Il 23 Marzo del 2021, la nave portacontainer Ever Given, partita da Taiwan e diretta a Rotterdam, un gigante di 400 m. di lunghezza e largo 59 m., capace di trasportare 20.000 contenitori (Teu), si è incagliata nel canale di Suez bloccandolo per 6 giorni. Le conseguenze sono state immediate: centinaia di navi ferme in attesa nel Mar Rosso, (alcune navi cisterna hanno scelto di circumnavigare l’Africa allungando il proprio viaggio almeno di una settimana), ritardi nelle consegne, interruzioni nei cicli produttivi, esaurimento delle scorte, congestione nei porti, container vuoti che non hanno fatto ritorno in Cina nei tempi previsti, aumento del greggio, rincari dei noli. È stato stimato un costo per una settimana di blocco di oltre 8 miliardi di euro. L’incidente ha messo in evidenza l’estrema fragilità delle catene di approvvigionamento del commercio internazionale e la centralità del Mediterraneo.
Il raddoppio del canale di Suez (completato nel 2015) ha riaffermato il ruolo del Mediterraneo come una delle aree strategiche del traffico marittimo. Nel canale transita il12% del trasporto merci mondiale (ma, ricordiamolo, circa il 90% delle merci prodotte nel mondo viaggiano via mare).
Il dato è di per sé sufficiente a sottolineare la centralità del Mediterraneo, ma c’è molto di più: il bacino rappresenta una area economica importante per l’energia (recentemente sono stati individuati consistenti giacimenti di gas tra Cipro, l’Egitto e Israele), per il passaggio di importanti gasdotti e cavi di fibre ottiche, per la pesca, per lo scambio commerciale tra i paesi della UE, il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Il Mediterraneo è da sempre un’area geopolitica determinante per gli equilibri internazionali, per questo il suo spazio è anche uno scacchiere militare inquieto in cui si confrontano le forze della Nato, della Russia e ora della Turchia, e dove paradossalmente l’Unione Europea è sempre più assente. Il Mediterraneo è anche la rotta di grandi flussi di migrazione, lo è stato nel passato, lo è oggi e verosimilmente lo sarà ancora di più nel futuro, non solo per l’instabilità politica di molti paesi e le numerose guerre in corso, ma per le crisi alimentari e ambientali che minacciano i paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia.
Il Mediterraneo dei canali
Con il canale di Suez, realizzato in dieci anni tra il 1859 e il 1869, il lago mediterraneo fu messo in comunicazione con il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, rendendo inutile la circumnavigazione dell’Africa. La nuova via marittima connetteva l’Europa con Asia: in breve le vie terrestri percorse dai convogli carovanieri dell’antica via della seta furono surclassate. L’apertura del canale di Suez ha rivoluzionato lo spazio del Mediterraneo riportandolo al centro del mondo, nello stesso tempo questa grande opera infrastrutturale, ha accelerato il processo di modernizzazione dei mezzi di trasporto e la ricerca di maggiore efficienza e velocità. Il giro del mondo in ottanta giorni di Jiules Verne esprime bene questa volontà di ridurre le distanze. Non a caso l’itinerario descritto nel libro si incentra sul canale di Suez che viene raggiunto in due tratte: via treno da Londra a Brindisi e via mare dal porto di quest’ultima a Port Said, poi si attraversava il canale e si proseguiva fino a Bombay (era la famosa “Valigia delle Indie”).
Dopo la lunga fase di dominio delle rotte transatlantiche, l’economia marittima e la politica internazionale tornarono nel Mediterraneo. Il Canale di Suez come asse strategico del nuovo scenario si impose fin dall’inizio come luogo di contesa e di conflitto. La tensione raggiunse il culmine nel1956, quando il presidente dell’Egitto Gamal Abd al-Nasser ne minacciò la nazionalizzazione, causando l’intervento armato da parte del Regno Unito e della Francia. In quella occasione si fu ad un passo da un conflitto mondiale, ma da allora fu definitivamente chiaro che il Mediterraneo, da spazio coloniale dominato dalla flotta inglese, era divenuto un quadrante geopolitico in cui si confrontavano le grandi potenze, da un lato gli Usa e dall’altro l’URSS che imposero la pace con il ritiro da parte dei francesi, inglesi e israeliani dei territori occupati. La proprietà del canale fu lasciata all’Egitto, sottoponendola ad una convenzione che (come le precedenti) prevedeva il libero passaggio. A distanza di oltre mezzo secolo la situazione vede in campo ancora le superpotenze di allora, gli Usa e la Russia (al posto dell’URSS), cui si sono aggiunte la Cina e più recentemente la Turchia.
