Questo numero di EWT è riferito al tema del Progetto Urbano per Città Adattive. Si auspica l’avvicinamento tra due approcci tematici finora generalmente separati, la sostenibilità e la resilienza (ovvero l’adattamento ai cambiamenti climatici), da reintegrare concettualmente e operativamente all’interno di un modo d’intendere più complessivo del progetto urbano. Quest’ultimo, opportunamente riformulato alla luce dei suoi problematici rapporti con i temi della questione ambientale e della adattività urbana,è chiamato a produrre un valore aggiunto che non proviene dalla semplice aggregazione settoriale delle singole misure necessarie volta a volta per il miglioramento energetico, idrico, dell’acqua e del suolo, o per il contrasto ai cambiamenti climatici, ma che postula la loro convergenza programmatica e bilanciata fin dalle fasi iniziali della ideazione del progetto fino a quelle della realizzazione degli interventi.
In sostanza EWT intende contribuire alla piena affermazione di un approccio integrato Sustainability Adaptive Urban Design nei processi di rigenerazione urbana, attraverso cui perseguire una nuova idea di città che ponga al centro tanto l'adattabilità quanto la qualità complessiva dell’ambiente insediativo e del contesto di vita della popolazione.
Il Sustainability Adaptive Urban Design a cui facciamo riferimento accresce la complessità e le responsabilità del progetto. Deve consentire infatti di traguardare consapevolmente le diverse dimensioni di intervento nella logica del Progetto urbano, dalla organizzazione della mobilità sostenibile alla configurazione degli assetti morfologici e funzionali delle urbanizzazioni, dalla programmazione delle reti di servizi pubblici alla predisposizione delle infrastrutture tecniche per l’energia, l’acqua, la comunicazione. L’obiettivo è di ispirare esplicitamente alle strategie della sostenibilità e ai criteri ecofriendly la configurazione sia degli spazi urbani esistenti che quelli di nuovo impianto, arricchendoli di qualità e di senso coerenti con i valori dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea. In particolare, ci si propone di far valere l’importanza determinante delle condizioni di contesto e della adattività urbana ai cambiamenti climatici, non soltanto sotto il profilo dei valori morfologici, estetici e storico-culturali, ma anche ai fini delle dotazioni diffuse di risorse energetiche e ambientali rinnovabili, in alternativa al modello della produzione centralizzata a distanza che utilizza fonti fossili tradizionali a forte impatto ambientale.
I contributi di EWT24 a questa tematica, da tempo al centro della cultura urbanistica e tecnologica e ormai anche delle più recenti politiche comunitarie, intendono dimostrare la fattibilità dell’approccio proposto, dando conto anche di alcune sperimentazioni in corso presso le città europee e italiane più intraprendenti. Nel prossimo futuro torneremo sull’argomento, interrogandoci criticamente sulla possibile generalizzabilità delle soluzioni più efficaci che stanno emergendo da questa fase di sperimentazione in corso in Europa. Intanto i contributi preliminari raccolti in questo EWT 24 dovrebbero già fornire alcune indicazioni concrete per impostare i prossimi interventi nell’ambito del Piano Nazionale di Rilancio e di Resilienza PNRR.
È forse il caso di ricordare che i temi della sostenibilità esplicitamente riferita al progetto per la città erano stati enunciati nel programma fondativo della rivista, ormai circa dieci anni fa. Grande attenzione era stata dedicata allora alle questioni definitorie, con la individuazione e la modulazione appropriata dei sistemi che più concorrono al funzionamento sostenibile della città. Tutte questioni a cui rinviamo ancora adesso e che in breve intendiamo riproporre attenendoci a una definizione abbastanza estensiva di città sostenibile come “città che facilita l’economia e la vita sociale con il minore impatto possibile sull’ambiente naturale” (Cohen, Dong, The Sustainable City, Columbia University Press, New York, 2021). Con il tempo, ci si è resi conto peraltro che la trasformazione verso la città sostenibile e adattiva richiede una elevata disponibilità di tecnologie avanzate e di finanziamenti mirati, nonché l’adeguamento conseguente dei modi di gestione, in particolare dell’energia, dei rifiuti solidi, e del ciclo delle acque soprattutto di scarico, e infine una offerta consistente di risorse per l’alimentazione, di spazi aperti e parchi, oltre che prestazioni elevate del sistema sanitario e di quello dei trasporti.
