Primo piano Prospettive per il Mediterraneo

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Il Corridoio Meridiano
Gaetano FontanaPDF




“Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re dell’Universo, tu che hai creato il Grande Mare” 
Preghiera ebraica
L’Europe se fera dans les crises et elle sera la somme des  solutions apportées à ces crises
Jean Monnet

Le crisi sembrano essere le migliori opportunità per ottenere cambiamenti.
L’Europa e il Mediterraneo di crisi ne hanno conosciute molte, un gran numero ha determinato espansione e maggior benessere, altre (per fortuna, di numero assai inferiore) impoverimenti e arretramenti, altre ancora, pochissime, sono rimaste sospese, in bilico se andare da una parte o dall’altra, in una situazione non svolta.
All’inizio, furono i popoli che giungendo dall’Africa, il Mediterraneo lo avevano attraversato per andare dovunque e diventare altro.
Più tardi, nel “Mare tra le Terre” si incontrarono le persone e le merci che da lì partivano e arrivavano, prima i fenici, gli egizi, i minoici; poi, i greci, i persiani e gli etruschi.
Odisseo (Oudèis, il nome con cui si presenta a Polifemo, Nessuno) - razionale, lucido, acuto ma anche incerto, dubbioso, inquieto, primo uomo moderno. Un re che si finge pazzo per non andare in guerra e che diventa eroe per la vittoria dovuta all’ingegno e non alle armi e per l’interminabile viaggio di ritorno e non per quello di andata. Ulisse il Mediterraneo lo aveva solcato tutto, da est ad ovest (lungo quella che sembrava essere l’unica rotta possibile di questo mare), con un viaggio infinito – unico scopo della sua esistenza - per il quale lasciò ancora Itaca, ormeggio e non porto1, trascinando a forza i suoi compagni,  inseguendo la conoscenza oltre l’ultimo confine;  un transito lungo, con tanti naufragi e senza destinazione, inquieto ricercatore di luoghi sconosciuti e di verità sepolte aveva incontrato e conosciuto tutti i luoghi e i popoli che abitavano il mondo (altro, allora, non c’era).

 

I Romani, quando il mondo lo governavano, lo avevano chiamato Mare nostrum ( come se fosse uno dei tanti laghi delle campagne circostanti la città imperiale) e da lì, commerci sempre più intensi si mossero attraverso la Partia sulla Via della Seta fino all’India e la Cina e viceversa.   
Secoli dopo, il percorso est-ovest fu sostituito con l’ortogonale da nord verso sud.  Dei popoli del nord, alcuni si fermarono prima di attraversarlo sulle terre meridionali dell’Europa, altri proseguirono fino alle coste dell’Africa.
L’Islam ne divise le sponde fra meridione e settentrione.
Federico usò la cultura per riunirle e al centro del Mediterraneo volle tutti in una corte, cristiani, ebrei, musulmani, vi si parlavano tutte le lingue e tutti si capivano.
Venezia, Genova e Pisa con i loro traffici e lo scambio di merci e di spezie governarono, disputandoselo, l’intero Mare  e costruirono i primi imperi coloniali2. Marco Polo, altro cavaliere errante da ovest verso est e ritorno, fu il loro ambasciatore.
Gli ottomani conquistarono Costantinopoli e le terre da est a ovest, dalla Serbia ad Algeri; furono fermati prima a Lepanto poi a Vienna; nel mentre, obbligarono a cercare rotte oceaniche per le Indie.
Così, traffici e merci scoprirono le altre Indie e anche il periplo dell’Africa (e le spezie necessarie alla conservazione del cibo continuarono ad arrivare) .
Il centro del mondo si spostò e il Mediterraneo rimase mare di pirati e di guerre di terra.
Allargare il Mediterraneo verso il mar Rosso era stato obiettivo antico, lo avevano realizzato Faraoni e Romani attraverso il Nilo; Venezia lo propose al sultano d’Egitto; Napoleone rinunciò per “calcoli errati”; infine, una società per azioni, francese, riuscì nell’impresa.  
Nel 18693 il canale di Suez fu inaugurato e il Mediterraneo diventò un Medioceano 4, l’anello di congiunzione fra Atlantico e Indo-Pacifico; riprese  il suo posto nello scenario mondiale, geopolitico e commerciale, e tornò ad essere uno dei centri del mondo, se non il primo, sicuramente fra i più decisivi e importanti.5
Tav.1  Colonie d’oltremare di Genova -  Rotte commerciali e possedimenti di Venezia

Il “canale francese” non piaceva agli inglesi. Preferivano la ferrovia per andare da Alessandria a Suez, passando per Il Cairo. Quando Said Pasha (sovrano d’Egitto) per crescenti difficoltà finanziarie mise in vendita la sua quota (1875), immediatamente l’acquisirono.
Più tardi (1888),  la Convenzione di Costantinopoli lo dichiarò  territorio neutrale e sempre agli inglesi ne affidò la protezione

Gli inglesi, in verità, nel Mediterraneo ci stavano già da molto tempo.
Per duecento anni, le navi della Compagnia delle Indie per raggiungere il “gioiello della corona”, impiegavano più di 100 giorni, facendo il periplo dell’Africa e doppiando il Capo di Buona Speranza.
Nel 1829, Thomas Waghorn, un intraprendente ex ufficiale della Royal Navy, propose un cambiamento sostanziale di quel collegamento: arrivare a Suez, attraverso il Mar Rosso, e poi fino ad Alessandria; attraversare l’Egitto a dorso di cammello (qualche anno dopo, in ferrovia), e da lì di nuovo in nave, passando per Gibilterra fino a Dover. Il viaggio sarebbe durato solo 60 giorni.
Si trattò della prima fondamentale variazione del percorso  de “La valigia delle Indie”, il collegamento tra Londra e il più importante e ricco possedimento coloniale britannico, altre seguirono negli anni successivi, ma interessarono il percorso ferroviario di terra.
L’apertura di Suez intensificò enormemente i traffici europei da e per l’Oriente, scatenando una impegnativa gara fra i porti del Mediterraneo che si offrivano ad accoglierli e i tracciati ferroviari che li trasportavano in terra ferma (preferiti alla vecchia tratta marittima Alessandria-Gibilterra-Dover), riuscendo in questo modo a ridurre a soli 22 giorni la distanza fra Londra e Bombay.6
Da quegli stessi anni (1830 circa) e fino a dopo la I guerra mondiale, le grandi potenze europee, Francia e Inghilterra prima, Italia dopo e con più ridotte pretese , trasformarono la sponda africana in vaste colonie. Quando le lasciarono, i nodi della colonizzazione e della decolonizzazione vennero al pettine, l’inevitabile avversione presto diventò nazionalismo dei popoli e integralismo delle religioni, e i conti a lungo termine di questo cambiamento si stanno ancora pagando.
L’interesse inglese per il Mediterraneo, però, manifestò una particolare costanza e non venne mai meno nel corso dei decenni successivi.
Quando nella notte fra 9 e il 10 luglio 1943 scattò l’Operazione Husky (l’invasione della Sicilia da parte delle forze armate alleate) decisa da Roosevelt e Churchill, “Gli apparati a stelle e a strisce sospettarono a ragione che Churchill – concentrato sull’Europa meridionale e su quella orientale, tra Italia e Balcani, per dilatarvi lo schieramento tedesco e contenervi l’espansione sovietica – miri alla Sicilia quale avamposto indispensabile alla protezione della più rapida rotta fra madrepatria e India. Mediterranean First. […] la direttrice imperiale Gibilterra-Malta-Suez-Bàb al-Mandab dev’essere liberata controllando la Sicilia, quindi il suo Stretto”.7  Il Presidente americano venne alla fine convinto a seguire i britannici lungo “il sentiero nel giardino mediterraneo”, come annoterà lo stesso Churchill
Da quel momento, oltre agli Stati europei e a quelli medio-orientali, anche gli Stati Uniti d’America navigheranno il Mediterraneo (prima, e per molti anni, diventato a “stelle e strisce”, con la massiccia presenza della flotta americana; più di recente, con impegno fortemente decrescente) e l’Operazione Husky rappresenterà solo “il punto di partenza di un nuovo ordine geopolitico europeo e mediterraneo”.8
Così, anche il più modesto mare nostrum della Terza Roma, gloria del precedente ventennio, fu messo da parte e il Mediterraneo, mentre negli anni successivi riacquisiva le sue naturali funzioni di mare di transito e di arrivo di uomini e cose  e innegabile crocevia di conoscenze e integrazione di popoli, lingue e culture, diventava zona fra le più strategiche del pianeta e anche luogo privilegiato dove convivono il turismo estivo di massa e il quotidiano tragico esodo dell’immigrazione.
Gli anni successivi al conflitto mondiale, furono dedicati alla costruzione dell’Europa unita9.
II 19 settembre 1946, fu lo stesso Winston Churchill che in un lucido discorso all’Università di Zurigo, nel timore che altri e futuri nazionalismi potessero tornare a devastare il continente, parlò degli “Stati Uniti d’Europa”. La Conferenza dell’Aia (11 maggio 1948), presieduta dallo stesso Churchill, fu il primo elemento del nascente federalismo europeo.
Il primo passo era stato fatto,  altri ne seguirono con crescente velocità.
Dichiarazione di Schuman a favore di un’integrazione economica dell’Europa (1950); istituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA, Parigi 1951); fondazione della Comunità economica europea (CEE, Trattato di Roma, 1957, firmato dai sei Paesi fondatori); istituzione del consiglio unico e della commissione unica delle Comunità europee ( Trattato di Bruxelles, 1967);elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale (1978);  introduzione del Sistema Monetario Europeo (SME, 1979); creazione di uno spazio unico ed eliminazione dei controlli alle frontiere (Accordo di Schengen, 1985); nascita della Comunità Europea e dell’unione monetaria e fissazione parametri di convergenza (Trattato di Maastricht, 1992-1993); avvio della moneta unica e creazione della Banca centrale europea (BCE; 1999); nuove competenze e riforme istituzionali (Trattato di Amsterdam, 1997-1999; e Trattato di Nizza, 2001-2003); nascita della Comunità Europea (Trattato di Lisbona, 2007-2009).
Proprio una ventina d’anni fa, molto prima che la situazione dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo e  il flusso migratorio assumessero i dissestati e disastrosi assetti attuali, sotto il profilo politico gli uni, sotto quelli umanitari l’altro, lo scenario europeo - fondandosi sull’idea di un’Europa unita, attore globale forte e competitivo rispetto al resto del mondo - sembrava muoversi verso la creazione di una cultura di sistema che, con le decisioni assunte nella Conferenza di Barcellona (1995) e la prevista istituzione di una Zona di Libero Scambio sovra-nazionale (ZLS, 2010), abbracciasse l’intero bacino del Mediterraneo, favorendo l’instaurarsi di relazioni privilegiate fra i Paesi delle due sponde.
Altri cambiamenti di natura politica ed economico-commerciale si andavano comunque  delineando, forieri di nuove opportunità strategiche, di una crescente espansione dell’economia di mercato e di profondi processi di trasformazione: in Europa, l’allargamento dell’Unione a 25 (con i Paesi dell’ex blocco sovietico); a livello internazionale, l’apertura dei mercati, la caduta di molte barriere doganali e la possibilità di trasferire capitali all’estero.
A Bruxelles (come a Roma), a corollario della crescita della competitività delle varie aree, si pose con forza l’esigenza di incentivare e garantire la mobilità di persone e merci, intervenendo sul potenziamento dell’armatura infrastrutturale pan-europea e trans-europea (Maastricht, 1992 e Amsterdam, 1997) e sottolineando il ruolo delle città come “motori di sviluppo” (Rotterdam, 2007).
Per Italia, la carenza e l’inadeguatezza di infrastrutture, di servizi di trasporto e di sistemi logistici, unite alla cronica insufficienza degli investimenti, quando disponibili, e alla scarsissima capacità di spesa dei soggetti destinatari delle pur ridotte risorse, rappresentavano (e, purtroppo, continuano a rappresentare) formidabili ostacoli alla capacità di crescita del Paese e, in particolare, di alcune sue aree, il Mezzogiorno innanzitutto (ma non solo).
E proprio l’immagine dell’Italia immersa nel Mediterraneo e la rappresentazione  del Mezzogiorno come una vera e propria piattaforma territoriale “naturale” al centro del Sistema Mediterraneo e la sua vicinanza ai mercati del Nord-Africa e del Medio-Oriente furono i fattori che si pensava potessero servire alla costruzione della sua leadership nell’area e  da innesco alla crescita della sua competitività (e, per esso, del resto d’Italia), puntando  su un Mediterraneo che poteva tornare ad essere di nuovo il “Grande Mare” e insieme il crocevia che per centinaia d’anni aveva rappresentato una cerniera fra Europa, Estremo Oriente e sponda Sud del Mediterraneo.  