Dopo la crisi del 1957, il canale di Suez ha funzionato ininterrottamente tranne per alcuni anni a ridosso della guerra dei sei giorni del 1967 tra Israele e la coalizione araba tra Egitto, Siria e Giordania. Attraverso il canale transitano (dati 2019) 19.000 navi all’anno, circa un miliardo di tonnellate di merci e oltre 44 milioni di contenitori. Rispetto al passato in cui le merci trasportate dalle navi petroliere prevalevano sul totale, oggi il primato spetta alle portacontainer (il 50% delle merci). Grazie al raddoppio del canale e all’ampliamento della sua sezione in larghezza e profondità il transito è consentito anche alle mega navi e questo ha aumentato la sua competitività nei confronti del Canale di Panama. Il raddoppio del canale di Suez, con la realizzazione nella parte centrale del percorso, di una nuova corsia di 37 Km (la lunghezza complessiva del canale è ora di 193,3 Km.) ha reso possibile che le navi possano procedere in entrambe le direzioni con una forte riduzione dei tempi transito (da 18 a 11 ore).
Lungo la spiaggia di Tarifa, nell’estremo sud della Spagna, di fronte a Tangeri, c’è un vecchio cartello che indica dove inizia il Mediterraneo, in realtà non c’è un punto preciso, ma nel canale di Gibilterra tra il Marocco e la Spagna l’oceano Atlantico si mescola con le acque del Mare Nostrum. Il canale ha una lunghezza di circa 60 Km e una larghezza minima di 14 Km (tra Tarifa appunto e Punta Cires).
Prima del Canale di Suez, era questo il collo di bottiglia più importante del Mediterraneo. Lo aveva inteso perfettamente la Gran Bretagna che, conquistata all’inizio del XVIII secolo la roccaforte di Gibilterra per il controllo militare e commerciale del passaggio, ha difeso con determinazione il suo avamposto nel Mediterraneo. L’apertura del Canale di Suez ha reso lo stretto di Gibilterra ancora più importante, rafforzando la scelta strategica inglese di mantenere la sua posizione in entrambi i canali. Ora gli equilibri sono cambiati, ma la bandiera britannica sventola ancora sul promontorio di Gibilterra. Mentre nel passato, fino alla seconda metà del XX secolo, era la rotta atlantica a condizionare il traffico marittimo nel Mediterraneo ora è quella Asia-Europa- America del Nord a dominare lo scenario.
Attraverso il canale di Gibilterra transitano circa 100.000 navi all’anno, molte di più rispetto al Canale di Suez, ma dal punto di vista del valore commerciale è quest’ultimo ad avere un traffico più consistente. Se prendiamo a riferimento il movimento di contenitori nel Mediterraneo e nel Mar Nero, pari a 62 milioni di TEU, oltre il 70% dipende dal Canale di Suez e solo il 30% è generato dagli scambi tra i paesi dell’area euro mediterranea e tra questa e il Nord America. Da uno studio di Assoporti del 2018 si ricava che il traffico merci (espresso in tonnellate) che transita in entrambe le direzioni per il canale di Suez e ha per origine e destinazione il Nord Europa e l’America del Nord è pari al 36% del totale. In questo senso il transito attraverso il Canale di Gibilterra è secondo rispetto a quello di Suez.
Sul canale di Gibilterra, tuttavia, c’è oggi molto interesse: lo sviluppo del porto di Tanger Med, con la sua piattaforma logistica e industriale, ha rilanciato il vecchio progetto di connettere l’Africa con l’Europa l’ipotesi attraversando il canale mediante un tunnel sottomarino lungo 40 Km.
Gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, che connettono il Mediterraneo al Mar Nero, hanno assunto negli ultimi anni un peso notevole. Attraverso di esso transitano 50.000 navi all’anno. Il traffico merci è caratterizzato da una forte presenza di navi petroliere e gasiere (in relazione all’export energetico della Russia e delle regioni del Mar Caspio), ma consistente è anche il traffico RO-RO e traghetti. Dal Mar Nero merci per circa 90 milioni di tonnellate vengono trasportate ogni anno in direzione Sud attraverso il canale di Suez. Il Bosforo collega il Mar Nero con il Mar di Marmara. Lo stretto è lungo circa 30 Km., la sua larghezza varia da 700 m. a 3.700 m.. Istanbul si trova su entrambe le rive dello stretto. Due ponti: il Bosforo (lunghezza - 1074 metri) e il Ponte sul Sultano di Mehmed Fatih (lunghezza - 1090 metri) uniscono le due parti urbane. Nel 2013, per connettere ulteriormente il lato asiatico della città con quello europeo, è stato costruito un tunnel sottomarino ferroviario, il “Marmaray”. Lo Stretto dei Dardanelli, che collega il Mar di Marmara con l’Egeo, è lungo 71 Km e una larghezza tra 1 e 10 Km. Il passaggio delle navi è libero ed è regolamentato dalla convenzione di Montreux del 1936. I due stretti costituiscono un sistema di grande rilevanza strategica, non solo commerciale, ma politico e militare. È uno dei nodi energetici più importanti del mondo, sia per il passaggio di navi gasiere e petrolifere (150 milioni di tonnellate all’anno), sia per l’attraversamento del grande gasdotto TAP (Trans Adriatic Pipeline) che porterà il gas del Caspio fino a Melendugno in Puglia). Questi flussi, che attraversano il Bosforo nel cuore di Istambul, rendono l’area estremamente a rischio. Il traffico nei due stretti è talmente intensa che da anni si parla con insistenza di un nuovo canale artificiale da realizzare a circa 20 Km. ad Ovest di Istambul. Il canale staccherebbe fisicamente e simbolicamente la città dall’Europa.
La nuova geografia dei porti mediterranei
Nel Mediterraneo sono movimentati ogni anno circa 2 miliardi di tonnellate di merci di cui, circa la metà, proviene dalla rotta Europa-Asia in transito attraverso il canale di Suez. Il segmento dei contenitori è cresciuto enormemente passando da 9 milioni del 1995 ai 60 milioni del 2017, con un tasso di crescita superiore a quello registrato dai porti dell’Europa Settentrionale (che restano tuttavia i più efficienti). Il segmento dei contenitori non è il solo a caratterizzare il traffico merci nel Mediterraneo: restano significative le quote delle merci liquide e del general cargo, mentre la componente del trasporto Ro-Ro ha assunto un ruolo decisivo nello shipping di corto raggio. Il riferimento al traffico contenitori, per il loro valore commerciale e i servizi e l’infrastrutturazione necessari per la loro movimentazione, è utile per individuare i porti più avanzati e competitivi. Assoporti, nello studio citato, ha messo in evidenza l’aumento dei porti del Mediterraneo che movimentano più di un milione di contenitori all’anno, questi sono passati da 12 nel 2007 a 19 nel 2017. Mentre nel 2007 era Gioia Tauro il primo porto transhipment del Mediterraneo, seguito da Algeciras (Spagna), ora il primato viene conteso tra il porto del Pireo e quello di Valencia. La nuova geografia portuale è fortemente condizionata dai canali: il raddoppio del Canale di Suez ha portato alla crescita di Porto Said non solo come terminal contenitori, ma anche come free zone industriale (East Port Said, sulla sponda) e hub energetico. A 19 Km a Sud della città è in progettazione un tunnel autostradale che attraversa il canale.
