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Mediterraneo
Editoriale. Mediterraneo. Macrocosmi locali nel globale
Alberto ClementiPDF




Il tema

Il Mediterraneo continua tuttora ad esercitare un ruolo culturale, politico ed economico quanto mai importante. Sempre all’ordine del giorno per le numerose criticità che lo affollano costringendo i Paesi europei a politiche soprattutto difensive, questo mare sembra purtroppo aver dimenticato da tempo la grande lezione braudeliana di uno spazio-crocevia dove “le città si tendono la mano”. Eppure, qui, forse ancor più che all’interno dei singoli Paesi, le città possono diventare ancora determinanti per rilanciare una prospettiva di sviluppo sostenibile e inclusivo che andrebbe a vantaggio di tutti, opponendosi in modo propositivo alle derive di conflitti e di tensioni che hanno fatto diventare sempre più questo mare un enorme problema per la sicurezza piuttosto che una risorsa preziosa per lo sviluppo.
Possono aiutare tuttavia le trasformazioni epocali attualmente in corso nell’economia e nella società, che permettono in particolare di contare su una possibile “regionalizzazione della globalizzazione” dalla quale potrebbero emergere due o forse tre macroregioni transfrontaliere di interdipendenze economiche e funzionali tra l’Italia (e quindi l’Unione europea) e le sponde nordafricane, balcaniche e mediorientali. I maggiori protagonisti di questa augurabile formazione dal basso di legami di scambio economico, sociale e culturale potrebbero diventare alcune città costiere, intese come nodi di ancoraggio dello sviluppo e attivatori di “piattaforme” di snodo in grado di coinvolgere anche i territori del loro retroterra, recuperando così vocazioni di lunga durata della storia e della geografia. Sono vocazioni che potrebbero utilmente essere rianimate nei nostri giorni, pur in presenza di conflitti vecchi e nuovi che rischiano di portare a spaccature sempre più profonde dentro il mondo mediterraneo, finora sostanzialmente negletto dall’Europa.
In questo contesto così incerto e turbolento il progetto urbano insieme al progetto di infrastrutture assistito da capitali pubblici e privati può diventare un prezioso strumento d’intervento, da rilanciare in una prospettiva sovralocale attivando un opportuno partenariato tra alcuni attori dello sviluppo in campo nei diversi Paesi. Si pensi ad esempio alle grandi possibilità offerte dal Green Deal europeo, e in particolare alla fecondità dell’idea di far diventare un centinaio di città carbon free per il prossimo ventennio, la quale potrebbe essere estesa e adattata anche ai Paesi rivieraschi. Oppure, ancora meglio, una politica lungimirante mirata a generare opportunità di lavoro sostenibile con finanziamenti comunitari non solo dentro le Zone speciali previste nei singoli Paesi europei in una logica introversa, ma anche nei Paesi circostanti, sfruttando al meglio l’ancoraggio delle molteplici reti (logistiche, energetiche, telematiche, formative e di ricerca) che stanno dispiegandosi sopra e sotto il mare, purtroppo senza un programma d’insieme che ne finalizzi la funzione anche rispetto ai territori attraversati.
EWT 23 intende esplorare questi temi, in una prospettiva non solo conoscitiva ma anche mirata a sondare la praticabilità di una strategia di progetti urbani green e partenariali come chiave di volta per un rilancio mirato dello sviluppo sostenibile con ricadute positive per l’intero quadrante centrale mediterraneo.

