Parole chiave: Mura, Urbano VIII, Portuense, faglia urbana, rigenerazione
Keywords: Walls, Urban VIII, Portuense, urban fault, regeneration
Abstract:
La cinta difensiva costruita nel Seicento per volere di papa Urbano VIII è segnata da una realtà difficile e controversa, ma porta dentro di sé i valori simbolici del confine. Il perimetro delle mura tra città e campagna, nato per dividere, ha bisogno di una nuova visione, che non lo porti più ad essere un tracciato statico e passivo. Nell’espansione edilizia è stato superato il confine storicamente espresso della forma urbana, generando all’interno varie “fratture” urbane. Queste ultime sono minacciate da un processo corrosivo di abbandono e negligenza, che consegna le mura urbane al mancato riconoscimento del loro valore patrimoniale. Le mura non riacquisteranno mai più il loro aspetto pittoresco e nemmeno la loro funzione, ma possono essere considerate come elemento generatore di un nuovo sistema urbano, dando vita a una simbiosi tra città storica consolidata e periferia. Una città come Roma, necessita di un’evoluzione organica, attraverso l’interpretazione creativa dei segni storici, che nasca da un’analisi della loro genesi.
Durante il suo lungo pontificato, Urbano VIII Barberini riuscì nell’impresa di consolidare le difese militari di Roma, realizzando l’ultima cinta muraria della storia della città. Le motivazioni erano legate alla prima guerra di Castro (1641-1644)1: il pontefice si preoccupò infatti di difendere Roma dal versante scoperto del Gianicolo, preoccupato dal pericolo di un'altra ferita al prestigio papale come quella del sacco del 1527.
La progettazione e la realizzazione della nuova cinta urbaniana vennero affidate intorno al 16422 a Marcantonio De Rossi in collaborazione con Giulio Buratti, con la supervisione del cardinale Vincenzo Maculani3. Il progetto, tendenziale ripresa dell’architettura militare cinquecentesca, prevedeva un nuovo recinto bastionato, completo di un primo tratto da porta Cavalleggeri alla nuova porta San Pancrazio e di un secondo tratto fino alla nuova porta Portese e quindi al Tevere. La cortina in laterizio connette i diversi baluardi poligonali e terrapienati, muniti di cannoniere per artiglieria sui fianchi laterali e dotati di un buon coefficiente di prominenza. Le mura, di sezione scarpata, sono di semplice ma efficace progettazione e sono dotate di elementi strutturali di rinforzo come i cantonali lapidei sui vertici dei bastioni, nonché di redondone lapideo a sezione torica articolata, troniere e feritoie sommitali. Tuttavia, a causa della rilevante spesa economica, il progetto venne ridimensionato.
Maculani era intenzionato, inizialmente, a discendere dalla sommità del Gianicolo con il percorso più breve possibile, scendendo dritto verso la chiesa di San Callisto e poi verso quella di Santa Cecilia, escludendo dalla difesa il porto di Ripa Grande4. Tuttavia, si optò più opportunamente per una cinta che comprendesse anche le grandi proprietà private, come la villa Sciarra, e soprattutto il porto. L’intervento rientra nella tipologia di “fortificazione in ritirata”, cioè riducendo l’area protetta, perché fu demolito completamente il tratto di mura Aureliane più esterno, insieme all’antica porta Portuensis, che venne costruita ex-novo all’interno della nuova cinta. (fig. 1)
Le soluzioni tecniche fornite dall’esperienza fortificatoria avrebbero offerto anche la possibilità di adeguare l’antico tracciato imperiale, sostituendo le torri con i bastioni e portando tutto alla medesima quota. Ma certamente, la costruzione moderna poteva offrire prestazioni migliori contro le artiglierie nemiche rispetto alla malmessa cinta imperiale. Per questo, si decise di realizzare un percorso articolato tra baluardi e cortine, composto da un totale di tredici bastioni, compreso quello di testata sul Tevere. Per contenere le spese, si dedicò molta attenzione all’ottimizzazione geomorfologica, sfruttando i dirupi naturali in termini altimetrici, limitando così scavi e movimenti di terra.
La nuova cinta muraria venne realizzata con notevole perizia tecnica, con una buona articolazione geometrica e ottima ponderazione delle batterie sui fianchi laterali a copertura delle cortine. I baluardi poligonali creano un’osmosi tra il monte e la dilatazione spaziale esterna alla città, assecondando le pendenze nel migliore dei modi. Occorre tuttavia distinguere l’intervento in due macro-zone: le pendici del Gianicolo, rivolte alla città, e l’area di Trastevere a contatto con il fiume. Nella prima erano sorte, nel tempo, molte ville e giardini di famiglie aristocratiche, sia ai piedi del monte che presso via della Lungara. L’area trasteverina, invece poneva problemi totalmente differenti, per il rilancio urbanistico che aveva interessato l’area tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, legato alle attività commerciali ed artigianali del porto di Ripa Grande. Se le mura urbaniane sul Gianicolo rivestivano quasi un valore di protezione private, l’ultimo tratto assumeva quindi un ruolo propriamente urbano e pubblico.