Ambarli, il maggiore porto turco, deve il suo crescente sviluppo alla sua collocazione sul Mar di Marmara, all’imbocco del Bosforo. Il porto di Tanger Med, vicino al Canale di Gibilterra (dista dalla città di Tangeri 20 Km.) è stato inaugurato solo nel 2007, ma ha già raddoppiato i suoi terminal, portandoli ad una capacità complessiva di 9 milioni di contenitori. Anche qui lo sviluppo del porto ha promosso la costituzione di una vasta zona economica speciale (ZES), una piattaforma logistica e industriale su cui già oggi operano oltre 900 aziende. Il porto si è trasformato rapidamente da porto transhipment a porto multi purpose (il trasbordo è ora intorno al 40%) con uno forte sviluppo del traffico passeggeri e RO-RO. L’operazione che ha avuto il supporto determinante del governo marocchino è unica nel suo genere: le infrastrutture portuali, sia a terra che in mare, si sono avvalse dell’intervento dell’architetto francese Jean Nouvel. Anche questo è un chiaro segno della eccezionalità dell’intervento
Algeciras, collocata in Spagna sulla sponda opposta, in prossimità dello stretto di Gibilterra, è stata a lungo il primo porto mediterraneo nella movimentazione dei contenitori. E’ il diretto competitore di Tanger Med, ma soprattutto negli ultimi anni, in relazione alla produzione industriale della ZES a ridosso del porto marocchino, la competizione si sta trasformando anche in una efficace integrazione: le merci prodotte in Marocco raggiungono le aree di consumo della Spagna just in time.
La geografia del trasporto marittimo è fortemente condizionata dalle strategie delle grandi compagnie di navigazione che da negli anni più recenti hanno puntato decisamente alla concentrazione e verticalizzazione. Le prime dieci (oltre la metà sono asiatiche) controllano ora circa il 90% del mercato, imponendo attraverso il loro rinnovamento delle loro flotte il gigantismo delle navi e, di conseguenza, l’adeguamento dei terminal portuali (accosti molto lunghi in grado di accogliere navi di 400 m. e fondali profondi 18-20 m.). Il Mediterraneo è sempre stato uno spazio di connessione tra Occidente e Oriente, ma ora con l’espansione dell’economia cinese e il progetto BRI, Belt and Road Initiative (chiamato anche OBOR, One belt, one road, ”una cintura una via), promosso dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, una nuova “via della seta marittima” si sta configurando. La società di navigazione COSCO di proprietà dello stato Cinese è sempre più attiva nel Mediterraneo: dal porto del Pireo (acquisito nel 2016 durante), ha esteso la sua presenza a Haifa, Ashdod, Ambarli, Vado Ligure. La Cina è presente non solo con società di navigazione, ma anche con compagnie di ingegneria come la Cina Merchants Holdings International che opera all’interno di Malta Freeport (Marsaxlokk), insieme al gruppo turco Ykdirim e alla francese CMA-CMG.
La nuova geografia è in movimento. Alcuni porti in declino rimontano, come Gioia Tauro che dopo l’ingresso della società di navigazione MSC (Aponte Svizzera) è tornata a superare la quota di 3 milioni di Teu all’anno, altri come Taranto, in grave difficoltà dopo l’uscita di Evergreen (Taiwan), si appresta a ripartire, affidando in concessione per 49 anni il molo polisettoriale alla società turca Ylport (che ha recentemente definito accordi di alleanza con la Cosco). La Turchia, presente anche in Libia a sostegno del governo Fayez al-Serraj, sembra proprio determinata a confermare un suo ruolo nel Mediterraneo.