Dunque, l’attenzione si è progressivamente spostata dalle questioni definitorie e dalle condizioni di funzionalità dei diversi sistemi più in generale allo stile di vita della popolazione, un aspetto per molti versi sfuggente e tuttavia indispensabile per raggiungere un ambiente e un’economia effettivamente sostenibile. Al riguardo si può citare il Programma Ambiente dell’ONU che definisce lo stile di vita non soltanto l’espressione del nostro modo di lavorare, abitare, acquistare e consumare, ma anche il “ripensamento del modo in cui organizziamo la nostra vita quotidiana, adattando il modo in cui socializziamo, scambiamo, condividiamo, educhiamo e forgiamo le nostre individualità” (UN Programme, Visions for Change, Paris, 2011).
È comprovato tuttavia che la sostenibilità impone il cambiamento non soltanto dei comportamenti individuali, ma anche quello ancora più importante delle istituzioni pubbliche e delle organizzazioni private. Diversamente dal passato, i manager di oggi devono prestare una grande attenzione a questioni vincolanti come l’uso e il costo delle risorse naturali, il costo degli scarti generati e i rischi conseguenti agli impatti ambientali, e infine gli impatti sull’ambiente esterno dei loro prodotti.
Diventano insomma sempre più centrali i problemi della transizione dagli assetti complessivi attuali della città a quelli futuri, e non è certo un caso che la Commissione europea abbia assunto la transizione ambientale insieme a quella digitale come chiave di volta della futura economia comunitaria. Purtroppo, in questa prospettiva i problemi di gestione della transizione, forse a causa della loro scottante conflittualità, vengono generalmente sottovalutati, frenando di conseguenza il reale processo di conversione dell’economia verso le fonti rinnovabili (secondo la UE, entro il 2030 il 72% della produzione dovrebbe ottimisticamente provenire da fonti rinnovabili). Ad esempio, si è stimato che di qui al 2030 serviranno realisticamente 120 miliardi all’anno per assecondare la transizione “green” della nostra economia. Ma in questa travagliata congiuntura del nostro Paese, ancora alle prese con la emergenza della pandemia, non siamo ancora riusciti a garantire un’offerta di energia sufficiente e a prezzi equi, mantenendo l’approvvigionamento al riparo dai rischi inflattivi e geopolitici (in particolare in presenza delle attuali tensioni belliche in Ucraina). La recente fiammata delle bollette tende così giustamente a creare un enorme allarme sociale, con il rischio di rallentare o addirittura di travolgere tutto il processo di sostituzione dell’economia da fonti fossili con quelle rinnovabili.
Del resto, come peraltro era stato già previsto, in questa prima fase agiscono pesanti controspinte che minacciano seriamente il successo finale delle politiche ambientali per la sostenibilità.
Ad esempio, si stima che il consumo di greggio già nel 2022 supererà i livelli pre-pandemia, mentre il prezzo del petrolio sta risalendo vertiginosamente verso i 100 dollari per barile. L’aumento dei prezzi delle fonti fossili riflette non soltanto la conseguenza degli scenari di guerra sempre più catastrofici, ma anche l’interesse strategico delle Big Oil a dirottare gran parte degli investimenti sulla ricerca di nuovi giacimenti verso la green economy. In queste condizioni la dipendenza da combustibili fossili come gas e petrolio non va considerata congiunturale, ma strutturale per ancora molti anni a venire. Inoltre, la transizione ecologica (che ormai va riconosciuta come una tendenza di fondo della nostra epoca insieme al salutismo) rischia seriamente di allargare la spaccatura tra i ceti più abbienti e quelli più poveri (una sorta di riedizione aggiornata della contrapposizione tra città e campagna sperimentata già in sede elettorale, soprattutto negli USA), creando tensioni e diseguaglianze che complicano non poco la governabilità dei processi di riconversione auspicati.
In definitiva, si può a buon diritto sostenere che la accresciuta consapevolezza ambientale, in particolare per migliorare la qualità dell’aria e per scongiurare catastrofi climatiche, è diventata ormai un paradigma obbligato della nostra epoca. Ma adesso per dare seguito effettivo a questo nuovo paradigma c’è da incorporare concretamente la sostenibilità all’interno delle strategie organizzative tanto delle istituzioni pubbliche che delle imprese private, e questo cambiamento si scontra inevitabilmente con enormi difficoltà, data la vastità di interessi che mette in gioco. Per di più il tempo gioca un ruolo decisivo, e il ricorso al gas naturale come soluzione-ponte a favore della transizione non può durare troppo a lungo, se non vuole diventare una effettiva alternativa al modello “green” fondato sulle energie rinnovabili.