Il contatto tra il nuovo recinto di Urbano VIII e quello antico avveniva presso il terzo bastione dal Tevere, oggi demolito per metà, all’altezza dell’attuale viale Trastevere. Una planimetria redatta da De Rossi rappresenta il primo tratto dal Tevere, con un’inquadratura dell’area tra il vecchio recinto e il nuovo5. Dal disegno risulta che De Rossi scelse intenzionalmente di non allineare la nuova porta all’antica via Portuensis, probabilmente per non alterare i rapporti geometrici-dimensionali tra il secondo e il terzo bastione, a discapito della difesa radente delle batterie. (fig. 2)
Le mura furono realizzate attraverso una manovra finanziaria attuata con grande rapidità dal 1642 al 1644, anno in cui si colloca la conclusione della nuova porta Portese, architettura di Marcantonio de Rossi, che reinterpreta con intelligenza e sensibilità il modello sangallesco della porta Santo Spirito. (fig. 3). Nel programma economico di Urbano VIII venne prevista anche la dismissione dell’antico recinto e dell’annessa porta, da cui ricavare comunque tegolozza e altro materiale di spoglio. È probabile che il fattore dominante che portò ad accelerare i tempi fu la valutazione delle condizioni di salute del pontefice. Attraverso il diario romano del Gigli, contemporaneo alla fortificazione, si può seguire il cantiere sin dal 1642. A febbraio del 1643, la costruzione veniva già a trovarsi presso Trastevere, ma la morte di Urbano VIII nel 1644 impose una riduzione dei programmi6. Fu quindi Innocenzo X Pamphilj a portare a conclusione l’opera, affidando i lavori a Giovanni Antonio de Rossi, che si occupò di consolidare e risistemare la cinta delle mura, probabilmente a causa di una esecuzione affrettata7. La conclusione dei lavori è comunque attestata dallo stemma Doria-Pamphilj sia sulla nuova porta Portese, sia sul bastione del Tevere, indizio che porta a pensare che la parte di cinta trasteverina non fosse stata completata prima della morte di Urbano VIII.
La realizzazione del nuovo recinto fortificato favorì lo sviluppo edilizio dell’area: oltre al cantiere di lunga durata dell’Ospizio Apostolico di San Michele, l’incremento del traffico fluviale indusse Innocenzo XII Pignatelli ad ampliare il porto di Ripa Grande dal 1692, e nel 1691 a commissionare un nuovo edificio adibito espressamente a dogana a Matthia de Rossi8 – figlio di Marcantonio - con l’obiettivo di facilitare le operazioni di controllo e quindi i commerci. La conclusione di questa opera, attorno al 1697, spetta tuttavia a Carlo Fontana, già architetto della Dogana di Terra, che eredita anche il cantiere dell’antistante Ospizio.
La Dogana consisteva in un grande volume innestato alle mura urbaniane, all’interno del bastione sul Tevere, ritmato da finestroni al primo piano e da aperture minori nell’attico. L’accesso avveniva da un atrio porticato a tre arcate in doppia altezza, sormontato da un attico e concluso dal grande stemma a bassorilievo. L’assenza di elementi decorativi e l’uso di un robusto bugnato liscio nel portico sottolineavano il carattere funzionale dell’edificio, in linea con il rigorismo perseguito dal pontefice Pignatelli: la bella veduta di Alessandro Specchi ne attesta la posizione perpendicolare alla sponda del fiume, a chiudere l’area del porto e a controllare l’ingresso dalla porta Portese. L’articolata distribuzione interna presentava ambienti consoni all’attività di controllo commerciale e una grande aula al pian terreno coperta da volte a crociera per lo stoccaggio delle merci9. La nuova fabbrica era stata pensata infatti come un organismo che si relazionasse con il Tevere, tramite la grande rampa di accesso al porto, per accogliere più agevolmente le merci. La conclusione della fabbrica dell’Ospizio e la realizzazione delle Carceri all’angolo nord, ad opera di Fuga, nonché la sistemazione definitiva della caserma dei Doganieri (1734), all’angolo meridionale dell’Ospizio, venivano a definire una nuova piazza caratterizzata da una notevole omogeneità stilistica, per essere formata da rigorosi edifici funzionali, e volumetrici, soprattutto nell’assonanza tra la nuova Dogana e la fronte stante caserma10. La continua evoluzione dell’attività navale sui terreni della Camera Apostolica portò inoltre alla realizzazione dell’Arsenale, commissionato da Clemente XI Albani nel 1714, manufatto situato all’esterno delle mura urbaniane e di porta Portese, ma direttamente collegato al porto. Si configurava così un polo di servizi e funzioni commerciali di netta impronta produttiva e mercantile, del tutto in linea con le attente politiche dei pontefici tra Seicento e Settecento, impegnati a risollevare le sorti dello Stato con caute aperture alle nuove visioni mercantilistiche.
