d’altronde rappresentare il paradigma obbligatorio per cercare di traguardare un futuro che porterà, in parte già sta portando, profonde trasformazioni del consolidato rapporto tra spazio, tempo e architettura che ha stabilmente caratterizzato l’ormai trascorsa fase della modernità. Trasformazioni che la pandemia ha accelerato, più che innescato: dunque trasformazioni attese, processi in atto, trasformazioni insomma che avrebbero preso la stessa strada ma con tempi molto differenti.
Trasformazioni che già ci impongono, e sempre più rapidamente ci imporranno di ripensare il modello urbano nel quale siamo cresciuti, nel quale tutt’oggi viviamo, ovvero il modello di città nato con la rivoluzione industriale e fondato anzitutto sulla netta distinzione tra lo spazio del lavoro e lo spazio del privato. E non secondariamente fondato sulla permanenza temporale delle scelte della pianificazione.
La produzione e i suoi spazi. Dunque la fabbrica come elemento centrale di questa metà dello spazio “urbano”. Eppoi e la vita privata ed il suo assetto sociale: la casa dunque come elemento altrettanto centrale e distinto dallo spazio della produzione.
Questa distinzione tra spazio della produzione e spazio del privato rappresenta, io credo, la “scheda madre” inasportabile del modello urbano moderno. Le fabbriche come luoghi della produzione non hanno subito e non potranno subire significativi cambiamenti dalle trasformazioni imposte dal distanziamento sociale: lo smart working non può essere applicato all’altoforno. Un assetto spaziale virtualmente immodificabile nel tempo destinato, al pari degli edifici della classici, a stare in eterno sul territorio.
La domanda che dobbiamo però subito porci è se la città nella quale viviamo è ancora e soltanto fabbrica e casa. E la risposta è che ovviamente, ed a partire dall’economia, le nostre metropoli non sono più soltanto fabbrica e casa: un nuovo e più complesso modello urbano ha modellato le nostre metropoli a partire dall’esponenziale incremento del terziario( uffici, servizi, commercio) e dei trasporti. Sino a divenirne parte spazialmente preponderante. Attività terziarie che al contrario dell’altoforno, possono anche essere svolte “in remoto”, la cui permanenza temporale appare non fondante e la cui natura deve essere per definizione facilmente modificabile.
La pandemia ha accelerato il processo di questo trasferimento e tutti abbiamo potuto constatare che la tecnologia che lo rende possibile effettivamente esiste ed è funzionante. Attenzione però a non confondere questa positiva verifica tecnologica con l’assunzione che il procedimento è completato. Difficile pensare che, alla lunga, lo spazio privato ( 60mq per mamma, papà, due figli ) possa essere adeguato allo spazio di un buon tenore produttivo. Difficile pensare che l’occupazione ipso facto operato dalle attività produttive a danno dallo spazio privato possa essere negoziato oltre l’emergenza.
Il processo di ridefinizione del rapporto tra spazio e tempo nella metropoli contemporanea, così come il processo di ridefinizione delle dinamiche sociali, economiche, logistiche e regolamentari del mondo del lavoro e di quello privato, è procedimento assai più lungo del rapido utilizzo delle piattaforme per le call che con un click tutti abbiamo, con sorpresa, imparato ad utilizzare. Una strada complessa al termine della quale, io credo, ci sarà ancora la città. Una città moderna definitivamente trasformatasi in metropoli contemporanea.