L’asse della ricerca tende dunque a spostarsi verso le questioni della pianificazione strategica che dovrebbe essere necessariamente praticata dalle varie organizzazioni per affrontare al meglio la transizione ambientale. In particolare, Cohen e Dong individuano i seguenti passaggi che dovrebbero scandire in generale il processo di pianificazione strategica delle organizzazioni pubbliche e private orientato alla sostenibilità (op.cit., 2021):
Quali che siano le effettive capacità di pianificazione e gestione strategica da parte delle organizzazioni pubbliche e private, non c’è dubbio che un ruolo sempre più importante siano destinate ad acquistarlo le politiche pubbliche finalizzate a rendere sostenibili le città. In particolare, più ancora delle eventuali politiche di livello nazionale e sovranazionale, contano le intenzionalità e le capacità delle amministrazioni locali nel promuovere i processi di riconversione sostenibile.
Dappertutto si moltiplicano piani ambiziosi di riduzione delle emissioni inquinanti e di sviluppo delle energie rinnovabili. Ad esempio, il “Green New Deal” di Los Angeles si prefigge di raggiungere il 100% dell’energia con fonti rinnovabili entro il 2045, e il 100% del riciclaggio delle acque di scarico entro il 2035, per toccare infine l’obiettivo dello zero-emissioni entro il 2050. In realtà più diffuse ancora di queste volenterose strategie totalizzanti appaiono alcune pratiche quotidiane empiriche, come la conservazione e il potenziamento del patrimonio arboreo, l’adozione di veicoli a propulsione ibrida, la promozione delle piste ciclabili, la conservazione delle risorse idriche, la costruzione di nuovi edifici conformi agli standard LEED (Leadership in Energy and Environmental Design).
Seppure in modo meno evidente, anche le nuove strategie di settore (ad esempio l’impianto dei nuovi pannelli solari o dei dispositivi per accrescere l’efficienza energetica o ancor più per realizzare le “microgriglie” di produzione e consumo di energie autoprodotte con fonti rinnovabili) sembrano incapaci di garantire le stesse quantità di posti di lavoro offerte dalle industrie tradizionali. I conflitti sociali così tendono a frammentarsi e a particolarizzarsi, ma non scompaiono certo dalla vita delle città che vogliono intraprendere il difficile cammino verso la propria sostenibilità, o verso il contrasto ai cambiamenti climatici in atto. Sebbene di solito si preferisca concentrare l’attenzione sulle misure virtuose finalizzate alla transizione green, gli esplosivi problemi dell’economia e dell’occupazione – se non affrontati per tempo – tendono ad ostacolare pesantemente anche gli ambiziosi programmi ambientali lanciati dalle amministrazioni più intraprendenti, e senza un adeguato e condiviso impegno politico (sia a livello centrale che periferico) si rischia di girare a vuoto.
È indubbio, comunque, che una città impegnata a diventare più sostenibile e adattiva tenda a favorire implicitamente la sostituzione dell’economia tradizionale basata sulla manifattura dei prodotti con un’economia dei servizi, maggiormente innovativa e brain-based. Per di più i processi di riconversione green generano giganteschi processi di redistribuzione dei profitti e delle perdite tra i potenti stakeholder in gioco, che peraltro molto spesso restano opachi. Diventa così assai problematico affidare la risoluzione dei conflitti ad un consapevole e aperto processo di confronto democratico, e del resto vediamo che gli stessi partiti nazionali sono attraversati da spinte contraddittorie, che ne inficiano la chiarezza delle scelte e la risolutezza degli orientamenti.
Tutto ciò si riflette sulla quantità e sulla natura dei finanziamenti pubblici disponibili per politiche della transizione ambientale. In effetti i governi locali (e centrali) possono contare su un’ampia varietà di misure per favorire i processi di transizione green, sia per realizzare le infrastrutture necessarie che per incentivare lo sviluppo di tecnologie “clean”. Ma il ricorso a simili provvidenze è la conseguenza di una complessa decisione politica che di solito rappresenta il punto di mediazione possibile tra i molteplici interessi in gioco, oltre che naturalmente il viatico indispensabile per un eventuale accesso a fondi provenienti dal livello comunitario o internazionale.
Una amministrazione locale che voglia intraprendere il difficile cammino verso la “sostenibilità adattiva” deve dunque far quadrare le proprie decisioni circa le infrastrutture da realizzare prioritariamente e il sistema normativo da imporre ai propri cittadini con una varietà di misure di solito decise e predisposte altrove, presso il governo centrale o le sedi comunitarie. L’esito di questa complessa interazione diventa inevitabilmente incerto, e i rischi da affrontare crescono notevolmente nonostante l’eventuale favore maggioritario manifestato dalla popolazione locale per la difesa dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico. Naturalmente può essere di notevole aiuto la mobilitazione della società locale e il partenariato con gli attori privati che intendano contribuire volontariamente alla transizione green. Ma insomma il compito di una amministrazione comunale effettivamente orientata alla sostenibilità non è certo facile, a meno che non voglia limitarsi ad utilizzare passivamente le somme stanziate dagli altri organi di governo.