Mentre nell’area meridionale la geografia marittima è attraversata da forti cambiamenti (in Grecia anche il porto di Salonicco è stato ceduto ad operatori internazionali: la Deutch Invest, la francese Cma Cgm e la cipriota Belterra Investments), nel Mediterraneo settentrionale l’assetto dei porti dal punto di vista operativo resta più stabile e per così dire condizionato dal forte legame con le città. Valencia, Barcellona, Marsiglia hanno affrontato lo sviluppo del trasporto marittimo decentrando le aree portuali a poca distanza dal centro urbano (Valencia a Sud rispetto al vecchio porto di El Grao; Barcellona nel delta del fiume Llobregat, operazione che richiese la sua deviazione; Marsiglia nel vicino comune di Fos). Il decentramento ha consentito lo sviluppo delle attività portuali e nello stesso tempo il recupero e la valorizzazione turistica e urbane dei waterfront. Anche in Italia i porti hanno mantenuto la loro vitalità, svolgendo un ruolo gateway rispetto alle aree produttive del paese, ma non sembrano aver inteso fino in fondo, come a messo bene in evidenza un recente numero della rivista Limes, la centralità del mare per lo sviluppo del Paese. Imprigionati nel sistema urbano, senza delocalizzazioni di rilievo, i porti italiani si infrastrutturano lentamente, lasciando che i programmi di riqualificazione dei waterfront procedano con difficoltà. Per loro il futuro resta difficile.
Il Mediterraneo di Fernand Braudel e di Pedrag Matvejević è profondamente cambiato: prima erano le città portuali a dialogare tra loro e a intrecciare le vie marittime, ora sono i porti, separati dalle città e dalle comunità locali, a fronteggiarsi, rincorrendo le mutevoli rotte che sostengono le filiere globali del valore.
Specificità del sistema portuale nazionale
Il DL 169/2016 ha istituito 15 Autorità di sistema portuale, cui si è aggiunta L’Autorità dello Stretto di Messina. Realisticamente troppe. Nell’insieme si tratta di 58 porti distribuiti su circa 7456 Km di costa. L’Italia per la sua posizione geografica, al centro del Mediterraneo, dove si concentra circa il 30% del trasporto marittimo (in crescita per il raddoppio del Canale di Suez) si trova in una condizione strategica. Una piattaforma protesa sul mare, vicina alle grandi rotte marittime, ma non in grado valorizzarne pienamente le potenzialità commerciali. L’offerta delle infrastrutture portuali è oggettivamente distribuita e parcellizzata. Una pluralità di scali rispetto alla concentrazione portuale dei paesi del Nord Europa. Amburgo, Rotterdam, Anversa intercettano il 70% del trasporto marittimo dei loro paesi. In Italia il traffico contenitori, il comparto maggiormente significativo per il settore manifatturiero, ammonta negli ultimi anni intorno ai 10 milioni di TEU, tanti quanti vengono movimentati nel solo porto di Rotterdam. La favorevole posizione geografica non è sufficiente, la morfologia del paese, chiuso a Nord dalle Alpi e attraversato longitudinalmente dalla dorsale appenninica, incide fortemente sulla mobilità delle merci. Ma forse, ancora di più, a giocare a sfavore è stato il forte radicamento dei porti nel sistema urbano. Mentre i porti del Northern Range hanno subito consistenti processi di decentramento, distaccandosi dai nuclei urbani (Amburgo, Rotterdam, Anversa sono collocati su grandi estuari che agevolano ampliamenti e delocalizzazioni), i nostri porti sono inglobati all’interno di un territorio fortemente urbanizzato, sia sul versante entroterra che lungo la costa. In queste condizioni è oggettivamente difficile realizzare intorno ai porti piattaforme logistiche in cui integrare, come nel Northern Range, non solo modalità diverse di trasporto, dalla ferrovia alle idrovie, ma anche aree produttive e di servizio. Un confronto con i porti del Northern Range è insostenibile: diverso il contesto geografico, amministrativo, culturale, tecnologico.
La geografia e la storia contano: l’Italia è il paese dei cento campanili e dei cento porti intimamente intrecciati tra loro in contesti estremamente diversificati. Per poter competere occorrono strategie originali che partono da questi condizionamenti strutturali, trasformando le criticità in valore.
In questa prospettiva, un segnale positivo viene dalla ricerca di nuovi rapporti tra porti, aree retroportuali, interporti e le previste zone logistiche e produttive (ZES e ZLS).
Da una sommaria analisi dei dati del traffico merci nei nostri porti negli ultimi anni (2019-2016), emerge con chiarezza che il volume complessivo resta stabile (intorno ai 480 milioni di tonnellate, mentre i contenitori si attestano poco al disopra dei 10 milioni di unità. Analisi più approfondite potranno attestare che una parte del movimento ha origine e destinazione nei paesi di oltre alpe (Genova e Trieste operano in questa direzione), ma il grosso del traffico portuale è legato ancora al mercato interno, ai rifornimenti energetici, ai processi produttivi, all’import-export, ai consumi.
