I
Questo numero di EWT è dedicato al Mediterraneo. Trae spunto da “Le Vie del Mediterraneo” una ricerca da me coordinata per il Centro Linceo Interdisciplinare dell’Accademia dei Lincei. La ricerca prevede la creazione di un atlante interdisciplinare aperto e potenzialmente infinito sulle Vie del Mediterraneo (MW-MedWays). Un Atlante di narrazioni piuttosto che descrizioni. La rete è piena di descrizioni e il Mediterraneo è il luogo delle narrazioni. L'Atlante è progettato per più autori di diverse discipline. Le Vie del Mediterraneo sono quei sistemi di relazioni fisiche o immateriali che in qualche modo lasciano traccia nel paesaggio. La ricerca intende metterli sotto osservazione attraverso dispositivi narrativi che ne colgano il senso. Le narrazioni possono essere vere, elaborare il falso o il verosimile, ma sicuramente esplorano il senso, la natura e appunto il mito del Mediterraneo. Con l’evidenza di questi racconti che definiscono paesaggi la ricerca ha l’obiettivo generale di mitigare il rischio della loro cancellazione. Inoltre, si vuole capire perché un posto del mondo dove tutto sembra essere arrangiato, dove la gestione del Pubblico è spesso affidata a fatti casuali e a contatti interpersonali, dove apparentemente nulla funziona bene, dove da sempre si vivono conflitti tremendi è il luogo più desiderato per vivere un viaggio, una stagione o anche la vita. In altri termini, qual è il senso nascosto del Mediterraneo che produce un’irresistibile attrazione e sviluppa immaginari di bellezza e felicità? La ricerca intende realizzare un’impresa scientifica corale a più voci coordinate e autonome. Ognuno sviluppa il suo racconto, la sua pagina dell’Atlante. Ognuno con la propria narrativa (un testo, una serie di immagini, un progetto, un'installazione ...) può raccontare, definire e migliorare l'Open Atlas di MW come un sistema di relazioni fisiche o immateriali che definiscono un modo di essere o un’idea del Mediterraneo. Come nell’Odissea (forse il primo Atlante delle Vie del Mediterraneo) lo studio è una raccolta di significati, di paesaggi e di fatti sociali che esplorano il significato del Mare di Mezzo. Lo scopo dell'Atlante infine è riconoscere e mantenere vive le Vie del Mediterraneo (nel doppio senso di percorsi e di modi di fare) e di rinforzarne il significato come infrastrutture lente o non materiali che danno senso agli habitat e agli stili di vita mediterranei.
Il taglio che, con Alberto Clementi e Pepe Barbieri, abbiamo pensato di dare al numero della rivista è quello di presentare due visioni trans-scalari del Mediterraneo. La prima, più di carattere geopolitico, corrisponde a un’idea di Mediterraneo come teatro di conflitti, di flussi sociali, economici e culturali in grado di condizionare il presente e i destini dei Paesi che su questo bacino affacciano non solo. Si potrebbe dire Mediterraneo come incubatore di futuri (Herman Sörgel docet) se il futuro fosse ancora una categoria utile a descrivere le attese e le tendenze delle popolazioni che lo abitano? L’altra visione, che forse più direttamente riguarda i contributi della ricerca, è tesa alla definizione di un'idea del progetto di cambiamento dello spazio fisico che consideri l’esistente come materiale da costruzione e il Mediterraneo come manuale. Nel Mediterraneo i temi dell’abitare sono da sempre quelli della mitigazione e dell'adattamento al clima, della flessibilità e della fruibilità degli spazi sociali, della centralità del paesaggio, dello spazio solido come palinsesto narrativo, solo per citarne alcuni. In questo senso il Mediterraneo è un manuale di situazioni, di immaginari e se vogliamo di progetti ecologici intendendo per ecologia la scienza che ha per oggetto lo studio delle funzioni di relazione tra l'uomo, gli organismi vegetali e animali e l'ambiente in cui vivono,che trova nel paesaggio la sua rappresentazione ideale.
