Parole chiave: Rigenerazione urbana, Città aumentate, Adattamento, Neoantropocene
Keywords: Urban regeneration, Augmented cities, Exaptation, Neoanthropocene
Abstract:
IT: Siamo dentro una sindemia che ha colpito le città, prodotta dall’azione congiunta della crisi climatica, delle diseguaglianze sociali, dell’ingiustizia spaziale e dell’emergenza sanitaria pandemica. Da urbanista che da anni studia le metamorfosi globali e locali delle città reclamo una riflessione competente e sistemica per imparare dalla crisi, per rivoluzionare i nostri comportamenti per evitare – o mitigare – la prossima crisi.
Propongo, quindi, che la rigenerazione urbana si doti di un nuovo canone fondato su un approccio incrementale, adattivo e flessibile in grado di agire sia come un attivatore dei processi generali di sviluppo urbanistico a partire dalla riattivazione della qualità di una parte del territorio, sia come uno strumento attuativo complesso in grado di generare risultati sia nel campo dello spazio fisico sia nei campi economico, sociale e culturale.
EN: We are inside a sindemia that has hit cities, produced by the joint action of the climate crisis, social inequalities, spatial injustice and the pandemic health emergency. As an urban planner who for years has been studying the global and local metamorphoses of cities, I have been complaining for a competent and systemic reflection to learn from the crisis, to revolutionise our behaviours to avoid – or mitigate – the next crisis.
I propose, therefore, a new urban regeneration rule based on an incremental, adaptive and flexible approach able to act both as an activator of the general processes of urban development starting from the reactivation of the quality of a part of the territory, and as a complex implementation tool able to generate results both in the field of physical space and in the economic, social and cultural fields.
Città a prova di sindemia
La crisi climatica in drammatica accelerazione, le aporie della globalizzazione finanziaria e commerciale, l’esplosione delle diseguaglianze e la devastante pandemia sanitaria hanno dimostrato anche ai più scettici che nell’Olocene l’ Homo sapiens è progressivamente diventato il più importante agente del cambiamento nell’ecosistema globale fino a determinare, più di duecentocinquanta anni fa, l’ingresso del pianeta nell’Antropocene teratogeno (Crutzen, 2005; Lewis, Maslin, 2015; Harari, 2017; McNeill, Engelke, 2018). Gli esseri umani sono diventati una specie dominante con una enorme capacità trasformativa in maniera estrattiva e predatoria nei confronti della natura (e spesso anche tra la stessa umanità), desiderosi di emanciparsi dalle dinamiche ecosistemiche, comportandosi come specie imperfetta (Pievani, 2019) ma arrogante nel nascondere la fragilità dentro sistemi urbani troppi minerali, ecologicamente insostenibili e generatori di diseguaglianze (Harvey, 2014). Insomma, siamo piuttosto “i bulletti del quartiere Terra”.
In questo tempo pandemico confuso, con euforia palingenetica, si sono moltiplicate le visioni e le proposte per la città post-pandemica, con la speranza che siamo già in un “dopo” (Sciascia, a cura di, 2020), ma le cronache sanitarie dimostrano il contrario, così come i segnali del superamento di numerosi limiti cruciali del pianeta. Io sono convinto – confortato da autorevoli studi (Singer, 2009; Horton, 2020) – che siamo in una crisi di sistema che produce una drammatica condizione sindemica, perché la Covid-19 è una malattia di sistema che colpisce maggiormente le persone svantaggiate, con redditi bassi e socialmente escluse, oppure affette da malattie croniche, spesso prodotte dall’inquinamento e dovute, in gran parte, ad habitat urbani che richiedono nuove politiche pubbliche su ambiente, salute, istruzione, abitare e non solo risposte epidemiologiche. Siamo dentro una sindemia che ha colpito l’habitat prevalente della specie umana: la città. Una sindemia urbana prodotta dalla coazione della crisi climatica, delle diseguaglianze sociali, dell’ingiustizia spaziale e dell’emergenza sanitaria pandemica.