Se andiamo ad analizzare l’articolazione merceologica delle merci imbarcate e sbarcate nei porti italiani rileviamo alcuni caratteri strutturali: le rinfuse liquide incidono del 37% sul totale, le tonnellate dei contenitori sono di poco superiori a quelle del comparto Ro-Ro (23% e 22%). Per cui non solo contenitori e grandi navi, ma anche navi traghetto e autostrade del mare. Questo è un dato molto importante, da valutare con attenzione nel rilancio della nostra portualità nel bacino del Mediterraneo. Il versante Adriatico Ionico assorbe un traffico merci nettamente inferiore rispetto al Tirrenico, ma i rapporti potrebbero variare se si affermasse maggiormente il ruolo dei porti adriatici nel sistema BRI (la Belt Road Initiative che connette l’Europa alle regioni del Far East) e nell’interscambio con i paesi balcanici (in prospettiva potrebbe avere senso promuovere un corridoio trasversale Tirreno- Adriatico)
Nella valutazione del traffico contenitori vanno distinti i flussi relativi al trasbordo da quelli rivolti all’hinterland). Mentre i primi attengono ai porti transhipment, i secondi sono legati alle esigenze dei territori. L’analisi dei dati rivela la stretta relazione dei porti con un vasto entroterra, verso destinazioni produttive e di consumo e nodi di scambio come gli interporti. Emerge con evidenza una realtà territoriale su cui si sa poco e che incredibilmente è poco approfondita nei documenti governativi.
I contenitori movimentati per il territorio rappresentano il 70% del totale, A Gioia Tauro per converso il transhipment assorbe per intero il traffico portuale. Nello spazio di un decennio il quadro funzionale che assegnava ai porti di Gioia Tauro, di Taranto e di Cagliari il ruolo di porti transhipment è completamente mutato: Gioia Tauro ha perso il suo primato nel Mediterraneo ma resiste in Italia; Cagliari e Taranto sono in crisi da tempo (a Cagliari è stata revocata la concessione a Contship, mentre a Taranto dopo l’uscita di Evergreen è subentrata da poco la società turca Ylport). Il transhipment è oggi distribuito su una pluralità di porti da Genova a La Spezia, a Trieste (ma mentre nei primi 2 il transhipment incide intorno al 12% del totale, a Trieste sale al 40%).
Tra Europa, mercato interno e Mediterraneo
Intercettare parte del traffico marittimo che transita nel Mediterraneo per trasferirlo in Europa non sarà facile, ma è un obiettivo da perseguire. I nostri porti non sono ancora competitivi sul piano dell’efficienza, della rapidità delle procedure doganali e di controllo, dei costi di trasporto, sui tempi di consegna (secondo il Global Competitiveness Index l’Italia risulta al 49° posto). Le criticità infrastrutturali sono diffuse (bassi fondali, accosti insufficienti per le nuove dimensioni delle navi, insufficienti spazi per la movimentazione e lo stoccaggio dei contenitori, inadeguata accessibilità marittima, ultimo miglio). Manca un sistema logistico avanzato, imperniato sulla intermodalità, sulle connessioni tra porto e le reti stradali e ferroviarie, tra porto e corridoi TEN-T. A tutto questo si aggiunge la scarsa qualità ambientale delle aree portuali (la UE ha posto la questione dei green ports come uno degli obiettivi da perseguire attraverso il Recovery Plan).