C’è in ogni caso bisogno di promuovere una visione positiva della sostenibilità adattiva, senza costringere a disertare i valori che hanno animato tradizionalmente lo sviluppo delle città: la libertà, in primo luogo, ma anche la ricerca del benessere e dell’innovazione delle forme di vita, accompagnata dall’accettazione del problematico confronto con le alterità delle culture e degli stili esistenziali che caratterizzano le molteplici presenze nella città contemporanea.
Insomma, il tema della transizione verso la città sostenibile e adattiva sta diventando sempre più cruciale. Ma chi voglia cavalcarlo davvero dovrà farsi carico anche della nuova questione sociale, garantendo in particolare che nessuno venga lasciato indietro o sacrificato sull’altare della sfida verde. Gli elettori, del resto, sembrano averlo ben capito, e il possibile successo delle politiche ormai si misura in modo decisivo con la loro sostenibilità sociale oltre che ambientale ed economica.
Naturalmente EWT dal proprio punto di vista si preoccupa soprattutto delle questioni del progetto e delle strategie interdisciplinari più opportune per coniugare positivamente la sostenibilità ambientale con l’adattività dei processi di trasformazione urbana. Come è noto, la ricerca architettonica di questi anni sta progredendo rapidamente nel combinare la sperimentazione di nuove tecnologie con visioni talvolta utopistiche di città intenzionate a difendere le popolazioni dagli shock dei cambiamenti climatici. Esemplare da questo punto di vista è la produzione recente di Bjarke Ingels, fondatore dello studio BIG, che da tempo sta lavorando sul tema delle metropoli ecologiche di domani avanzando soluzioni creative e immaginifiche, come espressione di una qualità dell’architettura sempre più ambiziosa e innovativa. Lo testimonia il progetto per Woven City, una città nuova in Giappone. E poi Telosa, nel deserto degli Stati Uniti. Per giungere infine a Mars Science City, un prototipo di città per Marte (!) da sperimentare nel deserto di Dubai su incarico degli Emirati arabi.
Il pensiero di Ingels può apparire eccessivamente condizionato dal ricorso alle tecnologie più avanzate e dalla grande dimensione nella ricerca delle economie di scala necessarie per contenere i costi dell’edilizia abitativa. Per contro più aperto alla partecipazione e al confronto critico appare il programma New European Bauhaus, lanciato dalla Commissione europea nel 2020 in margine al Green Deal, mirato a sostenere la transizione ecologico-ambientale che dovrebbe far diventare l’Europa il primo continente climaticamente neutro entro il 2050. Il NEB si propone ambiziosamente di favorire la nascita di nuovi paradigmi di progettazione degli spazi urbani in grado di coniugare bellezza, sostenibilità e inclusione sociale, aggiornando il concetto di opera d’arte totale perseguito dal Bauhaus circa cento anni fa. Si è chiusa da poco la prima fase, con la selezione di 60 progetti finalisti (su circa 2000 candidature) di cui verranno poi realizzati sperimentalmente quelli più convincenti su cinque siti scelti per applicare il nuovo concetto di Bauhaus. Forse è ancora troppo presto per sapere se questa iniziativa riuscirà davvero a mettere a punto i nuovi canoni progettuali per quella metropoli sustainability & adaptiveness sensitive che abbiamo evocato all’inizio di questo scritto. La complessità delle innovazioni in gioco trapela anche dal contributo di Filippo Angelucci, che insieme a Ester Zazzero ha curato la organizzazione di questo numero di EcoWebTown.
Ma insomma la ricerca e la sperimentazione si stanno sviluppando, e da questo fermento emergeranno presto i progetti urbani più efficaci per trasformare nel senso voluto le città del mondo. Per inciso, i contributi raccolti in questo numero offrono già primi materiali utili alla impostazione dei nuovi progetti urbani ecosostenibili, che tra l’altro propongono una interessante alternativa a programmi strategici onnicomprensivi molto ambiziosi e forse scarsamente fattibili come quelli intrapresi da Los Angeles New York, Copenhagen o Rotterdam. In ogni caso non è lecito ignorare o sottovalutare le difficoltà di promuovere politicamente simili progetti, nonostante le generose intenzioni che guidano le città più sensibili all’ambiente. Per questo motivo abbiamo voluto soffermarci criticamente sulle condizioni che sembrano incidere in modo determinante sull’affermazione di questa nuova cultura, che è ancora ai suoi esordi, ma già si trova al centro di scontri incandescenti al cuore dell’economia e della stessa società. La capacità di portare fino in fondo i progetti urbani in corso ci aiuterà a capire quanto il momento sia diventato effettivamente maturo per realizzare davvero città più sostenibili e adattive.