II
Il paesaggio è il principale dispositivo cognitivo per le discipline del progetto. Il sistema di conoscenza del Paesaggio – basato sulla totalità e sulla mobilità del soggetto, oltre che sulla sua indissolubilità rispetto all’oggetto – è l’unico che soddisfa le condizioni epistemologiche che il nostro tempo richiede. Se si vuol capire come funziona il mondo materiale bisogna partire dal Paesaggio. È il solo contesto possibile per i progetti dello spazio fisico. Sostituisce l’idea moderna di territorio. Nel Paesaggio, come nella Rete, non ha senso la proiezione della realtà su un piano orizzontale con un’unica misura metrica lineare e con un’idea cronologica del tempo che passa. Il Paesaggio come la Rete è rotondo. Tiene insieme l’innovazione, l’azione sociale e la narrazione. Come la Rete il Paesaggio è definito dalla molteplicità degli sguardi e delle azioni. La natura e le tracce apparentemente casuali del presente e delle epoche precedenti si fondono in un tempo lento denso di significati e persone che continuamente lo reinterpretano inventando Paesaggi. Sentiamo la necessità di imparare dal Paesaggio come unico contesto olistico per i nostri progetti, come punto di vista sul domani.
Il Mediterraneo è un palinsesto di Landscape Exaptation1 o, in altri termini, di paesaggi che si adattano alle nuove condizioni del vivere e continuamente sublimano in nuovi paesaggi. Esprimono una capacità di resilienza metabolica che, se non viene soffocata dalla pressione insediativa turistica, spesso incrementa il loro valore invece di deprimerlo. Paesaggi che continuamente si trasformano e producono bellezza, felicità e senso di appartenenza attraverso la stratificazione e l’intreccio dei racconti, delle prestazioni ambientali e delle azioni sociali. Se il paesaggio – come scrive Alexander von Humboldt nel secondo volume del Cosmos (Berlino,1847) – è il riflesso del mondo esterno sulla forza di immaginazione, il Mediterraneo è una grande infrastruttura di paesaggio che tiene insieme il passato e gli immaginari delle popolazioni che lo abitano o lo attraversano, come figure incise e ancora operanti nella dimensione continua del tempo presente. Nel Mediterraneo il paesaggio presenta continuamente caratteri determinati funzioni o fatti insediativi particolari che evolvono in condizioni nuove e indipendenti dalle primitive che pure continuano a generare paesaggio come forma di cultura insediativa antropica che si radica nel contesto naturale e lo valorizza. In questo consiste la capacità di esattazione del paesaggio che il Mediterraneo da sempre esalta.
III
Al suo interno le isole rappresentano la condizione più favorevole per intercettare e per misurare la mutazione di contesti che è significativo mettere sotto osservazione. Lo stesso termine Mediterraneo, che significa mare tra le terre, in qualche modo le prevede. In modo reciproco, come nota Silvia Mannocci nella sua ricerca per MedWays, il termine Arcipelago che rappresenta un gruppo di isole probabilmente deriva da un'alterazione di Αἰγαῖον πέλαγος, aigàion pèlagos, ossia Mar Egeo in greco antico e poi divenuto αρχιπέλαγος, arkhipélagos, in italiano arcipelago. L’Egeo ha quasi 6.000 isole e nella terminologia greca il Mediterraneo era un mare di isole, non una massa d’acqua che separa i popoli, ma un mare abitato. E i romani lo chiamavano Mare Nostrum come a determinarne il ruolo politico sullo scacchiere internazionale.
Ci sono due libri importanti per capire come le isole siano in realtà un dispositivo essenziale di conoscenza e di progetto nel Mediterraneo.
Il primo, per alcuni versi sorprendente, è Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò,di Judith Schalansky (Bompiani, Milano, 2013) e inizia così: Il paradiso è un’Isola. Così è l'inferno. Ci possono essere posti sulla terra che sono ancora sconosciuti e siamo affascinati dall'idea della scoperta. Con questo atlante, Judith Schalansky ci fa viaggiare in cinquanta isole remote, lontane da tutto e da tutti e ci racconta storie misteriose che dimostrano che i viaggi più avventurosi avvengono sempre nell'immaginazione, e con una struttura narrativa forte ci porta in posti familiari ed esotici disegnando al tempo stesso la mappa della loro crisi.