Mediterraneo: di cosa parliamo

Ma che cosa intendiamo esattamente per Mediterraneo? Come ha osservato Predag Matvejevich nelle sue lezioni sul Mediterraneo pubblicate da Fayard (La Méditerranée et l’Europe, Paris, 2005), non si tratta di un paesaggio, ma di innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma una successione di mari. Non una civilizzazione, ma un insieme di civilizzazioni ammucchiate confusamente le une sulle altre. Noi siamo portati in effetti a percepire il Mediterraneo a partire dal suo passato, ma così tendiamo a confondere la rappresentazione con la realtà di questo spazio fin troppo ricco di storia. In verità l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale raramente s’identificano. “Qui, come altrove una identità dell’essere, difficile da definire, eclissa o respinge una identità del fare, mal determinata. La retrospettiva continua a prevalere sulla prospettiva. La stessa riflessione rimane prigioniera degli stereotipi”.
Del resto, perfino la nozione d’insieme è altamente problematica, a causa dei numerosi conflitti che attraversano un mare sempre più conteso e che da qualche tempo rinviano anche ad un inedito scontro interno all’islam sunnita: Palestina, Libano, Cipro, Libia, Tunisia, Algeria, e poi i Balcani, come terreno di scontro di opposte visioni per il futuro. Qui le divergenze sembrano prevalere sulle convergenze, almeno fin dal remoto passato in cui la cattolicità latina si è scontrata con l’ortodossia bizantina ed entrambe sono finite sotto assedio da parte dell’islam, dovendo fare oggi i conti di una insidiosa contrapposizione tra la Turchia di Erdogan e l’Arabia Saudita di Salman.
Viene in effetti da chiedersi se esiste davvero il Mediterraneo al di fuori della nostra immaginazione. Eppure, ci rendiamo conto che -anche in presenza di processi di frantumazione geopolitica sempre più accentuati-, “esistono modi di vivere che sono comuni o molto vicini, malgrado le scissioni e i conflitti”. Dunque c’è qualcosa di più profondo che resiste e avvalora la operabilità di questa nozione, anche se i suoi significati continuano a mutare nel tempo e oggi sono assai diversi dal passato.
Va peraltro considerato che ogni volta che si è tentato di elaborare una cultura inter-mediterranea alternativa o anche semplicemente più condivisa, non si è mai riusciti a raggiungere risultati apprezzabili. Il fatto è che il Mediterraneo non si lascia circoscrivere in una propria rappresentazione d’insieme, poiché la sua immagine rinvia sostanzialmente alla memoria piuttosto che alle condizioni del presente.