Ma andiamo con ordine, ripercorrendo per somme linee le fasi di quel processo.
Le iniziative sperimentali avviate dal Ministero delle infrastrutture sin dai primi anni novanta (quando ancora era Ministero dei lavori pubblici) avevano come punto di riferimento la riqualificazione e lo sviluppo della città e del territorio. Questo processo che aveva coinvolto e impegnato le Regioni, centinaia di amministrazioni locali, innumerevoli altri enti e soggetti sociali, pubblici e privati. Un’attività fatta di tanti strumenti che mirava a creare e diffondere una nuova cultura di approccio allo sviluppo del territorio e un comune lessico familiare, che aveva contribuito a rompere l’isolamento di tante amministrazioni locali e, non senza una certa fatica, molti meccanismi burocratici di governo del territorio sedimentatesi passivamente
All’inizio, nell’ambito del C.E.R. (Comitato dell’Edilizia Residenziale), si trattava di strumenti innovativi che dalla città pubblica si allargavano alle parti private; successivamente, dalla Dicoter (Direzione del coordinamento territoriale), l’attenzione si era indirizzata allo sviluppo delle città e dei territori; da ultimo, con il Dipartimento per il coordinamento dello sviluppo del territorio, si era passati all’analisi e alle proposte d’intervento sui sistemi infrastrutturali e sulle reti di città.  
Un processo che aveva consentito di introdurre buone pratiche ad elevato grado di innovatività, ma che, soprattutto, aveva costruito e consolidato sui territori un patrimonio comune fondato sulla concertazione e sul partenariato, che aveva aperto le porte a nuovi modelli operativi e procedurali, che aveva generato una inusitata attitudine a fare sistema
Un processo questo, cui aveva fortemente contribuito la presenza dei programmi comunitari, nelle loro componenti programmatorie e operative, nei processi di formazione e negli esiti attuativi, sia di quelli direttamente dipendenti dal Ministero, sia di quelli “osservati”.
Le politiche comunitarie, per l’appunto, stavano innovando in profondità le modalità di azione delle Amministrazioni nazionali. I Consigli Europei straordinari (Lisbona, 2000 – Göteborg, 2001), la Conferenza sulla coesione territoriale e le politiche urbane (Rotterdam, 2004), le Linee Guida Strategiche (LGS, 2005) per la Programmazione 2007-2013 e  il Documento strategico preliminare nazionale (DSPN, 2005), il Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 (QCS 2007-2013, approvato dal governo nazionale nel 2006) dettavano indirizzi innovativi per le politiche di sviluppo del territorio, le infrastrutture, la questione delle città e le nuove forme di governance (SSSE – Potsdam, 1999). La pianificazione dello spazio europeo assumeva come qualificanti gli elementi e i fattori in grado di generare valore, riconoscendo come fondamentale il potenziamento  della competitività e dell’attrattività del territorio (la Strategia di Lisbona, incentrata sulla connessione tra occupazione, riforme economiche e coesione sociale). In quegli stessi anni (Nizza, 2000), l’Unione Europea procedeva verso un massiccio allargamento dei propri confini verso Est, con l’ingresso, dal 2004 al 2007, degli stati dell’Europa centro-orientale (passando da 15 a 27 Paesi membri).
L’allargamento europeo ci costringeva ad una più attenta riflessione sul ruolo e l’importanza dell’infrastrutturazione del territorio (che per vent’anni era rimasta solo sullo sfondo delle vicende urbanistiche italiane), e soprattutto poneva in drammatica evidenza la necessità di affrontare ed eliminare gli squilibri infrastrutturali, economici, sociali, organizzativi che ancora caratterizzavano profondamente il territorio italiano. Si richiedevano iniziative in grado di accelerare lo sviluppo e ridurre sensibilmente il livello di vulnerabilità competitiva e di marginalità territoriale di molte aree geografiche e di interi sistemi territoriali del Paese; fattori che, altrimenti, si sarebbero accentuati a seguito dell’allargamento. Di qui, l’esigenza di ricorrere a opportune politiche di governo del territorio per cogliere a pieno le opportunità offerte dal periodo di programmazione dei fondi strutturali 2007-2013. In particolare, si dovevano aggredire alcune questioni nodali che da sempre avevano ritardato, se non incancrenito, uno sviluppo equilibrato delle regioni meridionali italiane.
In caso contrario, ogni sottovalutazione della questione avrebbe determinato un forse irrecuperabile indebolimento del processo d’integrazione economica delle regioni più deboli, il nostro Mezzogiorno, con quelle più forti della U.E. (comprese quelle del Nord Italia). Si trattava, insomma, di recuperare quella che era individuata come la nostra duplice perifericità: interna, fra le diverse regioni e le aree del territorio nazionale; esterna, fra l’intero Paese e il resto dell’Europa, il cui baricentro ( il triangolo Berlino-Parigi-Bruxelles) si andava inesorabilmente spostando verso le regioni del nord, con progressivo indebolimento del sistema a sud.
Si trattava di immaginare una nuova geografia dei territori italiani che li costringesse a fare sistema per affrontare l’ambivalente sfida, ormai internazionale, della competitività e insieme della coesione (alimentando i processi di inclusione sociale), per meglio misurarsi con Paesi, le cui connessioni globali garantivano economie forti e sempre più attraenti, anche grazie al disconoscimento di diritti e garanzie fondamentali (salute e sicurezza sociale, condizioni lavorative, tutela e rispetto dell’ambiente, solo per citarne alcuni).
Sembrava a portata di mano l’opportunità di correggere (superare?) squilibri sociali e territoriali la cui permanenza sembrava inaccettabile e che avrebbero provocato, se non corretti, una progressiva instabilità, proprio a causa della crescente velocità di connessione e di strutturale apertura dei mercati, caratterizzati da quella che potremmo definire una coppia opposizionale: cooperazione e competizione (qualcuno la definiva anche “coesistenza competitiva”).
Si riteneva allora presso il Dipartimento (ma non è che oggi le cose si pongano in maniera molto diversa), che una proficua politica industriale dovesse poggiare su una opportuna organizzazione dell’assetto del territorio, seguendo le indicazioni del già citato Schema di Sviluppo Spaziale del Territorio Europeo (lo SDEC, secondo la dizione francese), e in particolare:

Si presentava l’occasione per un nuovo sviluppo policentrico e reticolare che richiedeva il rafforzamento delle connessioni tra grandi reti infrastrutturali e reti di città attraverso un’opportuna integrazione fra  localizzazione delle infrastrutture e sviluppo dei sistemi urbani.
Nei rapporti fra Commissione Europea e Stati membri, l’attenzione, al fine di prevenire fenomeni di marginalizzazione e per accrescere la competitività dei territori, veniva posta inizialmente sul potenziamento del sistema infrastrutturale (Trans European Network-TEN-T, Dec. n.1692, 1996; reti e nodi di diverso rango, pluralità delle modalità di trasporto e loro integrazione, organizzazione dei sistemi della logistica) poi concentrandosi, soprattutto, sui corridoi paneuropei e  sulle grandi direttici nazionali, anche di connessione(Master Plan delle infrastrutture, Dec.n.884, 2004, Tav.3). Il privilegio verso le grandi armature infrastrutturali, caratterizzate com’erano da massicci flussi di persone e merci, anche di rilevante intensità, e da un basso numero di nodi logistici, di fatto coincidenti con i grandi nodi urbani e metropolitani, avrebbe determinato, se non gestita attraverso politiche di riequilibrio territoriale accompagnate dal rafforzamento della rete delle città medie, una controproducente gerarchizzazione fra gli stessi territori attraversati e l’insorgere di nuove marginalità, sia delle aree non direttamente servite sia dei centri urbani non individuabili come nodi della maglia infrastrutturale. L’esito delle politiche d’infrastrutturazione comunitaria sarebbe stato paradossale conseguendo, con ogni probabilità, effetti opposti a quelli sperati: depauperamento e ulteriore periferizzazione di intere aree insieme ad una  congestione dei sistemi territoriali direttamente serviti dai fasci infrastrutturali, causa prima di un progressivo indebolimento della loro stessa capacità di crescita e di consolidamento.
Da qui, la necessità di costruire, con riferimento al territorio italiano, uno schema d’intervento che - tenuto conto delle condizioni di perifericità geografica e di conformazione orografica delle regioni meridionali (le aree dell’Obiettivo 1), della numerosità dei centri urbani presenti (e in particolare di quelli di media grandezza), della densità insediativa, dei fattori sociali ed economici di interconnessione storica fra i territori interessati - si potesse basare su un “progetto d’insieme” di sviluppo del territorio, dove le grandi armature infrastrutturali, i sistemi a rete della mobilità della direzionalità, dei servizi e della produzione [che] si intrecciano con quelli ecologici, del tempo libero e della cultura  non fossero pensate soltanto in termini trasportistici ma come vere e proprie “opere territoriali”.10   