(Fig. 1) I drammatici dati degli effetti dell’Antropocene urbano sulle città italiane e le conseguenti sfide di una urbanistica innovativa. [fonte: Campagna “La città cambia, cambiamo le città”, 2021]
Da urbanista che da anni studia le metamorfosi globali e locali delle città (Beck, 2017, Coccia, 2020; Latour, 2020) e lavora sulla risposta dell’urbanistica in termini evoluzionisti (Carta, 2014; 2017; 2019), reclamo una riflessione competente e sistemica per imparare dalla crisi, per rivoluzionare i nostri comportamenti una volta superata la pandemia, e per evitare – o mitigare – la prossima crisi (Ceruti, Bellusci, 2020). Non partecipo al rituale dell’abbandono delle grandi città per rifugiarci in immaginari bucolici borghi felici, come propongono alcuni con facile e consolatoria retorica (frequentatele le aree interne, come faccio io da anni, per capire di cosa hanno bisogno per tornare a essere abitate e le opportunità che possono offrire ad una rimodulazione dell’abitare multiurbano dell’Italia), e rifiuto di associare al distanziamento fisico necessario per ridurre il contagio il distanziamento urbano, producendo, come conseguenza, una dispersione urbanistica che aggraverebbe l’impronta ecologica: l’Italia consuma ancora oggi 2 mq/sec di superficie naturale e ogni bambino nasce con una dotazione di 135 mq di superficie minerale che, tuttavia, non contiene una casa sicura, una scuola efficiente, una palestra, un cinema o un teatro: è una superficie parassitaria che non genera il benessere delle persone ma anzi ne erode le possibilità (fig. 1).
Le città devono sfuggire alla trappola retorica dell’urbanistica post-pandemica che al distanziamento sociale vorrebbe associare un insostenibile distanziamento urbano, che spingerebbe ulteriormente la città a espandersi, a diffondersi atomizzata nel paesaggio, estendendo ancora la sua impronta ecologica antropocentrica. La mia proposta, invece, recupera il valore naturale della densità urbana, con un movimento duale di densificazione e redistribuzione che è un progetto di città (Nigrelli, a cura di, 2021) e non una proposta superficiale, buona solo per il marketing. Nelle città a prova di sindemia, – e a prova di futuro – dobbiamo cambiare gli spazi e i comportamenti dell’abitare attraverso alcune mosse: addensare, redistribuire, ibridare, adattare. Sono le mosse che consentono alle città di produrre l’innovazione necessaria a modificare l’ecosistema per permetterne l’evoluzione. Contro il consumo di suolo vegetale dovremo aumentare la densità di alcune parti per accogliere le nuove funzioni richieste dalla diversità degli abitanti delle città e aumentare la permeabilità di altre parti per riportare in città i necessari servizi ecosistemici. Contro la congestione centripeta dovremo distribuire servizi e attività nell’intero territorio urbano, tornando ad arricchire i margini di funzioni centrali che li rianimino, riducendo gli spostamenti parossistici, ed evitando gli assembramenti che rendono fragili i grandi attrattori (i primi, ad esempio, a cadere sotto i colpi del virus). Per aumentare il tasso di flessibilità delle città del nuovo futuro urbano dovremo rendere gli spazi più ibridi, sia quelli pubblici sia quelli domestici, lavorando sulla facile modificabilità degli usi entro campi di possibilità invece che secondo rigide regole normative. Infine, anche attraverso nuovi approcci alla progettazione, alla prefabbricazione, alla fabbricazione digitale, all’uso di materiali tecnologicamente innovativi, dovremo rendere le città più adattabili, capaci di accogliere la creatività degli usi, l’adattamento da parte degli abitanti, il bricolage permanente degli spazi in trasformazione o dismessi.
Città aumentate del Neoantropocene
Per sfuggire alla trappola dell’Antropocene dobbiamo sperimentare, aggiornandole al tempo sindemico, quelle che ho definito città aumentate (Carta, 2017; 2021), cioè sistemi urbani capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, più produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti, e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti. Città a prova della prossima crisi, potremmo definirle, in grado di offrire un nuovo campo all’audacia delle nuove culture del progetto.