Una visione potenziale

Tuttavia, non ci si deve scoraggiare. Le tensioni e i conflitti permangono, anche se sembrano riemergere in forma diversa rispetto alla lunga parentesi della guerra fredda in cui il Mediterraneo era diventato un teatro di scontro tra gli USA e i suoi nemici. Oggi i conflitti sembrano moltiplicarsi e anzi inasprirsi con l’ingresso minaccioso nel Mediterraneo di potenze finora esterne come la Turchia e la Russia, con il crescere delle tensioni all’interno al mondo arabo destabilizzato dallo scoppio delle Primavere arabe nel 2011 e dalla infelice guerra irachena, e perfino per la presenza sempre più attiva della Cina, che qui cerca un possibile ponte tra i due rami della Belt and Road Initiative, Nuove Vie della Seta, lanciata nel 2013. Eppure, anche in questo contesto così confuso e preoccupante sembra ancora possibile fare appello a una visione meno pessimistica dello scenario per il futuro, soprattutto se l’Unione europea decide finalmente di assumere un ruolo più convinto e se le condizioni generali per lo sviluppo evolvono in modo favorevole.
Stiamo infatti assistendo ad un’evoluzione interessante del fenomeno della globalizzazione a diverse velocità conosciuta negli ultimi decenni. Le dinamiche in corso sembrano dare spazio non soltanto alla frammentazione crescente nei due grandi blocchi economici e politici incentrati sugli USA e sulla Cina, ma anche alla formazione di macro-cosmi geografici intesi come aree di nuova globalizzazione regionalizzata, in grado di coniugare positivamente i processi di sviluppo locale con il riarticolarsi delle catene di valore internazionali.  Si tratta per la verità di una tendenza dall’incerto avvenire, che si è manifestata soprattutto a causa delle improvvise interruzioni nelle catene d’interdipendenza sperimentate durante gli anni recenti della pandemia. L’inaffidabilità delle catene vitali di approvvigionamento dei materiali ha condotto a rimettere in discussione l’idea del mondo come catena di montaggio globale, in cui le filiere internazionali sono deputate a integrare in verticale i diversi segmenti dalla produzione alla commercializzazione dei beni e servizi. Adesso invece le catene di valore tendono ad accorciarsi di nuovo, e molte imprese tendono a rientrare nei paesi di appartenenza, rinunciando se necessario alla caccia per i salari più bassi e alla ricerca del contenimento dei costi di produzione in favore di nuovi processi organizzativi digitalizzati e associati alla emergente knowledge economy data-driven.
In questa prospettiva non appare affatto impensabile lavorare sulla formazione di alcune macro-aree di globalizzazione più circoscritta nel Mediterraneo, in grado di interconnettere funzionalmente alcune sponde dei diversi Paesi e i loro territori retrostanti. I presupposti per la verità non sembrano ancora maturi. Non manca certo la disponibilità di forza lavoro a costo contenuto, ma purtroppo non sono ancora garantite le pre-condizioni indispensabili, in primo luogo la sicurezza e  l’affidabilità dei processi produttivi e di commercializzazione dei prodotti, poi l’afflusso di consistenti capitali pubblici e privati, e soprattutto l’apparire di una reale fiducia reciproca tra i diversi Paesi, ciò che consenta insomma di mobilitare il sistema d’imprese consentendo una gestione sufficientemente remunerativa delle filiere in gioco.
Eppure, la nascita di alcune potenziali macro-aree integrate porterebbe vantaggi enormi anche in termini di controllo dei flussi migratori, di allargamento dei mercati di consumo, e perfino di elaborazione di una embrionale cultura inter-mediterranea. Gli esempi attuali che provengono dal settore agroalimentare o dall’allevamento ci dicono che queste tendenze in realtà esisterebbero da tempo, ma sono state distorte e soffocate a vantaggio di un modello di sfruttamento selvaggio praticato da operatori senza scrupoli, i quali beneficiano tra l’altro dell’assenza di patti o accordi cogenti tra le parti in gioco tra i diversi Paesi. Sicché quanto avviene dimostra una volta di più che in assenza di programmi e di espliciti accordi di cooperazione multilaterali finiscono per prevalere le tendenze predatorie del libero mercato, notoriamente incapaci di dare vita a sistemi virtuosi di sviluppo locale.