 Nell’applicazione dei programmi sperimentali della Dicoter, i Prusst (Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio, 1998) avevano restituito forme diverse di aggregazione territoriale, sistemi su cui realizzare interventi strategici di riequilibrio e sviluppo, superando i consolidati confini amministrativi. Erano stati così individuati 10 sistemi territoriali con decise caratteristiche di riconoscibilità (Tav.4).
Nel nuovo scenario, disegnato dagli assetti programmati del sistema infrastrutturale nazionale e transnazionale, emergeva un insieme di trenta sistemi territoriali connessi e incardinati tra loro. (Tav.5)

E’ nell’ambito di questi sistemi, dove si andavano configurando nuove relazioni strategiche tra reti di città e sistemi infrastrutturali (Tav.6), che si concentrò l’azione del Dipartimento con l’elaborazione e la messa in campo nel corso del 2004 di alcuni degli strumenti più innovativi:
° Programmi Innovativi in Ambito Urbano – Porti e Stazioni11
° S.I.S.Te.M.A.12

Sembrava insomma che ci fossero tutti gli elementi  per iniziare a ragionare su un nuovo  modello di  sviluppo policentrico e reticolare che avrebbe richiesto il rafforzamento delle connessioni tra grandi reti infrastrutturali e reti di città attraverso un’opportuna integrazione fra  localizzazione delle infrastrutture e sviluppo dei sistemi urbani, ponendo al centro anche la questione delle complesse e spesso contradditorie relazioni fra regioni e città (grandi e medie).
Si poteva ridar vita  all’occasione perduta del Progetto ’80 (rileggendone, aggiornate, le proiezioni territoriali), e avere, finalmente, la possibilità di identificare “ […] le linee fondamentali  dell’assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento all’articolazione territoriale degli interventi di interesse statale […]” del DPR n.616/7713 .  Ovvero,quanto ancor meglio definito, poco più di vent’ anni dopo, dal D.lgs. n.112/98 (il c.d. decreto Bassanini che, infatti, lo aveva  compiutamente e attentamente innovato) quando aveva stabilito che fossero di rilievo nazionale e dovessero essere mantenuti allo Stato “ […] i compiti relativi alla identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese […]”14
   

Al Mezzogiorno erano state dedicate particolari attenzioni nel corso di tutta l’attività istituzionale della Dicoter, sia con riferimento all’attuazione dei processi di territorializzazione strategica dello sviluppo promossi dall’insieme dei così detti programmi innovativi, sia puntando su un processo di crescita istituzionale e professionale delle strutture amministrative  di governo delle regioni meridionali.
I programmi avviati avevano contribuito in modo significativo all’elaborazione del Quadro Comunitario di Sostegno (QCS), in particolare per quanto riguardava due suoi assi portanti: a) le reti e i collegamenti per la mobilità (priorità 6); b) la competitività e l’attrattività delle città e dei sistemi urbani (priorità 8).
Le reti Ten, i Corridoi transnazionali programmati a livello europeo e gli interventi infrastrutturali previsti a livello nazionale, messi in relazione  con i programmi complessi promossi dal MIT-Dicoter disegnavano un nuovo scenario che faceva emergere nuove aggregazioni spaziali e nuove potenzialità di sviluppo. Vaste aree geografiche del Paese, anche in posizioni di secondo livello rispetto alla grande maglia infrastrutturale, e quindi da riconnettere con efficaci infrastrutture di rango nazionale e regionale sembravano i luoghi più vocati per progetti di sviluppo aggregativi, capaci di innescare processi virtuosi, anche grazie a precedenti esperienze acquisite attraverso programmi europei (Urban e Interreg, soprattutto).insieme  a queste aree emergevano alcune città medie capaci di cogliere le esternalità prodotte dai grandi corridoi. Anche queste città, riconoscibili per le loro performatività economiche e sociali, potevano diventare i veicoli fondamentali di percorsi d’integrazione e di iniziative di cooperazione transnazionale, transfrontaliera e interregionale (anche verso i confini esterni dell’Unione).
In questo senso poteva essere rispettato il forte richiamo che l’ultima parte dell’art.52 del “112/98” riserva al Mezzogiorno e alle aree depresse del Paese (e tuttora continua purtroppo a rinviare!) relativamente al rischio di perifericità geografica del territorio italiano, rispetto al modello di Unione che in quei giorni si andava costruendo. Perifericità che non poteva essere risolta attraverso il solo riequilibrio interno (per quanto doveroso e faticoso) o la tenace ricerca di più forti e stabili  connessioni con le altre regioni europee (magari, le più attrattive e avanzate),mariconoscendo che ”[…] non si sarebbe potuto dare uno sviluppo coeso ed equilibrato dello spazio europeo, senza ricomprendere (o addirittura, escludere!) in tale processo inclusivo e nelle politiche di sviluppo territoriale i Paesi del Sud del Mediterraneo, relegando la questione nell’alveo della solidarietà e dei meri regimi di aiuto […]”.15
Come aveva sostenuto l’Italia già nel corso di un incontro a Rotterdam del 200416, si trattava di avviare politiche di sviluppo del territorio europeo che si muovessero secondo criteri, obiettivi e modi opportuni di contaminazione degli assetti territoriali  e di promozione delle condizioni economiche e sociali dei Paesi del sud del Mediterraneo, individuati come referenti e avamposti di processi di sviluppo generati da forme solidali di partenariato. In sostanza, si proponeva l’avvio di un processo di pianificazione strategica del Mediterraneo, che mettesse in evidenza gli elementi di convergenza e coesione, potenziando i fattori di accessibilità e di connessione alle reti intermodali presenti nell’area.
La riflessione sullo stretto rapporto fra nodi e reti (che ritenevamo ci potesse avviare verso un possibile metodo d’intervento vicino alle più avanzate esperienze europee), e il tentativo di portare a sintesi quell’approccio (esperienze che negli anni successivi sono andate perdendosi), ci fece avviare  un’approfondita sperimentazione che aveva l’obiettivo di far dialogare  gli elementi che costituivano l’armatura del territorio nazionale: le città e le reti.
Meglio ancora , le città come nodi delle reti delle infrastrutture che conformano il territorio, dando in questo modo contezza di quanto fosse importante la dimensione territoriale nelle politiche di sviluppo a scala nazionale.
I programmi e le sperimentazioni avviate in quegli anni rinnovarono lo stesso modo di intendere il territorio italiano. Ci si muoveva avendo come riferimento le reti nazionali e transnazionali (lunghe e corte, del trasporto e della logistica – con porti, interporti, scali merci, ecc. - che diventano opere territoriali), ma anche quelle delle interdipendenze funzionali e organizzative tra territori urbani,  flussi di diversa natura (merci e persone, conoscenze e saperi), città e sistemi urbani, interpretati come territori-snodo (terminali e luoghi di commutazione dei flussi, individuati come “chiodature” del territorio).
Così facendo, si riportava il territorio al centro delle strategie finalizzate ad elevare la competitività e l’attrattività economica del Paese. Ma le nuove dinamiche di sviluppo hanno bisogno di servizi di prossimità, di strumenti di valorizzazione sociale, come la casa o i servizi di inclusione. Il territorio, dunque, era anche il luogo dove rafforzare la coesione sociale. Queste conclusioni risultarono più evidenti e comprensibili quando utilizzammo (nella stesura del QSN) un’immagine del territorio nazionale articolato per Piattaforme territoriali strategiche, costruite come insieme di strati intrecciati da linee di flusso interne ed esterne, di meccanismi di relazione attivabili da politiche e progetti in grado di coglierne la presenza e la complessità.
In molte aree del Paese (e dell’Europa), si stavano faticosamente componendo nuove formazioni geografiche economiche e sociali, territori distrettuali emergenti in grado di colloquiare con le reti globali della produzione  e della commercializzazione, capaci di reggere con successo alla competizione, sistemi innovativi il cui sviluppo era determinato dall’intreccio virtuoso d’infrastrutture, poli universitari, centri formativi, località turistiche, attività produttive di nuova generazione ed ecosostenibili, con le città non più collocate su una scala gerarchica misurata sulla quantità di popolazione o sulla presenza di più o meno importanti sedi di istituzioni, ma sulla loro strategicità, sulla capacità di essere  luoghi in grado di sviluppare relazioni, di accogliere e generare flussi di persone merci e informazioni, di creare cultura, di essere parte di una rete di alleanze nazionale e, ancor meglio, sovranazionale.
Sulla base di queste potenzialità e degli scenari osservati, furono definite nell’ambito del modello di programmazione nazionale sei piattaforme strategiche transnazionali (Tav.7)
Le piattaforme furono individuate come parti del territorio nazionale dove era ipotizzabile  si potessero concentrare le funzioni di eccellenza dell’economia della conoscenza e dell’innovazione. Erano considerate come parti del Paese capaci di raggiungere i più alti livelli di competitività e di eccellenza nell’offerta territoriale e nella produzione di ricchezza. Queste elaborazioni – costruite utilizzando (e spesso incentivandolo) il concetto di governance multilivello insieme al principio di interscalarità  (l’altro elemento chiave posto a base di quelle riflessioni), quale necessità di giocare su scale diverse nel rapporto di partecipazione e dipendenza che lega la dimensione locale dello sviluppo alla costruzione di strategie globali (l’esempio nei nostri distretti produttivi era sotto gli occhi di tutti) - restituivano l’immagine di un’Italia caratterizzata da interdipendenze selettive, portatrice di un progetto capace di integrare diversi livelli istituzionali con differenti capacità d’intervento.   
Nei rapporti con l’Europa, le sezioni transfrontaliere dei corridoi potevano divenire luoghi strategici dello sviluppo, se capaci di valorizzare in modo ottimale le esternalità presenti e “ […] generare esse stesse sviluppo; ovvero, ridursi a mero luogo di transito , perdendo competitività per sé e per i sistemi territoriali di riferimento.
In altre parole esse hanno le potenzialità per assurgere a piattaforme territoriali, intese come spazi d’azione nei quali sembrano condensarsi, al grado più elevato, i flussi di relazioni, materiali e immateriali, che connettono l’Italia al resto del mondo, masse critiche territoriali che presentano caratteri endogeni e relazionali tali da facilitare l’ intercettazione e il  rafforzamento di filiere produttive di beni e servizi e, quindi, il conseguimento di livelli d’eccellenza della “offerta territoriale”.17
Oltre la rete europea, la Commissione aveva individuato alcuni assi transnazionali che si proiettavano verso il medio ed estremo oriente e, elemento per noi di maggiore interesse, verso il nord Africa. Il loro disegno rappresentava per noi l’impalcatura fondamentale alla quale legare i sistemi infrastrutturali nazionali.