Stefania Staniscia in Islands (List, Bacellona, 2012), ci suggerisce invece di usare l’isola come epitome del paesaggio e dell’ambiente del Mediterraneo. Le isole sono un dispositivo in grado di farci capire la natura delle profonde mutazioni che lo investono. La Staniscia ci spiega attraverso tre metafore organiche come nel Mediterraneo le isole possono essere considerate gli HACCP (Hazard Analysis Critical Control Points), i punti critici di controllo delle trasformazioni del paesaggio e della città, forse l’unico presidio utile per valutare i rischi del cambiamento e anticipare il domani.
La prima metafora è quella del frammento. “Frammento nella lingua italiana significa un piccolo pezzo, staccato per frattura da un corpo qualunque. E con ciò esso esprime una speranza, ancora una speranza, e come tale non conviene con rottame, che esprime una moltitudine o un aggregato di cose rotte. In questa dizione, rottame potrebbe essere il corpo della città futura se le cose non dovessero cambiare e sempre più fosse accettato il disordine e poco meditata la previsione del futuro. (...) Per questo credo anche nella città futura come quella dove si ricompongono i frammenti di qualcosa di rotto dall'origine2”. Possiamo leggere ciascuna delle isole del Mediterraneo come un frammento dell’Europa. Ognuna di esse rivela una catastrofe e accende una speranza.
La seconda metafora è quella del campione. Le isole sono come campioni dell’analista biochimico. In esse si manifestano gli stessi processi di mutazione che stanno cambiando la natura e la forma degli insediamenti sul continente. La crescita dell’accessibilità e lo sviluppo delle reti di trasporto e di comunicazione che stanno provocando un’accelerazione improvvisa nei processi di mutamento della scena urbana. La nuova dimensione dei paesaggi fisici, economici e sociali che mette in crisi il concetto di territorio come spazio misurabile e anche la stessa visione del paesaggio come quadro o unità. Le città che tendono a perdere una precisa connotazione fisica e diventano sempre più campi di relazioni. La relativa indifferenza al territorio per muoversi e comunicare. Il bisogno crescente di conservare paesaggi per riconoscersi e identificarsi. Così come anche il bisogno di distanziamento e l’idea di sviluppo come transizione ecologica sono questioni che cambiano in maniera decisiva il modo di pensare il futuro e le sue forme. Sono spinte alla trasformazione che trovano campo nelle isole come in terraferma. Solo che nelle isole è diverso. Tutte le tensioni vengono esasperate dalla pressione antropica e circoscritte dal mare e possiamo misurare il cambiamento con numeri certi all’interno di un confine certo. Le isole sono campioni, parti isolabili per studiare il cambiamento dei tessuti insediativi.
La terza metafora è quella darwiniana della fabbrica del futuro. Si tratta di un approccio narrativo: geografico, paesaggistico e sociale al tempo stesso. Le isole sono un formidabile pretesto per parlare di noi, del nostro modo di abitare e di come tendiamo a distruggere le risorse paesaggistiche primarie sulle quali abbiamo fondato i paradigmi dello sviluppo urbano, economico e sociale.
IV
Il paesaggio di ogni isola racconta del Mediterraneo, ma questi quattro esempi tra i molti altri possibili fissano luoghi che possono servire a spiegare meglio come certi modi di fare o di essere delle popolazioni del Mediterraneo generano processi che lasciano tracce nel paesaggio come presidi narrativi e incubatori di immaginari.