Reti, Snodi, Piattaforme

Nella nuova prospettiva da noi proposta piuttosto che sulla difficile agibilità delle condizioni politiche si preferisce lavorare sulle determinanti dello sviluppo possibile: in particolare reti infrastrutturali, snodi in cui s’intrecciano tra loro e con il territorio, e piattaforme che connettono tra loro le diverse reti e i territori della produzione e dello scambio. Nel Mediterraneo come è noto già oggi molte reti solcano lo spazio acqueo in superficie o in profondità, ma si attestano a terraferma in modo episodico e senza alcuna preoccupazione di fare sistema, e vengono così meno al loro possibile combinarsi con i territori attraversati generando importanti occasioni di sviluppo. Diventano invece motivo di accese conflittualità locali, come è accaduto ad esempio in Puglia con le controverse opere connesse all’apertura del “South Corridor” imperniato sul gasdotto trans-adriatico TAP, per il gas naturale proveniente dall’area del mar Caspio.
Il Quadro Strategico Nazionale QSN per l’Italia elaborato qualche anno fa dal nostro Ministero delle infrastrutture, richiamato anche dal contributo di Gaetano Fontana in questo EWT, aveva introdotto la nozione innovativa di territori-snodo, considerati come le chiodature funzionali del nostro assetto territoriale nazionale, ovvero come dei grandi hubs intersettoriali e multidimensionali. I territori-snodo erano deputati a commutare i flussi esterni in flussi locali e viceversa, assicurando le connessioni tra i diversi strati di reti materiali e immateriali. Fungevano in questo senso da “poli di intelligenza e innovazione”, offrendo quei valori aggiunti che rendono più attrattivi e propulsivi i territori che ne sono interessati. Si configuravano in definitiva come i nuclei fondamentali di strutturazione delle piattaforme territoriali a valenza strategica, le quali in vario modo declinano le interdipendenze tra reti infrastrutturali e assetti insediativi ai fini dello sviluppo competitivo e coeso del territorio italiano.
In generale i territori-snodo così intesi sono caratterizzati dall’esistenza di attrattori di flusso per la mobilità di persone e merci (come aeroporti, porti, interporti e centri logistici, stazioni ferroviarie, accessi autostradali), combinati variamente con i nodi di attestazione delle reti energetiche e digitali e soprattutto con la presenza di funzioni avanzate, per le innovazioni tecnologiche e scientifiche (parchi tecnologici e centri di ricerca avanzata), per la trasmissione delle conoscenze e la formazione di competenze avanzate (università), per le intermediazioni finanziarie e altri servizi rari alle imprese (strutture di terziario evoluto), per gli apparati della comunicazione (editoria, pubblicistica, produzioni di audiovisivi).
Da ultimo le piattaforme strategiche. Sono lo spazio di compresenza di snodi delle reti più importanti e territori locali che interagiscono tra loro e mettono in gioco le risorse umane, produttive e patrimoniali in grado di fungere da attivatori dello sviluppo sostenibile e innovativo del contesto. In pratica le piattaforme sono da considerare il cuore potenziale della “globalizzazione regionalizzata” a cui si è fatto cenno in precedenza. I distretti industriali, poi diventati distretti insediativi, di cui è ricca l’esperienza italiana possono costituire una esemplificazione alquanto riduttiva e interna al Paese della prospettiva proposta, che mira più complessivamente alla formazione di macrocosmi locali a portata globale.
Insomma, nello scenario da noi adombrato le piattaforme enunciate dal MIT in chiave nazionale ed europea andrebbero riformulate, traguardandole anche verso i territori dell’oltremare. Si favorirebbe in questo modo l’avvio di una politica europea mirata a salvaguardare attivamente le proprie frontiere, incentivando lo sviluppo di legami di interdipendenza economica, sociale e funzionale tra i diversi territori locali che certamente potrebbero contribuire a ridurre le tensioni e i conflitti esistenti tra i diversi Paesi. Con questa strategia lungimirante l’Italia potrebbe in particolare migliorare le proprie condizioni di sicurezza, sempre più minacciate dalla incontrollabile frammentazione geopolitica del Maghreb e del Vicino Oriente.
Va infine considerata attentamente la tendenza crescente a territorializzare anche lo spazio acqueo antistante le coste dei diversi Paesi. Si tratta di una tendenza assai controversa, che genera delicati conflitti laddove viene meno lo status fino ad oggi riconosciuto di acque internazionali. Nel caso comunque venisse alla fine parzialmente accettata, la macro-area dovrebbe investire anche questo spazio, valorizzando le potenzialità complessive di sviluppo messe in gioco dai singoli Paesi. 