Le transizioni che dobbiamo attraversare ci indicano di abbandonare il Paleoantropocene erosivo, predatorio, ad alto impatto e conflittuale rispetto alle multispecie vegetali e animali del pianeta, per entrare nel Neoantropocene, sostenibile, generativo, responsabile, capace di agire un cosmopolitismo multispecie che riattivi la simbiosi ecologica tra umanità, natura e città. Il Neoantropocene, quindi, richiede un cambio di paradigma e azioni concrete alla scala del quartiere, del comparto urbano, dell’area di rigenerazione. Voglio, pertanto, proporre un progetto di “città della prossimità aumentata” (Carta, 2020), ad intensità differenziata, policentriche e resilienti, con un più adeguato metabolismo circolare di tutte le funzioni, con una maggiore vicinanza delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi, con una nuova domesticità/urbanità dello spazio pubblico (Fig. 2).
Dobbiamo usare la creatività del progetto, imparando dalla natura che si evolve per innovazioni, per adattamenti creativi e per inedite cooptazioni (Gould, Vrba, 2018; Melis, a cura di, 2021), per adattamento e attraverso adattamenti. Nel concreto, dobbiamo progettare la rigenerazione delle nostre città perché siano antifragili, capaci di usare le crisi per innovare, luoghi mutaforma capaci di adattarsi alle diverse esigenze delle città anti-sindemiche. Non più il tradizionale elenco di funzioni separate (figlio dell’urbanistica del Movimento Moderno, della “città-macchina” compartimentata e classista), ma, imparando dall’intelligenza e dalla creatività della natura, un fertile bricolage di luoghi che siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando ruoli differenziati. Una città che si adatta a mutazioni e che adatta le proprie funzioni per percorrere le transizioni.
La sfida per le città aumentate, quindi, sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo reticolare, la diversità dei loro quartieri affinché, cessando di essere fragili periferie, possano tornare a essere luoghi di vita aperti e connessi, e non solo spazi domestici chiusi, facendo da ponte tra i divari educativi, lavorativi, culturali, naturali e digitali, producendo micro-luoghi di salute pubblica e comunità energetiche autosufficienti, localizzando strutture e servizi per bambini e giovani, riportando la natura nelle nostre vite (Molinari 2020). Dobbiamo saper frequentare e progettare quello che Ezio Manzini (2004) definisce un “localismo cosmopolita”: una città che connetta il luogo delle reti brevi della vita quotidiana sia con quello delle reti delle medie distanze a piedi o in bicicletta, sia con quello delle reti lunghe, lavorative, culturali o di studio.
Il canone della rigenerazione urbana
Nella rivoluzione delle città aumentate per riattivare qualità, sicurezza, attrattività e bellezza delle parti di città fragili, marginali e in declino non può esservi spazio per alcun atteggiamento consolatorio o fideistico nei confronti della rigenerazione urbana, che non può essere mai una mera retorica che si limiti ad alimentare il dibattito pubblico, a stimolare la produzione legislativa, a solleticare l’interesse economico o a promuovere la ricerca accademica. Deve essere invece l’esito di un approccio concreto, pragmatico ed efficace che consenta alla rigenerazione urbana di essere un processo/progetto in grado di produrre effetti reali sui bisogni e aspirazioni delle comunità e delle città e impatti concreti e duraturi.
La rigenerazione urbana, quindi, non può essere una semplice nuova locuzione lessicale che definisca in maniera teorica o normativa approcci e modalità complesse, già utilizzate da anni con successo in numerose pratiche urbane in Europa con azioni flessibili e fortemente sperimentali non rigorosamente normate. Essa richiede un “nuovo canone”, cioè un insieme di regole e protocolli, anche desunti dalle pratiche che permettano di argomentare e dimostrare l’efficacia di un nuovo approccio incrementale, adattivo e flessibile in grado di agire, a seconda delle circostanze specifiche, come un attivatore dei processi generali di sviluppo urbanistico a partire dalla riattivazione della qualità di una parte del territorio, e come uno strumento attuativo complesso in grado di generare risultati sia nel campo dello spazio fisico sia nei campi economico, sociale e culturale, indispensabili per l’attuazione e sostenibilità delle scelte urbanistiche e delle norme generali dei piani. La rigenerazione urbana, pertanto, deve riconnettere la necessaria integrazione tra piano e progetto, tra norma e forma, tra processo e azione.