Proviamo ora a riassumere le questioni riportate più sopra.
Dopo la firma del Trattato di Maastricht (11 dicembre 1991, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che aveva sconvolto gli assetti geopolitici mondiali e realizzato l’unificazione della Germania), con l’assunzione della moneta unica da realizzare entro il 1999, l’intera costruzione europea aveva fatto registrare una fortissima accelerazione del processo d’integrazione, non solo economica, ma anche politica e sociale, ponendo il sistema infrastrutturale come uno dei cardini principali dello stesso processo d’integrazione, ad esso, infatti, veniva richiesta la piena fluidità del trasporto di merci e persone, al fine di garantire la più veloce unificazione dei mercati interni e globali e l’accelerazione dei fattori di coesione sociale.
Anche in Italia, era via via maturata una nuova attenzione al tema della dimensione nazionale dello sviluppo territoriale, legandolo a un massiccio programma di infrastrutturazione strategica del Paese. Prima, il Piano delle opere necessarie per restare in Europa, (P. Costa, 1997), poi, il piano della Legge Obiettivo (P. Lunardi, 2001) erano il risultato di quel gap antico d’infrastrutture necessarie al Paese.
Da quegli anni, l’attenzione fu dedicata a definire politiche e organici programmi d’investimento per le infrastrutture ferroviarie, stradali, autostradali (da costruire ex novo o da migliorare), per i sistemi di trasporto di massa, degli hub portuali e aeroportuali, delle piattaforme logistiche, dei grandi bacini idrici, delle città e dei nodi urbani, delle grandi opere pubbliche (Programma delle Infrastrutture strategiche - DPEF 2008-2012, Ministero delle infrastrutture, 28 giugno 2007).
L’allargamento dell’Unione europea ai nuovi paesi dell’ex blocco sovietico costringeva l’Italia a un riposizionamento geografico e geopolitico,  sempre meno di tipo continentale e sempre più aperto verso il bacino del Mediterraneo.
Una strategia che si poneva in  alternativa al rafforzamento sul piano politico ed economico dell’intesa Parigi-Strasburgo-Berlino 18 e che fu rafforzata prevedendo l’individuazione di un corridoio intermodale est-ovest che attraversasse longitudinalmente il Mediterraneo e legato all’Europa centrale (l’ipercentro mitteleuropeo) dagli assi infrastrutturali verticali.
Il Master Plan europeo includeva vari corridoi che interessavano il territorio italiano. In particolare, oltre al già citato Corridoio V (Lisbona-Kiev), il Corridoio I, asse stradale e ferroviario sulla direttrice  “Berlino-Verona (con la realizzazione del tunnel del Brennero)-Bologna-Roma-Napoli-Reggio Calabria-Palermo” (in quell’occasione, a seguito di accordo con l’Unione Europea, l’itinerario fu leggermente variato, prevedendo anche il ragionevole e più funzionale inserimento , almeno per l’Italia, di Catania, collegata a Palermo e  Messina  attraverso un veloce collegamento ferroviario che sarebbe stato, anche allora lo si definiva “di alta velocità”); il Corridoio dei Due Mari, l’asse ferroviario Genova-Rotterdam, attestato, per la parte italiana, sul Terzo valico dei Giovi e, attraverso il nodo di Novara, all’incrocio con il Corridoio V, la direttrice del Sempione che avrebbe consentito il collegamento veloce (questo sì! “di alta velocità”) per realizzare il collegamento fra i due grandi porti, rispettivamente del Mediterraneo e del mare del Nord; le Autostrade del Mare, lungo il bacini del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo orientale e il Corridoio VIII, che, dall’originario tracciato fra Varna e Durazzo, fu esteso fino alle coste della Puglia (Tav.3)
E’ in quest’ottica che il Ministero delle infrastrutture si è reso promotore, nell’ambito della politica di connettività e prossimità dell’Unione Europea e dell’area MEDA19 dell’attivazione di un corridoio  mediterraneo intermodale est-ovest, il “Corridoio Meridiano” (Tav.8), con funzioni di redistributore di flussi, di attivatore di nuove reti e di potenziatore di sistemi locali, in una prospettiva più generale di “ricentralizzazione” del Mediterraneo. L’attivazione di tale Corridoio Meridiano funge da “dispositivo territoriale” in grado di alimentare la creazione di un’armatura euro-mediterranea di riqualificazione delle risorse, di sviluppo delle accessibilità e delle economie e di promozione delle eccellenze, nel quadro della redazione di un Piano Strategico del Mediterraneo capace di agire per la definizione di politiche di convergenza verso obiettivi di sviluppo comuni dell’area MEDA fondati sull’uso equilibrato e competitivo delle risorse locali.”20
L’obiettivo del programma Meda era quello di costruire un “Sistema Mediterraneo”, capace di sviluppare un insieme di  relazioni privilegiate, politiche economiche e sociali, tra l’Unione europea e i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo.
L’intreccio fra Corridoio Meridiano e interventi previsti dal piano europeo delle infrastrutture (le Autostrade del Mare, in particolare) e dalla programmazione nazionale (rafforzamento dei porti del Tirreno e dell’Adriatico, connessione con la grande rete stradale e ferroviaria nazionale e le piattaforme logistiche), avevano l’obiettivo di promuovere il rilancio del Mediterraneo.
A questo scopo si mirava ad una vera e propria riconfigurazione delle geografie economiche dell’area, ora al centro di nuovi rapporti geopolitici, incentivando di più intensi scambi economici, di una rafforzata riorganizzazione delle comunicazioni commerciali e di una proficua riallocazione dei flussi di persone e merci fra Europa e Paesi del Nord Africa, del Mediterraneo orientale, dei Balcani e del Mar Nero, fino a quelli dell’Estremo Oriente, da indirizzare attraverso lo stretto di Suez. Di questo nuovo scenario di competitività economica e di rafforzamento della coesione sociale avrebbero potuto godere in particolare i sistemi territoriali del Mezzogiorno, tanto quelli incentrati sulla piattaforma transnazionale della Puglia e della Basilicata protesa verso i Balcani, quanto quelli della Piattaforma transnazionale Meridiana che legava Calabria e Sicilia (che avrebbe dovuto costituire l’area centrale del Corridoio Meridiano, un cluster interregionale i cui capisaldi erano i territori urbani di Cosenza, Catanzaro, il sistema Reggio Calabria-Messina, Catania, Siracusa-Augusta e Ragusa. Gioia Tauro e Catania, venivano a costituire le principali basi logistiche per intercettare e smistare i flussi che attraversano il Mediterraneo, fungendo al tempo stesso quali nodi infrastrutturali cui era stato affidato il compito di “attivatori” della stessa Piattaforma).
Il  Corridoio Meridiano faceva perno sull’incremento quali-quantitativo del traffico marittimo est-ovest e sulla presenza di una importante rete di porti capaci di intercettare una rilevante quota degli scambi commerciali. Rispetto ai programmi degli altri partner europei e alle politiche elaborate dalla Commissione, questa ipotesi aveva l’obiettivo di riequilibrare il modello di sviluppo incentrato sulle linee verticali delle Autostrade del Mare introducendo una orizzontalità relazionale che, intersecando longitudinalmente l’intero bacino del Mediterraneo, serviva a riequilibrare l’orientamento Nord-Sud.
Nel costruirla  si aveva già a disposizione una prima ossatura del sistema infrastrutturale, costituito dai corridoi transeuropei, dal sistema di porti e aeroporti e dal notevolissimo flusso di rotte marittime, collocati sulle sponde europee e su quelle nord-africane.  
L’incremento di competitività dell’intero sistema territoriale meridionale nelle diverse correlazioni interregionali, con il conseguente spostamento del baricentro tra Europa centro-settentrionale e Europa del sud, richiedeva ovviamente che fossero messe in atto con costante impegno e determinazione politiche di investimento territoriale in grado di sfruttare i vantaggi posizionali intervenendo sull’organizzazione e sulla potenzialità d’innovazione della rete dei centri urbani, sull’incremento di capacità dei sistemi produttivi locali e su un’offerta trasportistica e della logistica in grado di garantire comunicazioni veloci e organizzazione adeguata alla domanda commerciale globale.

In quella fase era in forte crescita la domanda di trasporto tra Unione Europea e Paesi del medio ed estremo oriente e dell’Africa, con un trend particolarmente positivo per quello marittimo (Cina e India principalmente, attraverso lo stretto di Suez). Mentre il traffico merci ferroviario fra il 1990 e il 2000 era diminuito di oltre il 10%, quello marittimo aveva fatto registrare incrementi superiori al 40%. Il traffico container che faceva capo all’insieme dei porti del Mediterraneo, fra il 1994 e il 2004 era cresciuto del 20%, a tutto svantaggio di quello detenuto dai porti del nord Europa, favorendo in particolar modo i grandi porti di transhipment, evidenziando l’importanza che
venivano assumendo le Autostrade del Mare                      
Il volume di traffico marittimo che interessavano il Mediterraneo, evidenziato dall’High Level Group, presieduto da Loyola de Palacio (Tav.9)21, metteva in luce, con assoluta evidenza, il ruolo che le regioni mediterranee avrebbero potuto giocare se poste in grado di intercettare quell’enorme fascio di flussi, attraverso adeguate politiche infrastrutturali - potenziando soprattutto lo scambio intermodale fra nave e treno e favorendo il riequilibrio modale fra ferrovia e strada - e operando sull’incremento della qualità urbana delle città interessate.
Il processo di programmazione/pianificazione nazionale (QCS, DPEF 2007-2011, DPEF 2008-2012)  si muoveva in linea con quanto elaborato dalla Commissione europea, proponendo, fra l’altro, di agire sul rafforzamento dell’attrattività dei nodi costieri caratterizzati dalla compresenza di Autorità portuali e di stazioni ferroviarie (il Programma Porti e Stazioni), candidabili, in una logica di sistema, a divenire “approdi” delle Autostrade del Mare e, come tali, a fungere da cerniera con le reti infrastrutturali terrestri e con gli hub aeroportuali.
In questo senso, le città (i nodi della rete), e in particolare quelle del sistema euromediterraneo, venivano lette come elementi di commutazione dei flussi, luoghi di arrivo e di scambio dei flussi con i sistemi locali, generando crescita e trasformazione.