Il ruolo delle città di costa

Le città costituiscono l’ancoraggio indispensabile dei territori-snodo e delle piattaforme strategiche, tanto più nel Mediterraneo dove alcune città portuali hanno già svolto questo ruolo nel passato, propiziando l’incontro tra le reti di navigazione e le reti viarie e ferroviarie dell’entroterra, e configurandosi di fatto come cerniere tra reti e territori alle condizioni di sviluppo dettate dalla loro epoca.
Nelle due o tre aree di globalizzazione regionalizzata su cui appare ragionevole lavorare, le principali città costiere esistenti dovrebbero essere poste alla base delle potenziali specializzazioni di filiera. Così non c’è dubbio che le città dell’arco meridionale siculo, da Catania-Siracusa fino a Mazara del vallo e Trapani, possono interagire in modo più stretto con la sponda sud del Mediterraneo, in particolare con la Tunisia e Libia (ad esempio nella fascia costiera da Susa-Sfax fino alla sequenza Tripoli-Misurata-Sirte-Bengasi-Tobruk), considerando inoltre che quest’ultima regione funge da ambito di convergenza delle principali rotte migratorie provenienti dal Sahel, soprattutto dal Niger e dal Mali, e che poi si riversano in Italia e in Europa. Qui le principali filiere economiche -che comunque dovrebbero essere ridefinite direttamente dalle forze imprenditoriali in gioco, d’intesa con le istituzioni del governo locale- potrebbero riguardare in particolare l’energia nelle sue diverse articolazioni dagli idrocarburi tradizionali alle energie alternative, l’agroindustria, la pesca, l’acquacoltura, e il turismo.
Poi c’è la facciata adriatica, che dovrebbe dare luogo ad un’area di “globalizzazione regionalizzata” nella poligonale compresa tra il versante italiano (Ancona, Pescara) e quello croato-albanese (Zara-Spalato-Dubrovnik, e giù fino a Durazzo). Qui il sistema delle PMI la dovrebbe fare da protagonista, con particolare riferimento alle attività enogastronomiche e dell’agroindustria, dell’allevamento, della pesca, del turismo, la portualità e la logistica, mentre l’ambiente e la cultura richiedono l’ingresso di altri attori più attrezzati e di livello maggiore.
Più complessa è invece la situazione che dovrebbe riguardare il terzo possibile ambito di globalizzazione regionalizzata, tendenzialmente proiettato sul ruolo storico di Bari (in passato la Porta d’Oriente) nella sua interazione in particolare con le città libanesi e palestinesi e forse giordane. Ovviamente non possono essere ignorate le difficoltà che nascono dall’attuale quadro politico gravemente deteriorato, il quale – forse più ancora della Libia- lascia poco margine alla cooperazione multilaterale, indispensabile per attivare contesti di globalizzazione regionalizzata. Qui le diverse filiere dovrebbero probabilmente essere lasciate libere di crescere producendo spontaneamente il loro valore aggiunto. Ad esempio, il settore edilizio e quello delle infrastrutture fisiche potrebbero essere posti alla base di una prima filiera globalizzata, contando sulle ingenti distruzioni belliche da risanare a breve-medio termine e sulle provvidenze internazionali messe a disposizione a vario titolo. Le possibili innovazioni tecnologiche potrebbero essere ispirate ad obiettivi comuni di sostenibilità e di sviluppo smart, da applicare anche al restauro del patrimonio storico e culturale assistito dalla creazione di istituzioni mirate (centri di eccellenza simili all’Istituto centrale per il restauro italiano) e di specifici accordi interuniversitari.
Proprio questo esempio peraltro lascia intravvedere le notevoli difficoltà da superare per far prevalere le interdipendenze di sistema tra sponda italiana-europea e quella mediorientale, in presenza di interessi assai forti e strutturati di altre potenze europee e arabe che ambiscono a monopolizzare la ricostruzione in Libano o in Palestina. La formazione dei legami economici di area dovrebbe allora essere accompagnata da politiche mirate, meglio se costruite a livello locale senza essere eccessivamente condizionate dal livello statale o peggio ancora da macro-blocchi geopolitici eterodiretti che tendono ad imporre i propri interessi a quelli locali.