Per questo la rigenerazione urbana non deve essere considerata un nuovo strumento urbanistico, figlio di una dottrina “creazionista” che postula l’azione di un disegno intelligente che piega a sé il mondo, ma deve agire in modo “evoluzionista” come un protocollo abilitante l’innovazione, cioè come uno schema di indirizzo generale nella pianificazione urbanistica, con carattere sperimentale e con finalità sia diagnostiche sia propositive. Un canone di rigenerazione urbana deve essere in grado di definire una serie di procedure e azioni capaci di agire efficacemente sia nella pratica urbanistica tradizionale, sia nelle condizioni di sperimentazione, da cui desumere ulteriori arricchimenti e approfondimenti dello stesso canone. Serve, quindi, un protocollo dinamico e non una definizione statica.
Un efficace protocollo per la rigenerazione urbana deve essere capace di riattivare un nuovo metabolismo urbano più creativo, inclusivo ed ecologico, da applicare nei processi/progetti di trasformazione urbanistica che debbano agire per riattivare parti di città (quartieri, distretti, comparti) o di territorio (aree periurbane e rururbane) che debbano uscire da condizioni di declino economico, fragilità sociale, desertificazione demografica o funzionale, dismissione industriale e manifatturiera, rischio ambientale.
Un’azione adattiva e innovativa di rigenerazione urbana che voglia agire in maniera efficace sui processi di riqualificazione e sviluppo non deve cadere nella doppia trappola di proporre tradizionali soluzioni dall’alto (discendenti da una conformità normativa o dall’intercettazione di bandi), elaborate da una razionalità giuridico-tecnica che non interagisca con la vitalità, i bisogni e le specificità delle comunità e delle imprese locali, ovvero di essere solo un montaggio di opportunità o un agente della partecipazione dal basso. Non può avere né l’arroganza della gerarchia istituzionale né sparire per essere sostituita dalla vitalità delle pratiche informali o del protagonismo dei placemaker (Granata, 2021).
La rigenerazione urbana deve, invece, accettare la sfida di adottare un fertile bricolage urbanistico alimentato da approcci creativi, adattivi e incrementali, capaci di agire sui cicli di vita identitari, di lavorare sulle componenti del metabolismo urbano ancora vive, di trovare quali siano i fattori ancora vitali da riattivare per primi perché generino la necessaria propulsione che stabilizzi l’intervento e lo renda capace di produrre effetti nel medio-lungo periodo.
Cityforming: un protocollo per la rigenerazione urbana evoluzionista
La rigenerazione urbana non sostituisce ma arricchisce, completa, attua o attiva, rendendolo performante, il tradizionale piano regolativo generale, inflessibile, istantaneo e quasi immutabile nella sua attuazione – inefficace in aree che non possono godere della destinazione di risorse pubbliche o private significative e strutturali (non sostituibili con le risorse temporanee dei fondi per la ripresa post-pandemica, anche se molto cospicui). Invece che attraverso tradizionali masterplan (obsoleti nella loro modalità e arroganza previsionale), la rigenerazione urbana si deve attuare attraverso un masterprogram, cioè un programma strategico (quindi negoziale dei diversi interessi in gioco) di interventi, consapevolmente temporalizzato e adattivo. Un programma scalabile in grado di comporre una visione globale implementando i suoi diversi frammenti di intervento, capace di un’azione tempestiva e, ove serva, temporanea nel breve periodo, ma che abbia la forza generativa per attivare processi autosufficienti e stabili nel medio-lungo periodo. Dobbiamo adottare un protocollo incrementale – che io definisco Cityforming Protocol (Carta, 2017) – capace di adattarsi ai contesti e di adattare le innovazioni, di agire per risposte pertinenti e attraverso nuove domande innovative. Un protocollo che metta a sistema l’urbanistica tattica e la sua capacità creativa, l’urbanistica collaborativa e la sua capacità di cooptazione funzionale delle innovazioni e l’urbanistica regolativa con la sua capacità di proteggere i risultati e collettivizzare gli effetti. Come avviene in natura da milioni di anni, anche il genoma urbano deve essere stimolato a generare innovazioni, nuovi spazi incompleti da adattare, nuove funzioni parziali da implementare in cooperazione con la comunità, ma poi dobbiamo saper dare una cornice generale normativa per rendere strutturale l’innovazione prodotta dalla rigenerazione urbana, per consentirle di agire nel dominio pubblico insieme a quello delle pratiche creative (d’Antonio, Testa, 2021).