Tutti i documenti europei, e nello stesso modo anche quelli nazionali, attraverso la costruzione di una rete urbana e infrastrutturale globale, proponevano comunque la visione di un’Europa forte e coesa, che mentre si dava come obiettivo il superamento delle complesse e spesso contraddittorie relazioni fra le regioni che la compongono, si proponeva come soggetto unitario in grado di dare concretezza a obiettivi di convergenza e coalizione a favore di partner esterni.   
Di questo teneva conto la proposta di attivazione del Corridoio mediterraneo intermodale est-ovest, quando si presentava come occasione per una territorializzazione strategica delle politiche attivate della Commissione europea  a favore di obiettivi di sviluppo economico e sociale degli altri Paesi del bacino mediterraneo (l’area Meda), anche se, comunque, era orientata a far prevalere una logica di utilità territoriale nei riguardi del Mezzogiorno italiano (con le sue eccellenze territoriali, culturali, paesaggistiche), sfruttando il posizionamento geografico dei suoi sistemi territoriali e delle sue città, promuovendo e alimentando la strutturazione di una sorta di policentrismo produttivo, quali potenziali cerniere fra l’Europa e le regioni del Mediterraneo meridionale, dei Balcani e del Medio-Oriente.
Negli anni successivi, le cose non sono andate nel verso auspicato. Ora tutto è diverso.

A livello globale, la grande crisi economico-finanziaria del 2008-2009 (in Italia, fino al 2011-2012); in Europa, la crisi dell’euro e l’insorgere di conflitti sociali, esaltati dalla stessa incompiutezza della costruzione europea, non riuscirono a trovare alcun accettabile livello di mediazione, né con le politiche di bilancio in difesa dell’euro, né con quelle sociali di consolidamento dei diritti; gli enormi e dirompenti processi determinati dai rifugiati e dai migranti, dall’insorgere di micidiali fenomeni di terrorismo e, da ultimo, dalla Brexit, hanno avuto un effetto fortemente impattante sulla stessa costruzione del processo d’integrazione europea e hanno, di fatto bloccato il processo di allargamento e consolidamento dell’area di libero scambio mediterraneo prima ipotizzata.
Dalla fine del 2010 e nei primi mesi del 2011, un vastissimo movimento popolare di protesta, le Primavere arabe (in Tunisia, La rivoluzione dei Gelsomini), ha interessato tutto il sud del Mediterraneo, dal Nord Africa al Golfo Persico, passando per il medio oriente. L’intero mondo arabo scese in piazza per chiedere maggiori libertà individuali, rispetto dei diritti civili, attenzione alla dilagante povertà, lotta alla corruzione. Potenti dittatori, i rais Ben Alì e Mubarak, assistettero in pochi mesi al crollo del loro potere, Gheddafi, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, fu catturato e ucciso (11 febbraio 2011), con l’aiuto decisivo di Stati Uniti, Inghilterra e Francia. L’Italia, pur avendo da sempre stretti legami con la Libia, la quarta sponda dell’occupazione giolittiana (Tripoli bel suol d’amore, si cantava), e solo poco tempo prima (giugno 2009) aveva tributato splendidi onori al dittatore libico (all’arrivo, sul petto, accanto alle decorazioni dell’alta uniforme, esibiva una fotografia dell’eroe libico della resistenza anti-coloniale e aveva preteso l’installazione di un’enorme tenda nel parco di Villa Panphili) e firmato accordi commerciali e trasportistici (la realizzazione dell’autostrada sulla costa) e un trattato di amicizia, non ebbe alcun ruolo nell’avvenimento e, anzi, fu accusata di averlo abbandonato. Si aprì in quell’occasione una formidabile occasione per molti Paesi europei e orientali di penetrare in un territorio che da sempre costituiva un caposaldo della sicurezza e degli scambi commerciali dell’Europa e, in particolare, dell’Italia.   

La parte meridionale del Mediterraneo e la costa settentrionale dell’Africa da allora sono diventate, aree di drammatica instabilità, teatri di dura contrapposizione, quando non di vera e propria guerra, condotta per delega di potenti competitori. Iniziative espansionistiche e movimenti di truppe finalizzati a imporre logiche di predominio e di sperimentazione nel campo della tecnologia militare, lo sfruttamento delle enormi risorse energetiche presenti nel bacino orientale, l’accaparamento delle materie prime imprescindibili per lo sviluppo delle tecnologie più avanzate  (il filo che lega Cupertino al centro dell’Africa, ci ricorda l’ex ministro M. Minniti), il controllo dei flussi migratori provenienti dall’Africa centrale e sub-sahariana, fenomeno quello dell’emigrazione che determina squilibri enormi con l’Europa in piena crisi di natalità e che va al più presto governato, il terrorismo, che ha trovato nell’Africa il terreno ideale di coltura dopo la sconfitta dello Stato Islamico, sono tutti fattori di pressione sui governi europei, in funzione di scambio economico e di provvista finanziaria (schema accordo Merkel- Erdogan). Lo Stretto di Sicilia sembra destinato a uno stato di permanente e latente belligeranza e di crisi sociali dagli effetti imprevedibili22.
C’è un evidente interesse nazionale che si gioca fuori dai confini, che non può essere vinto da soli.
Lo scontro è più evidente in Libia, ma il caos corre lungo tutto il Nord-Africa, dall’Algeria all’Egitto, fino al Medio Oriente. Per ora, è apparentemente sotto controllo, ma potrebbe velocemente avvolgersi su se stesso con esiti disastrosi per tutta l’Europa, per l’Italia in particolare. Di nuovo il grande gioco dell’occidente contro l’oriente, ancora la diplomazia delle cannoniere.23
Il riaffermarsi di massicci flussi di persone, dell’imponente crescita di legami commerciali e finanziari, delle comunicazioni e dei servizi digitali,  dei cambiamenti climatici, di migrazioni e mutamenti epocali superano i confini degli Stati e disegnano una nuova connessione geografica24. “Parag Khanna l’ha, icasticamente, chiamata “connectgraphy”. Oltre la geografia tradizionale. Oltre la semplice connessione. […] L’Italia è tornata. Con una consapevolezza nuova. Fare da apripista ad un organico, unitario, approccio dell’Europa alla Libia e all’Africa del Nord”25.
D’altronde, se i giacimenti di gas e petrolio del Mediterraneo meridionale e medio-orientale, le ricchezze del Sahel, le materie prime dell’Africa centrale fanno gola a tutti - anche se in vantaggio per ora ci sono russi, turchi e cinesi - e il Mare di Sicilia deve essere tenuto libero per mantenere aperto il passaggio est-ovest, fra Atlantico e Indo-Pacifico, ancora una volta obiettivo prioritario dell’Europa torna ad essere un Mediterraneo “allargato”, dai Balcani al Sahel, al Corno d’Africa.
E’ possibile raccontare l’Europa di questi ultimi settant’anni come di un laboratorio, un luogo politico e geografico pieno di volenterose sperimentazioni, di parziali aggiustamenti, di piccoli passi avanti e di frettolose retromarce (arretrando, comunque, sempre un po’ meno di quanto si era avanzato). Se non è possibile ritenerlo attendibile con riferimento ad alcuni aspetti quali, ad esempio, la difesa e la sicurezza o l’integrazione politica in senso federalista, questo racconto lo si può almeno parzialmente condividere per quanto riguarda gli aspetti economici e di bilancio e, sempre con le dovute eccezioni, per quelli, che qui più ci interessano, relativi all’inclusione e alla coesione sociale.
La crisi globale del 2008 aveva interrotto il percorso appena avviato di integrazione Nord-Sud; i singoli Stati per frenare la crisi avevano dovuto circoscrivere i loro piani d’investimento alle realtà nazionali, occupandosi, principalmente, del salvataggio delle banche e del settore automobilistico. La più recente crisi pandemica ha invece determinato, da un lato, la concentrazione  degli interventi dei singoli Stati su un poderoso sostegno ai redditi, con analogo rimbalzo dei deficit di bilancio, dall’altro, ed è stata l’occasione per la Commissione europea di un totale ripensamento delle modalità di finanziamento della ricostruzione economica post pandemica, da tutti attesa e sperata (l’ombra del Covid inizia a ritirarsi, ha affermato Paolo Gentiloni). L’Europa, preso atto delle conseguenze determinate dal Covid  che si sono drammaticamente sommate ai profondi e pericolosi squilibri creati dalle politiche economico-sociali poste in essere negli ultimi dieci anni, con l’approvazione del Next Generation EU per un totale di 750 mld di €, per la prima volta ha fatto ricorso alla mutualizzazione del debito (grazie alla emissione di titoli europei), per finanziare massicci piani d’investimento26, sotto la responsabilità di ogni singolo Stato, che dovrà garantirne l’attuazione, pena la revoca delle risorse assegnate27. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha come principali missioni l’innovazione digitale, la transizione ecologica, le infrastrutture sostenibili e  altre misure di carattere trasversale (istruzione e ricerca, formazione, salute, disparità territoriali) declinate con un occhio particolare agli obiettivi di inclusione sociale e coesione.
Proprio questi due profili, quello della crescita economica e quello della coesione sociale, sono ora al centro degli interessi europei e  italiani. Un interesse che sembra proiettato tutto all’interno dei confini della Comunità, una centralizzazione delle scelte economiche effettuate, come dire che solo se ora c’è più Europa sarà possibile domani il rilancio della collaborazione e dell’attenzione verso le altre aree geografiche. C’è chi ha parlato di una sorta di “sovranismo europeo” che potrebbe subentrare alle posizioni proprie dei sovranismi nazionali. Per ora l’Europa sembra non voler cogliere la sfida della competizione sulle aree dell’Asia e dell’Africa. Un passo indietro, almeno così sembra, rispetto alla precedente considerazione della centralità del Mediterraneo. Se i problemi delle violente crisi economiche e sociali dei Paesi africani e del Medio Oriente, in disparte la generale instabilità determinata sullo scacchiere internazionale,  non saranno adeguatamente affrontati, l’esito di immediata palpabilità sarà l’incremento massiccio dei flussi migratori, soprattutto di quelli illegali, verso le coste europee, con conseguente inasprimento dei conflitti fra gli stessi Stati membri, una crescita delle posizioni xenofobe e il prevalere degli interessi particolari di ogni singolo Stato nei rapporti con competitori esterni (privilegiando, ancora una volta, Russia, Turchia, Cina), e possibile messa in discussione della stessa idea di Europa unita.
Le attuali migrazioni sono anche la manifestazione più evidente del bisogno di movimento che da sempre è carattere identificativo della natura umana. Anche se non avvengono soltanto per motivi economici, senz’altro, le questioni di reddito e, troppo spesso, quelle di sopravvivenza, ne sono una cifra fondamentale. 28 “Esiste un’immigrazione inevitabile e un’immigrazione organizzabile” (Severgnini, Corriere della Sera, 20 giugno, 2021)