Un’agenda possibile

Ritornando alle osservazioni di Matvejevitch, piuttosto che all’identità dell’essere (e quindi agli accordi politici globali) converrà dunque puntare sull’identità del fare, provando a costruire progetti parziali ed eventualmente disgiunti di sviluppo soprattutto delle reti e delle piattaforme territoriali, finalizzati alla progressiva formazione di macro-aree di globalizzazione regionalizzata. In questa prospettiva alcuni progetti urbani e di territorio promossi con fondi anche comunitari (un po’ sul modello dei Prusst -programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile- sperimentati qualche tempo fa in Italia, ma opportunamente ridisegnati in una logica inter-mediterranea) potrebbero essere predisposti congiuntamente dai Paesi partner, meglio se in coerenza con gli obiettivi della transizione ambientale e digitale assunti nel frattempo in Europa. I progetti urbani dovrebbero essere declinati soprattutto sul versante infrastrutturale e territoriale e al tempo stesso dello sviluppo economico e sociale, come del resto EWT sta sostenendo da tempo non soltanto per il Mediterraneo. Inoltre, dovrebbero investire prioritariamente le macro-aree sopra evocate (contesto siculo-maghrebino, trans-adriatico e forse pugliese-mediorientale), configurando i presupposti per una crescente interdipendenza di filiera, che nel tempo e con le condizioni opportune potrà trasformarsi in globalizzazione regionalizzata. In particolare, nella fase di avvio sarebbe preferibile agire muovendo dai retaggi della presenza italiana dei secoli scorsi e da quelle dinamiche finora a carattere domestico che però si stanno progressivamente trasformando in sovralocali o addirittura internazionali.
Non sembri eccessivamente ingenua la prospettiva proposta. Gli sforzi per assicurare gli equilibri geopolitici nell’area sono naturalmente prioritari e assolutamente indispensabili, anche per evitare veti pregiudiziali. Tuttavia, la presenza di forti legami economici e culturali tra i territori locali potrebbe a sua volta facilitare le intese politiche, tenendo conto anche della evoluzione prevedibile per il contesto economico e demografico. Nel prossimo futuro i Paesi del Mediterraneo meridionale e orientale dovrebbero infatti crescere ad un tasso di crescita doppio rispetto ai Paesi settentrionali fino al 2030, e il 60% della popolazione entro quella data dovrebbe risiedere nei Paesi della costa meridionale, dove tra l’altro i giovani saranno sempre di più in netta maggioranza e le donne continueranno ad essere assai più feconde (Andrea Rubino, in “Aspenia on line”, 3 settembre 2016).
In questo senso sembrano esistere i presupposti adatti per tentare di promuovere progetti parziali di sviluppo partenariale, avendo ormai compreso che “migliorare la cooperazione multilaterale e il dialogo interregionale resta la strada maestra per farsi carico dei tanti dossier che caratterizzano l’area mediterranea”, più che mai frammentata e ricca di faglie irrequiete (Andrea Margelletti, in “Atlante geopolitico del Mediterraneo”, a cura di F.Anghelone e A.Ungari, Bordeaux 2019). Certo, occorre prima di tutto venire a capo della forte avversione ideologica e fattuale dell’Europa centro-settentrionale e anche orientale nei confronti del Mediterraneo, percepito fino ad oggi come un vaso di Pandora soprattutto a causa della sua irriducibilità culturale e strutturale ai caratteri e al sistema dei valori del modello comunitario dominante. Ma la recente evoluzione della geopolitica tedesca fa sperare questo atteggiamento possa cambiare, e che l’Unione europea finalmente possa cominciare ad interessarsi attivamente alla sicurezza della frontiera mediterranea con il necessario realismo e quindi con azioni concrete di sviluppo condiviso. 