Il Cityforming è un protocollo perché non è una regola sempre uguale, ma agisce come un indizio di soluzione, fornisce una serie di indicazioni per elaborare azioni specifiche che rimettano in moto il metabolismo urbano. Agisce come una cassetta degli attrezzi in cui sono riposti gli strumenti più adatti per risolvere, volta per volta, i problemi, e in alcuni casi dovremo smontare due strumenti per farne uno nuovo.
Voglio chiarire che non postulo una urbanistica o una rigenerazione urbana senza regole, fatta solo di pratiche, di innovazioni o di convenienze, tutt’altro. Rivendico, invece, il ruolo delle regole, non come fattori preventivi ma come atti democratici che stabilizzano il mondo disegnato dalla tecnica e dalle comunità e che proteggono le decisioni collettive attraverso una postura democratica non preventiva ma consequenziale ad un dibattito pubblico sugli esiti della trasformazione urbana e sulla verifica dell’ampiezza dello spettro di effetti.
Il protocollo del Cityforming parte da una visione del futuro della città o dell’area e agisce per fasi incrementali e adattive necessarie per produrre risultati parziali che diventano la base della successiva fase rigenerativa attraverso un fertile processo di adattamento nel duplice senso del termine: da un lato si adattano luoghi e funzioni al mutamento della domanda espressa dalla comunità locale o da quella che fruisce temporaneamente delle funzioni dell’area da rigenerare; dall’altro lato spazi dismessi e in transizione vengono adattati in maniera creativa – attraverso variazioni istantanee, informali, ridondanti e generate dal basso – per accogliere usi e comunità nuovi, non del tutto formalizzati e spesso temporanei, attraverso un processo di exaptation (Gould, Vrba, 2008) che, partendo da una innovazione creativa, si evolve per cooptazione funzionale, cioè per riconoscimento di un potenziale uso competitivo da parte della comunità e per conseguente estensione e stabilizzazione del nuovo spazio e dei nuovi usi proposti. In questo modo, come avviene negli ecosistemi naturali, vengono generati effetti coevolutivi – e quindi realmente rigenerativi – della città e della comunità.
Si configura, pertanto, un Exaptive Urbanism, un’urbanistica dell’adattamento che si sviluppa attraverso tre fasi differenziate per effetti e approcci (Figg. 3 e 4) che definisco colonizzazione creativa (la variazione delle funzioni), consolidamento collaborativo (la cooptazione funzionale) e sviluppo sostenibile (il salto evolutivo), producendo progressivamente le condizioni per la formazione e il mantenimento di un nuovo ecosistema adeguato a riattivare i cicli inattivi, a riconnettere quelli interrotti o ad attivarne di nuovi, più adeguati alla nuova identità e prospettive della città, anche in riferimento al contesto territoriale entro cui agisce.
Nella fase di colonizzazione creativa, in un orizzonte di breve termine (anche brevissimo), verranno localizzate alcune nuove funzioni (le colonie), anche temporanee, che agiscono come riserve di ossigeno per la formazione della nuova atmosfera urbana che dovrà alimentare la visione di futuro. Non si tratta di una colonizzazione invasiva, naturalmente, ma dell’immissione di una nuova “specie urbana” che ripopoli l’area in declino, come avviene in natura quando l’introduzione di una nuova pianta pioniera spinge tutto l’ecosistema a un salto evolutivo. Le colonie, quindi, agiscono con rispetto del luogo e accolgono funzioni leggere per il miglioramento del benessere e l’empowerment dei residenti esistenti o per attrarre nuove comunità, e sono attuate, prevalentemente, attraverso tattiche urbanistiche di recupero e autorecupero di edifici o spazi, di infrastrutture o aree vegetali, che fungono da attivatori di nuova urbanità, in coerenza con gli strumenti di programmazione e di pianificazione vigenti. In alcuni casi, la colonizzazione potrà attuarsi attraverso la rimozione di alcuni detrattori infrastrutturali o ambientali che riducono la vitalità delle aree di rigenerazione, per agevolare la riconnessione dei reticoli ecologici o per poter introdurre nuove funzioni senza aumento netto di volumetria.