1. Patmos, o delle religioni e delle civiltà
Patmos è l’Isola più a nord del Dodecaneso o la più bassa delle Sporadi settentrionali a seconda delle letture. La sua forma è quella di tre isole unite in una sola da due istmi. Dalle sue baie introverse si vede quasi sempre la Chora (la città alta) con il Monastero. Nel 95 a.c. San Giovanni Apostolo fu esiliato sull’isola dall’imperatore Domiziano. A Patmos Giovanni scrisse l’Apocalisse e cominciò a battezzare nella piccola baia sotto la grotta dove viveva e dove Gesù gli appariva. Per tutto questo, Cristodulo, un monaco guerriero, intorno all’anno Mille costruì il Monastero in forma di fortezza in cima al monte e proclamò l’isola secondo luogo sacro della Grecia dopo il monte Athos, ma aperto alle donne. Cristodulo raccolse nel monastero un grande biblioteca, seconda solo a quella di Alessandria d’Egitto. Da allora e fino al 1800 intorno al Monastero si è formata una città (Chora) di cinta, come quella che Umberto Eco descrive nel Nome della Rosa, fatta di residenze nobili dei mercanti veneziani, turchi, greci, arabi che importavano merce dall’Asia nel nord del Mediterraneo e portavano a Patmos la loro cultura e la loro casa di famiglia per la sua posizione, per la sicurezza dei suoi ripari marini e per la relativa inattaccabilità dell’Isola sacra. Il Monastero è un landmark visibile dalle isole intorno e dalla Turchia. A Chora nella piazza del Municipio c’è un modesto ma importante apparato simbolico con la statua dell’eroe di guerra al centro della piazza e su un lato le bandiere della Grecia, dell’Unesco e dell’Arcivescovo di Costantinopoli, che sono i tre Enti che hanno giurisdizione territoriale sull’isola. La cosa strana sono le tre panchine per sedersi che ignorano tutto questo apparato simbolico istituzionale e guardano il mare Egeo e l’arcipelago fino alle coste turche come in una carta geografica ogni giorno diversa -per la luce, la trasparenza e i colori- che si distende ai piedi della Chora di Patmos e attira magneticamente lo sguardo. Al Mediterraneo, a questa vista, non si resiste. Anche le sedute dello spazio pubblico devono girarsi e dare le spalle alla scena istituzionale. A Patmos il paesaggio è definito dall’importanza, dal controllo e dall’incontro dei flussi religiosi e commerciali su quella parte del Mediterraneo. Ora la Chora è un posto denso dei significati profondi che restituiscono il senso del mare di mezzo. La città fisica si è fermata all’800. Un borgo mediterraneo perfetto con panorami suntuosi dove l’immaginario si libera nella geografia dell’arcipelago, che pur rischia di perdersi sotto una pressione turistica sempre più insidiosa.
2. Ponza, o del confino.
Nell’arcipelago Pontino poco a sud di Roma, dall’epoca romana ai Borboni Ponza è sempre stata un’isola di confino e di villeggiatura. L’arrivo dalla terra ferma è fantastico. La prima cosa che si vede è il cimitero sulla collina.
Come in un’altra Delfi le cappelle sono tempietti disposti senza ordine apparente e poi il porto è un teorema di esattezza dello spazio urbano, perché le tombe dialogano con l’infinito mentre nella città lo spazio organizza la vita comune e il lavoro. Nel 1768 il comandante Antonio Winspeare ingegnere del Genio Borbonico, con l’architetto Francesco Carpi, realizza (non senza influenze vanvitelliane) la struttura del Porto su due livelli con banchine e magazzini sull’acqua e sopra la passeggiata la piazza e gli altri elementi di uno spazio pubblico tanto adatto all’uso portuale quanto piacevole per stare a guardare il mare. A est del porto nella baia del Frontone la traccia dello scavo di una ex cava romana è oggi l’impronta emblematica della stratificazione del tempo sul paesaggio dell’isola, ma anche è una bellissima piscina “naturale” dove si può fare il bagno in acqua più calda prima -o al posto- di tuffarsi in mare. Anche qui il paesaggio è un frattale dell’isola che è frattale del Mare di mezzo.