Contributi da EWT

Le questioni poste fin qui trovano un importante riscontro negli scritti raccolti da EWT23, in particolare nei contributi di Minniti e di Fontana. Il primo, che abbiamo voluto riproporre a partire da un suo lungo articolo pubblicato recentemente sul quotidiano “il Foglio”, coglie in pieno la portata strategica di una politica per il Mediterraneo che coinvolga necessariamente l’Unione europea, e in particolare la Francia, l’Italia e la Germania. La sua proposta è quanto mai condivisibile: l’Europa dispone di un potere economico che non possono permettersi la Turchia e la Russia, nonostante il loro formidabile apparato militare. Questo potere va immediatamente speso (si parla di 100 miliardi come prima tranche) per agire soprattutto in Libia e Tunisia, il fronte più incandescente dello scontro in atto, che rischia di produrre conseguenze internazionali catastrofiche. In questi Paesi Minniti, il ministro che si è impegnato più seriamente per fronteggiare le migrazioni clandestine verso l’Italia, propone un piano di ricostruzione corredato da un accordo per gestire i processi di migrazione che investono l’Europa. Il vero confine meridionale del Mediterraneo in questa prospettiva andrebbe considerato il Sahel, da dove hanno origine i flussi che si riversano in mare diretti verso il nostro continente.
Al di là di questa cornice strategica che rinvia alla grande politica, Fontana entra nel merito delle soluzioni possibili per riportare il Mediterraneo al centro delle strategie per rilanciare la competitività e la coesione sia dello spazio italiano che di quello comunitario. Fontana, muovendo dalla sua esperienza di direttore di dipartimento al ministero delle Infrastrutture italiano, richiama il punto più alto delle soluzioni prefigurate dal QSN ( Quadro Strategico Nazionale) nell’ambito del QCS, Quadro Comunitario di Sostegno, per valorizzare la centralità del Mediterraneo in una prospettiva di integrazione Nord-Sud, coerente con l’armatura delle reti transeuropee di trasporto previste nel Master Plan comunitario. La grave crisi finanziaria del 2009 e poi quella successiva imposta dalla pandemia ai nostri giorni purtroppo hanno fatto perdere di vista la priorità del Mediterraneo, dovendo dirottare gli investimenti sulle drammatiche emergenze di ciascun paese. Ma oggi è tempo di ritornare ad un disegno strategico che riposizioni l’Unione europea in questo spazio diventato cruciale nel trasporto marittimo intercontinentale, stavolta considerando anche i territori associati ai nodi dei corridoi e delle reti che attraversano il mare.
Fontana richiama le Piattaforme territoriali strategiche Sud-Orientale e Tirrenico-Ionica introdotte del QSN, rilevando anche la loro affinità con quanto è stato previsto nel recente PNRR, Piano nazionale di ripresa e resilienza. Qui il “Southern Range” definisce un sistema logistico-produttivo (l’”Esagono” della Nuova portualità di Sistema del Sud Italia) ricompreso fra le quattro ZES (Zone Economiche Speciali) di Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro (il “Quadrilatero continentale”) e le due ZES siciliane di Catania/Augusta e Palermo”. E soprattutto Fontana propone di “mettere in cantiere l’elaborazione di un “Recovery Fund” destinato ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo per l’avvio di piani straordinari, con finanziamenti a fondo perduto e prestiti, mirati alla realizzazione di indispensabili riforme sociali e concrete iniziative economiche e d’intervento”.
Si tratta di una proposta da condividere assolutamente, perché rilancia una prospettiva convincente d’azione comunitaria sulle frontiere meridionali che lavora con i territori e con le reti, aprendo la via al rafforzamento delle interdipendenze tra nord e sud e in definitiva consentendo di fronteggiare costruttivamente i rischi di questo mare tanto turbolento.
Gran parte degli altri contributi a EWT23 riflettono invece l’impostazione che ha voluto dare Mosè Ricci alla sua ricerca per l’Accademia Nazionale dei Lincei, “Le vie del Mediterraneo”, un insieme di percorsi letterari e di narrazioni iconografiche, tradizioni popolari, culture del mare, della natura e del cibo, e variegati spazi di bellezza. L’obiettivo primario della ricerca era di predisporre un Atlante Aperto dei luoghi, pratiche e progetti che contribuiscano a rivelare e se possibile a riproporre elementi di identità paesaggistiche offuscati dallo sviluppo moderno. Al tempo stesso l’obiettivo era di individuare strategie e tattiche d’intervento locale per una migliore governance dei rischi per il paesaggio mediterraneo, da applicare ai diversi contesti presenti nell’area. Nelle parole di Ricci, che è il curatore di questo numero di EWT, mentre la prima prospettiva muove dall’idea di un Mediterraneo come teatro di conflitti che condizionano il presente e i destini delle popolazioni che lo abitano (“il Mediterraneo incubatore di conflitti, con il futuro inteso come una categoria utile a descrivere le attese e le domande delle popolazioni interessate”), l’altra è tesa a definire i possibili progetti di cambiamento dello spazio fisico che considerano l’esistente come materiale da rielaborare. In questa seconda prospettiva il Mediterraneo viene considerato un Manuale che raccoglie un Atlante Aperto di infinite narrazioni, le quali raccontano i molteplici modi di essere e di fare all’origine dei segni e delle figure rilevanti impresse nel paesaggio.
Il progetto urbano può diventare un approdo anche in questa diversa prospettiva, che sollecita peraltro una grande ricchezza interpretativa non necessariamente finalizzata alle condizioni di fattibilità di un simile strumento d’intervento.