Nella fase di colonizzazione gli interventi possono ricombinare elementi preesistenti, adattando e giustapponendo “ad hoc” (riattingendo dalle avanguardie open source di Charles Jencks degli inizi degli anni Settanta) diversi tipi di spazi, stili e funzioni, stimolando, quindi, risultati solo in parte prevedibili. Un rinnovato adhocismo (Jencks, Silver, 2013) che, attraverso il consolidamento di alcuni esiti, genera futuro possibile e non solo scontata estensione del presente.
Il consolidamento collaborativo, con un orizzonte di medio termine, agisce sul nuovo ecosistema in trasformazione grazie alle colonie, attraverso il completamento delle funzioni abbozzate, la nascita spontanea o l’innesto di alcune funzioni più stabili, più pregiate e più potenti dal punto di vista della capacità di generare valore economico a sostegno della loro gestione, poiché economicamente sostenibili anche grazie all'incremento di valore e di attrattività dell’area generato nella prima fase.
Il consolidamento agisce anche attraverso la riattivazione di risorse latenti già presenti nell’area e che sono state stimolate e perturbate positivamente dalla fase di colonizzazione. La fase di consolidamento rafforza la collaborazione con i soggetti istituzionali della trasformazione territoriale e agisce più per reticoli che per nodi e perde un po’ della sua autosufficienza e autonomia, iniziando a usare le risorse urbane del luogo – quelle materiali ma più spesso quelle immateriali (la comunità di persone riattivata dalla fase di colonizzazione) – per radicarsi e per espandersi, anche iniziando un processo di integrazione con il contesto – fino alla loro mimetizzazione – che ne rafforza la presenza.
Infine, lo sviluppo sostenibile è la fase di lungo termine, in cui il nuovo metabolismo dell’area, stimolato e riattivato dalle fasi precedenti, viene rimesso definitivamente in funzione per generare un più cospicuo valore urbano attraverso la progettazione di nuovi insediamenti residenziali, di infrastrutture di mobilità e di attrattori di rango urbano e metropolitano. In questa fase, a seguito della metamorfosi prodotta dalle prime due, viene redatto un piano dell’intera area urbana, basato non su una astratta prefigurazione, ma sulle reali nuove identità e potenzialità dei luoghi rigenerati nelle fasi precedenti, reso più efficace dagli effetti concreti delle azioni di colonizzazione e consolidamento sulle comunità insediate o sopraggiunte.
L’approccio del Cityforming, quindi, non si limita ad attuare per stralci temporali una visione predefinita, frutto di una elaborazione progettuale preliminare che preveda con arroganza tutti i bisogni, che presupponga ingenti risorse economiche per la sua attuazione completa o che richieda l’attivazione di una elevata rendita fondiaria o immobiliare per la realizzazione di tutte le opere. Invece, viene generato un programma di azioni che si vanno componendo e definendo in funzione degli esiti parziali, delle domande nascenti o generate dai primi effetti rigenerativi, in base al consolidamento dei nuovi ruoli urbani dell’area, in base ai valori e alle aspettative che vengono generati dai nuovi abitanti, dai nuovi servizi e forme di collaborazione, dalle opportunità fiscali e dalle nuove economie urbane prodotte nelle prime due fasi, capaci di innescare la terza.
Il Cityforming non vuole essere l'ennesima strategia progettuale senza concretezza, e non è nemmeno un semplice montaggio di pratiche innovative senza una cornice di coerenza, ma agisce come un potente perturbatore creativo dei sistemi urbani in riduzione di metabolismo e in crisi di sviluppo, connettendo pratiche e strumenti formali, iniziative civiche e piani. Non si limita ad insediare popolazione, ma genera comunità, anche temporanee o intermittenti, in grado di rivitalizzare lo spazio attraverso la forza propulsiva delle persone che lo abitano, che vi lavorano, che visitano e acquistano, che imparano ed educano, che si prendono cura e si curano, che creano e si divertono.