3. Amorgos, o del Mediterraneo Madre.
Le Grand Bleu è un film del 1968 diretto da Luc Besson. Racconta di un’amicizia nel tempo e del mare. È una metafora del Mediterraneo/Madre che, come un liquido amniotico profondo e rassicurante, può generare, accompagnare e riprendersi la vita. Amorgos, nelle Cicladi in Grecia, è l’isola del Grand Bleu. Il film è stato girato lì nel mare di fronte al monastero di Panagia Hozoviotissa, il secondo più antico della Grecia, del 1088. La narrazione è che l’edificio fu costruito in onore della Vergine Maria, la cui icona sacra dell’812, salvata dalla distruzione durante la guerra delle icone, arrivò fino a qui dalla Palestina a bordo di una barca con alcuni monaci. L’imperatore Alessio I da Costantinopoli ordinò la costruzione del Monastero nella roccia antistante al punto dove fu ritrovata. Il Monastero è fatto della sola parete bianca che chiude una concavità della roccia su una verticale di 300 metri a picco sul mare. La costruzione è alta 40 metri e larga solo 5, e si sviluppa su 8 piani. In alcuni punti l’edificio è largo solo mezzo metro. Da più di mille anni è così in una perfetta miscela di paesaggio tra natura e lavoro dell’uomo. Dal basso l’edificio appare come un landmark di un bianco abbagliante sulla roccia. Da sopra il Monastero offre una vista mozzafiato sul mare Egeo e sulla baia del Grand Bleu. È così dal 1200 circa e il mare davanti è veramente così blu da non crederci anche quando ci si nuota dentro. La distanza tra la baia e il Monastero non esiste. Non sono i 300 metri di roccia a picco. È un frammento unico che comprime il tempo e lo spazio nella dimensione assoluta del paesaggio del Mediterraneo madre e culla dei nostri sogni3.
4. Favignana, o della fabbrica di paesaggio.
Favignana è un’archeologia, una fabbrica di paesaggio. La sua natura originaria, se mai fosse rintracciabile, oggi non esiste più. È un blocco di calcarenite scavato dagli uomini nel tempo. Le cave oggi dismesse creano una morfologia incredibile del vuoto che, da terra, rende l’arrivo al mare avventuroso. Si procede attraverso strati di scavo, pericolosamente. I tagli della parete del Bue Marino, dove si caricavano le navi con le pietre dagli scivoli incisi nella roccia, hanno proporzioni maestose, c’è qualcosa che ricorda le rovine di Luxor. Fino a pochi anni fa, a Favignana, la pietra si scavava a mano con la tecnica imparata dagli arabi. La stessa che usavano gli egiziani. I tagli hanno sempre le stesse misure. Questo è il Mediterraneo. E sempre a mano, con gli arpioni e sempre come facevano gli arabi, a Favignana si cacciavano i tonni nella tonnara. Secondo i biologi del mare era una pesca sana. Nelle reti venivano catturati solo gli esemplari più grandi e più anziani. Gli altri potevano scappare per riprodursi più a oriente. Il dissanguamento purificava l’animale che poi veniva cotto e inscatolato nell’edificio della tonnara dei Florio, che avevano inventato questo sistema di conservazione e lo vendevano in tutto il mondo. Oggi la fabbrica Florio è un museo di sé stessa e dell’archeologia delle Egadi. Ma tutta l’isola è il museo a cielo aperto della fatica che produceva lavoro e tonni e pietre che venivano esportate dovunque. Tutto questo lavoro è oggi un paesaggio che porta scolpiti i valori, la fatica e la capacità di creare relazioni con il mondo della popolazione che lo abita. Nel mare di Favignana sembra di sentire ancora da lontano i martelli che battono sulla pietra, l’urlo dei tonni e i colpi dei rostri romani (tantissimi intarsiati conservati nella tonnara) che squarciarono le navi Cartaginesi (241 a.c.). Da quel giorno e da quella battaglia vinta nella Prima Guerra Punica per i Romani il Mediterraneo diventò Mare Nostrum.
Il Mediterraneo non è solo il luogo delle biodiversità marine, delle migrazioni e dei conflitti che da sempre lo attraversano, delle civiltà e delle religioni, dei mercanti e degli scambi, dei miti, e dell’heritage. Il Mediterraneo è tutto questo insieme, è il mare principale, l’arkhi-pélagos, dove possiamo ritrovare le nostre appartenenze e sviluppare nuovi immaginari di bellezza e di felicità che non conoscono la monotonia di uno spazio senza isole4.
Note
1 Cfr. Gould, S.J., Vrba, E. (2008). Exaptation, il bricolage dell’evoluzione. Incipit, Bollati e Boringhieri, Torino, IT:
2 Rossi, A. (1987). “Frammenti”, in Ferlenga, A., (a cura di), Architetture 1959 - 1987, Electa, Milano, IT.
3 Cfr. Rumiz, P., (2021). “Madre Nostra che sei nel Mediterraneo”, in Robinson, La Repubblica, n.241, 17 luglio, 2021.
4 Cfr. Rumiz, P., op. cit.