Relativamente al trasporto contenitori via treno, solo pochi porti hanno quote modali significative. Secondo uno studio dell’Isfort del 2019 Trieste e La Spezia, con circa il 30%, raggiungono livelli di rilievo, seguono, con quote minori, Genova e Livorno. Per realizzare con efficienza il trasferimento su treno dei contenitori occorrono piazzali di grandi dimensioni in grado di consentire la formazione di convogli almeno di 600-750 metri (ma l’orientamento internazionale è utilizzare convogli ancora più lunghi). Al gigantismo delle navi si aggiunge ora quello dei treni. Questo appare lo scenario che incombe sui porti italiani maggiori. Trieste è il porto che ha investito con più successo nella logistica intermodale, non solo relativamente ai contenitori, ma anche per il trasferimento su treno di semirimorchi, casse mobili e camion. Se Trieste si propone come porto di riferimento per l’Europa Centro Orientale, Genova si prepara a interagire con il versante europeo occidentale (l’apertura del Terzo Valico, attesa nel 2023 e la ultimazione del tunnel del Ceneri in Svizzera, connetteranno Genova direttamente Rotterdam).
Dal quadro prima esposto due linee d’intervento sembrano delinearsi: investire in infrastrutture portuali e tecnologia nei porti e nel territorio per aprirsi al mercato europeo e nello stesso tempo razionalizzare e modernizzare l’esistente che già ora rappresenta un patrimonio infrastrutturale di base di notevole consistenza.
Per la maggioranza dei porti si tratta di intervenire sulle connessioni con la rete autostradale e ferroviaria, superando le difficoltà di un “ultimo miglio” che inevitabilmente attraversa un contesto densamente urbanizzato. Altri interventi attengono invece alla riorganizzazione e ampliamento degli spazi esistenti, alla escavazione dei fondali e allo smaltimento dei fanghi, alla rifunzionalizzazione, in una prospettiva di coordinamento, dei porti ricadenti nelle competenze delle Autorità di sistema portuale.
La distribuzione dei porti lungo le coste a una distanza l’uno dall’altro relativamente breve, se da un lato porta a una disarticolazione dell’offerta, dall’altro consente di servire in modo puntuale una pluralità di contesti locali. Anche questo è un aspetto caratterizzante il sistema portuale nazionale che va considerato con attenzione. Esso mette in rilievo lo stretto rapporto tra portualità e territorio. In fondo, per i porti potremmo parlare di territorializzazione del mare e territorializzazione dell’entroterra.
Molto verosimilmente dovremmo introdurre criteri di gerarchizzazione e specializzazione, individuando i porti realmente funzionali allo sviluppo dei nostri rapporti commerciali, quelli più vocati allo scambio con l’Europa, quelli di sostegno della nostra economia industriale, quelli legati allo sviluppo turistico. Per i porti di piccola dimensione forse è ragionevole restituirne la competenza alle Regioni e ai Comuni.
Il Mediterraneo è lo scenario da non perdere di vista, fa parte della nostra storia e della nostra identità. I porti hanno reso il Mediterraneo un intreccio di “vie marittime e terrestri collegate tra loro e quindi di città che si tengono per mano”. La bella immagine di Braudel ha ancora senso, soprattutto per il nostro Paese. Nell’area mediterranea e nel Medio Oriente si concentra una buona parte del nostro interscambio marittimo, nel suo insieme pari a quello con la Cina. Solo questo è sufficiente a confermare la centralità del Mediterraneo per la tenuta della portualità nazionale, che va ricordato, è fortemente caratterizzata dal traffico Ro-Ro, Ro-Pax, ovvero da una rete di autostrade del mare sostenuta da una flotta traghetti d’eccellenza. Il Mediterraneo è al centro di interessi geopolitici ed economici, dall’energia, al commercio, alla pesca. Ma c’è di più: è previsto uno forte sviluppo, non solo demografico, ma anche economico del continente africano e in particolare della sua costa settentrionale. La Cina non solo sta portando avanti una strategia di posizionamento commerciale-infrastrutturale in Africa, ma ha rivolto la sua attenzione sul sistema portuale mediterraneo come nodo di smistamento e ramificazione in Europa delle supply chain che corrono lungo la via della seta, che altri non è se non una filiera di porti connessi ad aree ZES di elaborazione delle merci.
Tutto questo fa del Mediterraneo uno spazio di rilevanza strategica, dove la dimensione globale si confronta con le specificità nazionali e regionali. È proprio in questo difficile contesto che il nostro sistema portuale e in particolare quello meridionale troverà un ambito operativo primario.
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