Il Cityforming si basa su un processo di analisi di scenario che permetta di valutare gli impatti e guidare le scelte progettuali, rispondendo alla domanda “what if?”, cosa potrebbe accadere se inserisco una determinata funzione in un’area da rigenerare? Un’analisi probabilistica (basata sulla mole di dati accessibili da parte delle città aumentate) permette di valutare in tempo reale gli effetti e impatti prodotti dalla modificazione di uno spazio pubblico, un edificio o una infrastruttura in un determinato modo. Per esempio, aprendoli a differenti comunità religiose, rendendoli più femministi, estendendo la loro funzione all’intera giornata, plasmandoli per usi dei giovani o degli anziani, accogliendovi abitanti temporanei o intermittenti, rendendoli molto flessibili negli usi o nelle configurazioni spaziali. L’approccio “what if?” apre campi di possibilità, stimola l’innovazione, incoraggia la cooptazione funzionale di spazi urbani non predeterminabili, ma che potranno accogliere le nuove domande di città. Alla presunzione della regolazione e della standardizzazione, dobbiamo sostituire un protocollo che, in maniera euristica, simuli scenari, ne valuti gli effetti, consolidi funzioni e su di esse costruisca un nuovo ecosistema urbano in evoluzione fino alla sua stabilizzazione nel tempo medio-lungo, dopo che le variazioni avranno generato effetti sulla capacità dell’organismo urbano di sopravvivere alle situazioni di crisi, non solo riducendo gli effetti e rimuovendo le cause, ma anche rimettendo le città in simbiosi con l’ecosistema terrestre.
Conclusioni
Il nuovo canone della rigenerazione urbana deve agire come un insieme organico di interventi che riguardi sia edifici pubblici e privati che spazi pubblici, infrastrutture e paesaggi attraverso iniziative di demolizione e ricostruzione, ristrutturazione e riciclo urbano o nuova costruzione, con l’obiettivo di conseguire la maggiore attrattività dell’area anche dal punto di vista dei nuovi abitanti (stabili, temporanei, intermittenti, nomadi), la facilitazione della localizzazione delle imprese (soprattutto di quelle orientate alla innovazione e alla creatività), la riduzione dei consumi idrici ed energetici (agendo sulle prestazioni degli edifici, sul risparmio e la produzione di energia da fonti rinnovabili), la messa in sicurezza degli edifici da un punto di vista statico, la bonifica ambientale delle aree inquinate, la qualità degli spazi pubblici come luoghi per la coesione, la riduzione delle aree impermeabili per il miglioramento dei cicli vitali delle città, il miglioramento della gestione e della raccolta differenziata dei rifiuti, e la mobilità sostenibile incentrata sulla migliore integrazione degli spostamenti pedonali e ciclabili con il trasporto pubblico.
Il canone della rigenerazione urbana, pertanto, deve comprendere strumenti di sostenibilità economica per la sua attuazione, poiché, di concerto con i diversi livelli di governo per le rispettive competenze, deve poter utilizzare un’adeguata fiscalità urbanistica differenziata attraverso provvedimenti di riduzione del costo degli oneri di costruzione e dei costi connessi agli interventi di rigenerazione urbana, nonché attraverso un adeguato sistema di premialità che agevoli e faciliti gli interventi di rigenerazione, di contenimento del consumo di suolo, di riuso rispetto alla espansione urbana.
Non è la pandemia, quindi, che ci impone di ripensare le città e re-immaginare l’urbanistica, essa è solo un acceleratore, un amplificatore di consapevolezza. Sono la progressiva insostenibilità ambientale, la drammatica fragilità territoriale e l’ingiustizia sociale del nostro modello di sviluppo predatorio che, da tempo, ci richiamano alla responsabilità di progettare per rigenerare e non per consumare, per innovare e non solo per regolare. Non è più il tempo di manutenzioni e piccoli adattamenti, ma è venuta l ’ora di un nuovo canone che consenta il salto dalla città rigida del Novecento, espansiva, regolativa e gerarchica, alla città aumentata, ecologica, evoluzionista e flessibile del XXI secolo: dalla città predatoria dell’Antropocene, alla città generativa del Neoantropocene, della prossimità aumentata, della salute pubblica come progetto dello spazio e non solo come presidio o controllo. Anche l’umanitàdeve fare un salto evolutivo, diventando più sensibile e adattiva alle metamorfosi, più accurata e tempestiva nella soluzione dei problemi, e, soprattutto, più intelligente perché più responsabile e collaborativa nei confronti del nostro abitare la Terra.
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