Trent’anni fa, nell’agosto del 1991, da Durazzo, sulle coste albanesi, salpò verso quelle italiane il mercantile Vlora. Quando arrivò in porto a Bari, dei circa 20mila albanesi che si erano accalcati
ovunque, arrampicati dappertutto, sui comignoli, sui pennoni delle antenne, sui bracci per la movimentazione delle merci, molti si gettarono in acqua, la gran parte si riversò sulla banchina, chiedevano pane e acqua. Scappavano in massa da un Paese in dissoluzione, ormai alla fame, non più socialista ma ancora lontano dall’economia di mercato. Avevano vista l’Italia in televisione, allegra e spensierata, gli sembrava l’America, lì a portata di mano, nei giorni di chiaro la si poteva intravedere a posto dell’orizzonte. Fu così che diventammo l’America di qualcun altro, e non abbiamo più smesso. Quando arrivarono in vista della città, tutti in coro gridarono “Viva l’Italia”. Furono accampati allo stadio e gli elicotteri li rifornivano dal cielo di cibo e coperte. Per tre giorni si scontrarono con le forze dell’ordine, 40 i poliziotti feriti, un numero imprecisato gli albanesi. Quando arrivarono era l’8 di agosto, il giorno dopo oltre 5000 albanesi erano stati rispediti nel loro paese, il 18 dello stesso mese, l’operazione di rimpatrio grazie a un poderoso ponte aereo si poteva dire conclusa, circa tremila riuscirono a fuggire. L’allora ministro degli Esteri (Gianni De Michelis) volò a Tirana a illustrare il piano d’aiuti: 90 miliardi per alimenti, 60 per l’avvio dell’economia, provvidenze per le scuole e aiuti per l’ordine pubblico (meglio evitare nuove partenze!). Dopo qualche mese, Italia e Albania stipularono un accordo per governare l’immigrazione regolare.
La vicenda albanese dovrebbe costituire un efficace canovaccio su cui attentamente riflettere e un monito, per noi e per l’intera Unione Europea.
Ora siamo diventati tutti europei, il populismo nazionalista sembra un vago ricordo, l’ottica sovranazionale ha conquistato completamente l’Italia (e molti altri Stati membri). E’ un indubbio aiuto (anche insperato, almeno per la velocità con cui si è manifestato) alle trattative che il Governo sta conducendo in sede europea e internazionale, non solo con riferimento alle questioni di bilancio (a cominciare dal Patto di stabilità), ma, soprattutto, sul fronte dell’immigrazione e sul possibile ruolo da giocare in Libia e nell’intero bacino del Mediterraneo. 
Qualche giorno fa, nel corso del Consiglio europeo (24-25 giugno 2021), finalmente, dopo tre anni, si è tornati a parlare, su richiesta del Presidente del Consiglio italiano, di immigrazione, e questa volta lo si è fatto discutendo della situazione presente sulle varie rotte, dalla balcanica alla mediterranea. L’incontro si è risolto, per ora, nella conferma dei fondi per bloccare i flussi di profughi.
Il Consiglio, infatti, ha approvato la concessione da qui al 2024 di 3,5 mld di € alla Turchia (oltre ai 6 già versati negli ultimi cinque anni)29 e 2,2 mld a Libano e Giordania, per allestire lì campi profughi. Nei confronti dei Paesi africani di origine e transito dei flussi migratori mediterranei30, ci si è limitati a dare mandato alla Commissione di lavorare a un piano d’azione di 8 mld di €, che probabilmente sarà pronto solo a fine ottobre.
Una risposta contradditoria e ancora una volta sostanzialmente dilatoria. Grazie al prevalere di un interesse “domestico”, determinato dalle prossime elezioni in Francia e Germania, si è velocemente arrivati alla conclusione di un ben pagato accordo con Erdogan per trattenere in territorio turco la massa dei rifugiati siriani (rimane ancora sullo sfondo quello che potrebbe accadere con i rifugiati iraniani e afgani). Su l’altro fronte, non si è neanche aperta (determinante la solita opposizione dei Paesi dell’Est e del Nord Europa) la discussione sul protocollo di Dublino (i migranti restano dove arrivano) e si è invece spostato nel tempo (almeno di quattro/cinque mesi) l’avvio dell’esame di un “auspicato” piano d’azione per il fronte meridionale del Mediterraneo.
Anche se con eccessiva lentezza, si comincia, comunque, a prendere atto della necessità di uscire dalla dimensione bilaterale nei rapporti con i singoli Stati africani e a valutare l’essenzialità della “dimensione esterna” delle migrazioni come questione centrale dell’intera Europa, nessuno escluso.

Consapevolezza ottenuta anche grazie alla recente “scoperta” del fenomeno da parte dei paesi del Nord Europa, preoccupati dalla consistente crescita dei flussi provenienti dalla Bielorussia.
Per quanto riguarda l’Italia, il dossier migranti è molto più corposo e preoccupante di quanto possa apparire a prima vista, e la cosa è ben presente nel Governo.
La stabilizzazione del Sahel rappresenta una priorità per l’Italia”, ha sostenuto il Presidente del Consiglio in Parlamento (Camera dei Deputati, 23 giugno 2021). “Prendete una carta dell’Africa – suggerisce Lucio Caracciolo -. Congiungete Tunisi con Gibuti via Tripoli in direzione sud-est e con il Delta del Niger verso sud-ovest. Ricongiungete quello sbocco nel Golfo di Guinea con Gibuti e vedrete emergere un vasto triangolo irregolare che ritaglia il cuore africano di Caoslandia Immensa parte di mondo a bassissima pressione istituzionale e alta concentrazione di tensioni e conflitti  solcata da traffici obliqui di armi, droga, esseri umani che puntano verso lo Stivale e altre sponde europee.   …Sicché noi fungiamo da terra assorbente verso cui convergono via Mediterraneo i flussi di Caoslandia.”31   
Ancora una volta, è di tutta evidenza per il Paese la centralità della questione africana costituita dalla nostra stessa proiezione strategica nel Mediterraneo.
L’obiettivo non è più, o non soltanto, il contrasto ai flussi di migranti, la risposta non può essere solo emergenziale, l’immigrazione non è soltanto un problema di persone che sbarcano sulle nostre coste, si devono comprendere i motivi profondi del perché lasciano i loro Paesi e cercare di porvi rimedio, è necessario dare risposte strutturali, passare all’elaborazione di piani e programmi a lungo termine, con orizzonti temporali a venti/trent’anni.
Diventa indispensabile mettere in cantiere l’elaborazione di un “Recovery Fund” destinato ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo per l’avvio di piani straordinari, con finanziamenti a fondo perduto e prestiti, per la realizzazione di indispensabili riforme sociali e concrete iniziative economiche e d’interventi nei diversi ambiti (amministrativi, industriali, agricoli, energetici, ecc.) da sottoporre a verifica e revisione sulla base dei risultati raggiunti. Come già avviene per il Recovery Fund, i Piani dovrebbero essere costruiti sulla base di programmi preliminari da sottoporre all’approvazione di strutture della Commissione Europea e gestiti in conformità a precisi accordi con gli Stati beneficiari. Un programma organico di ricostruzione economica e sociale finalizzato, soprattutto, a favorire la stabilizzazione delle popolazioni su quei territori.
Un Fondo destinato a sostenere le economie e le società del fronte mediterraneo africano e medio-orientale, articolato in piani quinquennali (o altra cadenza) costituirebbe, senz’altro, un utile interfaccia delle politiche economiche, sociali e territoriali del PNRR.
Ma il Piano italiano su questo fronte presenta evidenti carenze.
Oltre alla descrizione sull’uso e sull’allocazione delle risorse assegnate (le sei Missioni), il PNRR propone un gran numero di riforme (giustizia, pubblica amministrazione, fisco, sanità, scuola),  come se nessun comparto della nostra vita associata e istituzionale fosse esente dal bisogno di interventi di risanamento vasti e incisivi, un “vasto programma” (valutazione espressa senza alcuna ironia)32 elaborato anche in funzione delle “Raccomandazioni paese”33,  che ci siamo impegnati ad approvare in tempi certi e con contenuti concordati. Un contratto stipulato  con la Commissione Europea. Un “vincolo esterno” assunto consensualmente che ci impone, nel nostro stesso interesse, il rispetto di una puntuale tabella di marcia sullo stato di attuazione degli interventi proposti, sull’iter approvativo delle riforme promesse  e sul raggiungimento degli obiettivi previsti, sottoposta a verifiche periodiche.  In ogni pagina è scandito il tempo delle cifre e il calcolo dei tempi di attuazione. Un sistema vincolante,  predisposto per consentire la verifica dei risultati attesi e le scadenze di attuazione, pena la revoca dei finanziamenti concessi.  
Se con il PNRR si va definendo l’agenda dei prossimi trent’anni e, come negli anni novanta, “siamo alle soglie di una trasformazione produttiva e degli stili di vita, anche in Italia, di fronte alla quale anche il trattato di Maastricht può sembrare poca cosa”34, allora, non si comprende l’assenza di una reale proiezione internazionale,  l’eccessiva attenzione riservata ai soli squilibri nazionali, una sia pur minima proposta nei confronti della questione dell’immigrazione che con maggiore drammaticità ci investe dal Sud, cui andrebbero dedicate, invece, politiche di analoga portata finanziaria e ben più ampio confine temporale di quanto previsto con il Piano nazionale .
Allo stesso modo del rapporto Italia-Commissione Europea, dovremmo interpretare la nostra collocazione nel Mediterraneo, affrontandolo come un “vincolo interno” cui prestare la stessa attenzione e onorare nello stesso modo.
Il Piano di Ripresa e Resilienza italiano, limitando l’osservazione alla Missione 3 (Infrastrutture per una mobilità sostenibile), gli interventi di cui si discute da oltre trent’anni, contenuti in tutti i Piani dei Trasporti e in altri atti governativi (Le infrastrutture per restare in Europa, Legge Obiettivo e altri ancora) li prevede tutti, sono gli stessi da qualche decina d’anni, non ne manca nessuno (poco infatti è stato realizzato). Assente, invece, è proprio una reale visione programmatica, risalta in esso l’assenza di un quadro di coerenza spaziale e territoriale degli interventi  e risulta evidente la mancanza del necessario contatto con il territorio interessato, che, se declinato, ne avrebbe fatto “opere territoriali”, capaci di riorganizzarlo e trasformarlo, di modificarne lo spazio fisico ma anche gli usi.
Non “c’è una lettura unificante… che adatti l’azione a misura delle differenze territoriali, delle diverse configurazioni e modalità della marginalizzazione territoriale35. Manca l’assenza di visione prospettica, di una programmazione economico-territoriale in grado di aggredire e superare le diseguaglianze e le divaricazioni crescenti, non solo fra i diversi sistemi territoriali, ma anche fra le grandi aree del Paese - la macro area Sud in costante profondo declino (avviata verso una crescente prospettiva di marginalità sociale ed economica e di degrado demografico e civile) rispetto alla macro area Centro-Nord, privilegiata nel rapporto anche infrastrutturale con l’Europa centrale, cui è in gran parte affidata l’intera competitività del Paese - non consentendo al Sistema Italia di funzionare come effettivo e potente soggetto unitario, anche nell’interesse dell’Europa.
Da ultimo SVIMEZ, solo qualche mese fa, con l’obiettivo di definire “una compiuta Visione, finalizzata alla riconnessione organica – culturale, sociale, economica e produttiva - dell’Italia, nel quadro di un efficiente, sinergico e concreto “Progetto di sistema per il Sud in Italia e per l’Italia in Europa”36, ha presentato un corposo rapporto i cui contenuti – in verità quasi coincidenti (fatte salve, ovviamente, alcune novità)  con quanto elaborato dalla Dicoter del Ministero infrastrutture e trasporti una ventina d’anni fa -  aveva sperato potessero essere fatti propri dal PNRR.
Un progetto ritenuto dall’Agenzia del Mezzogiorno immediatamente avviabile e concretamente realizzabile entro il 2026, utilizzando le risorse rese disponibili con il PNRR, che si compone di tre “Opzioni Essenziali”, interconnesse come Struttura del Sistema, finalizzato a definire il riposizionamento del nostro Paese.
Pur non essendo stato tenuto in considerazione nell’elaborazione del PNRR, si tratta dell’ultima proposta, in ordine temporale, di un meditato percorso e precisi obiettivi che danno corpo ad un Progetto di Sistema per il Mezzogiorno in Italia e per l’Italia in Europa37,  che si propone di superare il doppio dualismo (Nord-Sud / Italia-Europa), dove il Sud non è il finis Europae, ma la cuspide di un intero mondo europeo, che attraverso l’Italia penetra nel Mediterraneo e lo trasforma nella “Porta d’ingresso” per il Mondo38, e che, per l’autorevolezza del proponente vale la pena riassumere per estrema sintesi.  
La prima opzione, la Southern Range,  definisce un sistema logistico-produttivo (l’”Esagono” della Nuova portualità di Sistema del Sud Italia) ricompreso fra le quattro ZES ( Zone Economiche Speciali) di Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro (il “Quadrilatero continentale”) e le due ZES siciliane di Catania/Augusta e Palermo, che potrebbe consentire di strutturare in modo efficiente le funzioni logistiche dell’intermodalità e della trasversalità territoriale a cui deve concorrere la progressiva, rapida attivazione delle Autostrade del Mare39.
Sembra di rivedere rappresentate le Piattaforme territoriali strategiche Sud-Orientale e Tirrenico-Ionica, individuate, insieme alle altre, come parti del Paese capaci di raggiungere i più alti livelli di competitività e di eccellenza nell’offerta territoriale e nella produzione di ricchezza.
La seconda opzione è costituita dalla linea dell’Alta Velocità tra Roma e Catania (“Roma-Catania tre ore e mezzo”) che completerebbe la “Dorsale continua italiana”, parte del Corridoio Scandinavo-Baltico-Mediterraneo Europeo. Esattamente il Corridoio 1 di vent’anni fa.
C’è un importante novità in questa parte del Rapporto consistente nella presa di posizione a favore del Ponte sullo Stretto di Messina, che diventerebbe il fulcro dell’Asta Jonica-Sicula (uguale nello schema geografico e con gli stessi obiettivi già illustrati con riferimento al Corridoio Meridiano).  La sua realizzazione configurerebbe la nascita della “Grande Città Metropolitana dello Stretto”, un modello insediativo innovativo (esito già descritto in occasione del Concorso internazionale per il Ponte sullo Stretto di Messina del 1969) che serve ad introdurre la terza opzione, la rete dei “Cluster innovativi Territoriali”. L’integrazione di più modelli insediativi, infatti,  sarebbe il successivo passo per determinare la nascita di Aree Vaste (gli elementi della rete di cluster), nuovi soggetti spaziali capaci di esprimere alta qualità insediativa sociale e territoriale, dove “benessere-residenza-lavoro-ospitalità/turismo/tempo libero-salute” possano ridefinire i loro rapporti reciproci.
Tutto molto simile ai Sistemi territoriali individuati dall’insieme dei Programmi innovativi promossi dal Ministero.
La sottovalutazione nel PNRR dei problemi legati ai massicci esodi attuali, e ancora di più a quelli futuri, è evidente anche rispetto a problemi più specifici relativi a persone immigrate presenti sul territorio nazionale. Non si ritrova in esso nessuna proposta a favore di un auspicabile processo di maggiore integrazione attraverso progetti di istruzione, assistenza, ricongiungimenti familiari, abitazioni, concessione di cittadinanza, e altro ancora, che potrebbero accompagnare un percorso di valorizzazione delle loro competenze. Sostituire le logiche difensive o meramente assistenziali con progetti mirati a una maggiore coesione sociale porterebbe sicuramente maggiori benefici a tutti sul piano demografico e su quello economico, un più agevole turn over della forza -lavoro, un consistente vantaggio in termini di contributo alla fiscalità generale e un maggiore equilibrio del sistema previdenziale.  




Note


1 “La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive altre patrie dagli occhi ridenti …è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele, per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore, ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio…..Anima la tua patria è sempre stato il viaggio!”, Nikos Kazantzakis, Odissea, Crocetti Editore, Milano, novembre 2020

2 Genuensis, ergo mercator, dicevano di Genova e Lago genovese chiamavano il mar Nero.
 Mude erano i convogli di navi mercantili veneziane appaltate a mercanti che, scortate da navi armate, scambiavano con i mercati di Costantinopoli, dell’India e della Cina (a Quanzhou vi era un insediamento veneziano).

3 Aristotele, insieme ad altri autori antichi, facevano risalire i primi scavi per collegare il Mediterraneo con il mar Rosso al faraone Senusret III (circa 1800 a.C.) che, raccontano abbia realizzato un canale per l’irrigazione che diventava navigabile nei periodi di piena, il Canale dei Faraoni, che si estendeva da ovest a est e collegava un ramo del Nilo con il mar Rosso. Le prime notizie certe del canale risalgono al faraone Necao II (circa 600 a.C.). I Romani quando lo allargarono lo chiamarono Canale di Traiano. Fu saltuariamente utilizzato e definitivamente chiuso dal califfato abbaside nel 676 (754?) d.C. per ragioni militari. Il primo disegno preciso fu elaborato dai Veneziani nel 1504 per annullare il vantaggio dei Paesi atlantici con la circumnavigazione dell’Africa. Napoleone nel 1799 riscoprì i resti del Canale dei Faraoni e pensò di riutilizzarlo contro la Gran Bretagna  che controllava la rotta del Capo di Buona Speranza che collegava Europa e Asia, ma un errato calcolo del dislivello fra i due mari (9  metri dicevano i suoi ingegneri) superabile con un complesso sistema di chiuse, lo fece rinunciare all’opera. Nel giugno del 1856, dei quattro progetti presentati, fu scelto quello dell’ing. Luigi Negrelli (che si avvalse di alcune proposte elaborate dall’ing. Pietro Paleocapa, ministro piemontese dei lavori pubblici). I lavori cominciarono nell’aprile del 1859.

4 “Su scala mondiale, il mare nostrum è Medioceano in quanto connettore fra Atlantico e Indo-Pacifico. […] Suo omologo asiatico è il Mar Cinese Meridionale. Nella partita fra Stati Uniti e Cina gerarchia delle onde vuole decisivo il Medioceano asiatico. Il nostro viene secondo, dentro la medesima equazione. Visto dall’Italia è naturalmente primo. […]” L’Italia al fronte del caos, liMes, 2/2021

5 Anche il Conte di Cavour aveva manifestato un certo interesse per l’Africa e il Mar Rosso; Nino Bixio, in un discorso alla Camera nel 1861, aveva caldeggiato l’occupazione di Assab (tra Mar Rosso e Oceano Indiano) che, pochi anni dopo (1869) fu acquistata per conto della società di navigazione Rubattino e poi (1882) ceduta al regno d’Italia. Dopo lo “schiaffo di Tunisi (l’imposizione nel 1881 di un protettorato francese sulla Tunisia, nazione su cui l’Italia aveva forti mire espansionistiche), l’Italia, prima stipulò il Trattato della Triplice Alleanza con Germania e Austria e poi, nel gennaio del 1885 avviò la prima campagna d’Africa. Un corpo di spedizione di bersaglieri salpò da Napoli e, il  mese successivo, iniziò l’occupazione della fascia costiera fra Massaua e Assab e la penetrazione nella regione ( in contrasto con Egitto e Impero ottomano) contro l’Impero etiopico. Spiegò in Parlamento Pasquale Stanislao Mancini, ministro degli Esteri, come in questo modo l’Italia stesse cercando nel Mar Rosso le chiavi del Mediterraneo. L’avventura si concluse nel gennaio 1887 con l’annientamento di un reparto italiano di 500 uomini da parte del ras Alula al comando di 7.000 uomini.

6 Per una storia più approfondita della “Valigia delle Indie”, si rinvia a G. Fontana, “Il Peninsular”, EWT n.22, 2021

7 La soglia di Sicilia, L’Italia al Fronte del Caos, liMes, 2/2021

8 “Mediterranean-First? La pianificazione strategica anglo-americana e le origini dell’occupazione alleata in Italia (1939-1943)”,  M.M. Aterrano, Napoli 2017, Federico II University Press (la formula è riportata in liMes, op.cit.).

9 Già nel 1941, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, al confino a Ventotene, avevano redatto il “manifesto per un’Europa libera e unita” (il Manifesto di Ventotene).

10 “Il progetto di un’infrastruttura è (o dovrebbe essere) sempre insieme il progetto di uno spazio fisico e il progetto di un sistema d’azione: modifica lo spazio ma anche gli usi di un territorio; immagina e dà forma alla fisicità ma anche alle relaziono che si stabiliscono tra chi vive, lavora, studia o semplicemente transita in un dato luogo. Le infrastrutture – quelle di trasporto in particolare, soprattutto quando sono di livello  nazionale o internazionale -  sono sempre e comunque “opere territoriali” , non solo perché arricchiscono la dotazione di attrezzature presenti su un dato territorio ma in quanto questi progetti connettono le logiche convergenti , divergenti o contradditorie di una molteplicità di attori , che agiscono ai livelli più diversi. Gli insiemi di queste logiche, gli interessi che le motivano, le azioni che ne conseguono organizzano il territorio e ne modellano le morfologie fisiche e sociali.”  Il Territorio Come Infrastruttura Di Contesto. Contributi Alla Programmazione 2007-2013. Ministero delle Infrastrutture Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento dello sviluppo del territorio, per il personale ed i servizi generali, Roma, febbraio 2007.

11 Il programma Porti e Stazioni operava sul rafforzamento dell’attrattività dei nodi costieri (22 città caratterizzate dalla compresenza di Autorità portuali e di stazioni ferroviarie) candidabili, in una logica di sistema, a divenire approdi delle autostrade del mare e, come tali a fungere da cerniere con le reti infrastrutturali e con gli hub aeroportuali.

12 Il programma Sviluppo Integrato Sistemi Territoriali Multi Azione (erano stati individuati 21 sistemi territoriali definiti “contesti bersaglio”) era finalizzato alla promozione di progetti a carattere innovativo capaci di coniugare lo sviluppo locale con il rafforzamento del sistema urbano policentrico, attraverso la sinergia tra grandi reti infrastrutturali e sistemi territoriali (o reti di città)che appaiono più direttamente candidati o candidabili a cogliere le esternalità derivanti dal potenziamento infrastrutturale delle grandi reti e a farsi propulsori di sviluppo locale.

13 Articolo 81, comma primo, del dPR 24 luglio 1977,n. 616

14 Articolo 52, comma 1, decreto legislativo 31 marzo 1998, n.112

15Questo per un motivo tanto ovvio quanto drammatico: l’UE e, prime fra tutte, le sue regioni più sviluppate – e quindi più attrattive – sono oggetto di una persistente e crescente pressione esercitata dalle povertà presenti nei Paesi del Sud del mondo, di cui il sud del Mediterraneo costituisce l’avamposto e la testa di ponte della speranza. In questo contesto l’Italia rappresenta certamente uno dei Paesi più direttamente esposti in quanto, per l a sua prossimità, costituisce uno dei luoghi eletti a primo approdo dagli incoercibili tentativi di quelle popolazioni di accedere a condizioni di vite più umane.
Si tratta di un fenomeno epocale  di tali dimensioni che appare del tutto miope pensare di affrontarlo e risolverlo con mezzi di contrasto puramente ostativi”. Infrastrutture – DPEF 2008-2012, Ministero delle Infrastrutture, Roma. 28 giugno 2007.

16 Conferenza informale dei Ministri sulla coesione territoriale e le politiche urbane, Rotterdam, 29-30 novembre 2004.

17 Come ipotesi di lavoro, fu configurata un’articolazione delle piattaforme territoriali su tre livelli: le Piattaforme transnazionali (6), attestate sui  corridoi transeuropei, che rappresentavano gli spazi di saldatura dell’Italia al sistema europeo; le Piattaforme nazionali (4, individuate sulle trasversali Tirreno-Adriatico, che rappresentavano gli spazi di rafforzamento delle connessioni tra Corridoi transeuropei, nodi portuali e armatura territoriale di livello nazionale; le Piattaforme interregionali (6), che integrano e completano le piattaforme nazionali, a sostegno dello sviluppo policentrico per il riequilibrio territoriale. Alla loro identificazione, insieme ai programmi operativi sperimentali promossi dal Ministero, avevano concorso i tracciati dei Corridoi e quelli delle Autostrade del Mare, gli ambiti d’intervento del PON Trasporti, le reti di INTERREG, le analisi di ESPON, la mappatura dei distretti produttivi italiani e un’analisi quantitativa sui fattori di competitività e di attrattività. Su queste basi, una “piattaforma” diventava il luogo di politiche d’intervento finalizzate al potenziamento e all’integrazione delle componenti infrastrutturali e di servizio dell’insieme delle modalità trasportistiche, allo sviluppo di servizi logistici e terziari avanzati, alla specializzazione e distrettualizzazione delle aree produttive legate ai terminali di trasporto e ai nodi di scambio intermodali.  

18 In alcune sedi, si pensava di trasferire l’itinerario del Corridoio V al di sopra delle Alpi, abbandonando il collegamento Torino-Lione - su cui da anni stava lavorando la Commissione intergovernativa italo-francese - e la sua localizzazione lungo tutta la pianura Padana, fino a Venezia  e a Trieste per terminare a Kiev, parallelo a quello franco-tedesco dell’Europa centrale.

19 Nel 1995 a Barcellona, nell’ambito di un processo di rafforzamento, avviato dall’Unione Europea con i Paesi del bacino mediterraneo, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’UE e quelli di Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità palestinese, hanno sottoscritto un documento comune che dava inizio al nuovo partenariato euro-mediterraneo, nell’ambito del quale il programma MEDA, avviato nel 1995, costituiva il principale strumento di supporto finanziario.

20 Infrastrutture - DPEF 2008-2012, Ministero delle infrastrutture, 28 giugno 2007

21 Networks for Peace and Devolopment. Extension of the major trans-European transport axes to the neighbouring countries and regions, European Commission, Report from the High Level Group chaired by Loyola de Palacio, November 2005

22Essere mediterraneo vuol dire avere una visione del mondo e dell’uomo. […] Viaggiando in Asia ho sentito l’assenza crudele del Mediterraneo, il bisogno di quella fratellanza. Una grande opportunità per i politici, che sfortunatamente l’hanno trascurata: oggi questo mare è diventato un cimitero, mentre sarebbe necessario scommettere sul Mediterraneo”. Lara Crinò (a cura di), Tahar Ben Jelloun E’ tempo di tornare alla poesia, la Repubblica, Roma, 11 aprile 2021.

23 “Il grande gioco nel Mediterraneo orientale è una sfida invisibile, una partita che può decidere il futuro di tre continenti. Ogni mossa condiziona il controllo di giacimenti petroliferi colossali, scoperti sotto il mare e ancora da sfruttare. […] in queste acque turbolente si è aggressivamente fatta spazio la flotta turca: Israele, Egitto e Grecia hanno risposto con una inedita alleanza rivolta alla Francia, mentre i russi sono sempre più attivi dalle basi siriane. Ma c’è un’altra potenza che da tempo cerca un pretesto per installarsi nel Mediterraneo: la Cina. […] Lì “l’interesse nazionale” non è teorico: i giacimenti contesi dalla Turchia al largo di Cipro sono in parte assegnati all’Eni e la società statale ha ottenuto l’esplorazione di altri campi di idrocarburi nella stessa area”. Gianluca Di Feo, Le manovre italiane riescono a bloccare le mire della Cina nel Mediterraneo, la Repubblica, 13 marzo 2021.

24 Tra il 2016 e il 2019, sono entrati in rete 726 milioni di nuovi cittadini, soprattutto in Cina, India e Africa.

25 Così l’Africa aiuterà l’Europa, Marco Minniti, la Repubblica, Roma, 8 aprile 202

26 Next Generation EU è uno strumento temporaneo per la ripresa da 750 miliardi di euro, che contribuirà a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus per creare un'Europa post COVID-19 più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future. Nota Commissione Europea.

27 Il Piano “segna il passaggio della UE a una età adulta”,  Bruno Le Maire, ministro dell’Economia francese, Il Sole 24 ore, 28 aprile 2021. “Questa decisione, presa da tutti gli Stati membri, è un’importante pietra miliare dell’integrazione europea. E’ una conquista straordinaria perché dimostra che l’Unione Europea è in grado di agire unita”, Olaf Scholz, ministro delle Finanze tedesco, Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2021. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza “segna un cambiamento epocale per la U”E. In gioco c’è “il destino del paese, la misura di quello che sarà il suo ruolo nella comunità internazionale, la sua credibilità e reputazione come fondatore dell’Unione Europea e protagonista del mondo occidentale”. Mario Draghi, Presidente del Consiglio italiano, Comunicazioni del Presidente del Consiglio, 26-27 aprile 2021.

28 La spinta al movimento ce la portiamo nella memoria e nel cuore, abbiamo sempre percorso le strade del mondo in cerca di una terra promessa o di un mondo migliore. Il movimento è nel Dna. Non a caso la nostra eredità culturale è fatta di esodi e di diaspore, epopee e odissee. Le stesse religioni sono una sacralizzazione del movimento. Siddharta vaga senza sosta per sei anni prima di diventare il Buddha. L’Islam sincronizza l’orologio della storia a partire dall’Egira, la migrazione di Maometto dalla Mecca a Medina. L’Antico Testamento ha il suo focus narrativo nel Libro dell’Esodo. E il Vangelo è il resoconto della lunga itineranza di Gesù che arriva ovunque come uno straniero in cerca di accoglienza. Se ea differenze di reddito fossero la sola causa dei fenomeni migratori allora tutta l’Africa sarebbe già in Europa”. Rimettiamoci in cammino,Marino Niola, Robinson (la Repubblica), 19 giugno 2021, articoloscritto a commento di “Torneremo a percorrere le strade del mondo”, Stefano Allievi, Utet, 15 giugno 2021.

29 Un pagamento (inizialmente voluto e confermato ora dalla Germania) pagato alla Turchia per il controllo della rotta balcanica (una sorta di pedaggio ombra quale rimborso del mancato “traffico” – il flusso di migranti – bloccato prima di arrivare alle frontiere europee), che, vista la presenza in Libia,  potrebbe fra breve essere preteso anche per il flusso proveniente da quell’area.

30 Nel documento finale si specifica, tra l’altro, anche l’obiettivo delle partnership e della cooperazione con i Paesi di origine e transito finalizzata a “sostenere i rifugiati e gli sfollati nella regione, sviluppare capacità di gestione della migrazione, sradicare il traffico di esseri umani, rafforzare il controllo delle frontiere, cooperare in materia di ricerca e soccorso, affrontare la migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali, e garantire il rimpatrio e la riammissione”, Soldi al Nord Africa. La Ue sceglie di pagare per fermare i migranti, Ma. Con., il Mattino, 25 giugno, 2021

31 Le chiavi del Mar Rosso, Lucio Caracciolo, la Repubblica, 25 giugno 2021

32 “Vaste programme…” pare sia stata l’imperturbabile risposta del Generale De Gaulle a un contestatore che, nel corso di un suo comizio, abbia gridato “Mort aux cons!” (Morte ai cretini!). Da allora l’espressione è utilizzata per ridicolizzare progetti pretenziosi o utopistici. Non è questo il caso!.  

33 “Le raccomandazioni specifiche per paese”, pubblicate ogni anno in primavera dalla Commissione UE, forniscono orientamenti su misura ai singoli Stati membri su come stimolare l'occupazione, la crescita e gli investimenti, mantenendo nel contempo la solidità delle finanze pubbliche.

34 Federico Fubini, il Corriere della sera, 9 maggio, 2021

35 Cosa pensiamo del Piano inviato all’UE e “Che fare ora”?,  Forum Disuguaglianze Diversità, Roma, 11 maggio 2021.

36 Un Progetto di Sistema per il Sud in Italia e per l’Italia in Europa, SVIMEZ, Roma, Aprile 2021.

37 Adriano Giannola, Presidente Svimez, Il Mattino, 26 aprile 2021.

38 Fabrizio Galimberti, Quotidiano del Sud, 28 aprile2021.

39 Un Progetto di….cit.







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