Ancora agli inizi dell’Ottocento, l’importanza del porto di Ripa Grande è attestata dal faro progettato da Valadier. Nel 1819 lo stesso architetto offre una descrizione del lavoro di spurgo delle mura, a dimostrazione dell’attenzione verso le fortificazioni urbaniane nell’età della restaurazione pontificia11. Tuttavia, in questa porzione di città, furono particolarmente pesanti gli interventi post-unitari: la realizzazione dei muraglioni del lungotevere dopo il 1876, con conseguente disfacimento del porto; l’apertura nel 1888 del grande viale del Re, poi viale Trastevere, con conseguente demolizione di una metà del terzo baluardo della cinta urbaniana; la costruzione della stazione ferroviaria di Trastevere nel 1889 in piazza Ippolito Nievo; la infine realizzazione del nuovo ponte Marmorata12 (poi Sublicio) nel 1915, che determinò la demolizione della Dogana Innocenziana e della piazza antistante.
Questi grandi stravolgimenti urbanistici furono ritenuti necessari per affermare il volto nuovo della capitale, in termini di servizi infrastrutturali e di rappresentatività. Com’è noto, la cultura urbanistica successiva all’Unità non espresse una visione equilibrata tra le nuove esigenze di viabilità, le necessità di una espansione edilizia e il segno storico della cinta difensiva. Per questo, nei piani di Alessandro Viviani, 1873 e 1883, si registra una marcata indifferenza riguardo alla salvaguardia della Dogana, legata alla incertezza sulla posizione di sbocco del ponte Sublicio che doveva connettere il rione di Trastevere a quello nascente di Testaccio. Interessante è il piano del 1883, dove si propone di realizzare il nuovo ponte dinanzi la porta Portese con la creazione di uno spazio delimitato da due corpi simmetrici sulla via Portuense, ma soprattutto l’isolamento della porta e dell’edificio della Dogana, che risulta demolito a metà e mancante del portico. Questa previsione del Viviani, avrebbe comportato la demolizione del fianco laterale del secondo bastione, ma anche l’ortogonalità tra il futuro viale Trastevere e il Ponte Sublicio, tanto ricercata negli anni successivi. (fig. 4)
Il piano di Edmondo Sanjust del 1909 non presta particolare attenzione all’area fuori le mura, se non per la conferma dell’impianto ferroviario e della strada costeggiante la cinta. Le previsioni di Viviani sulla posizione del ponte non vengono recepite e il piano del 1909 individua ormai con chiarezza i manufatti da demolire nell’area portuense, tra cui Dogana e Arsenale. La difficoltà nell’interpretare il contesto urbano di porta Portese viene alla luce anche dalle dinamiche relative al collegamento tra le due sponde del fiume: mentre nella redazione del 1908 è presente il ponte nella posizione attuale, nella versione definitiva del 1909 si sceglie una posizione più a sud, con sbocco sull’attuale via Rubattino nel rione Testaccio. La ricerca di un collegamento con la piazza di porta Portese e con via Marmorata dall’altra parte del Tevere veniva così rafforzata dalla presenza soprattutto del Ministero. La posizione di sbocco del Ponte Sublicio, progettato da Marcello Piacentini a partire dal 1914, costituisce quindi la chiave di volta dell’intero riassetto dell’area.
La presenza di edifici realizzati da illustri architetti sei-settecenteschi e la complessità del nodo urbano che si stava generando non poteva non attirare l’attenzione dell’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura, sodalizio che, com’è noto, riuniva docenti, specialisti e professionisti con l’obiettivo di studiare soluzioni urbanistiche e architettoniche alternative a quelle istituzionali, cercando di ridurre i danni apportati al tessuto storico della città. Sotto l’egida culturale di Gustavo Giovannoni, nel luglio del 1914, l’Associazione ricevette l’incarico da parte dell’amministrazione comunale di occuparsi tecnicamente delle vicende edilizie dell’area e sul sistema urbano intorno alle mura. Come era costume del sodalizio, venne formata un’apposita commissione, che annoverava Gustavo Giovannoni come presidente e soci come Bottazzi, Fasolo, Foschini, Magni, Passarelli, Petrignani, Piacentini13. Da una planimetria di progetto, conservata presso l’archivio del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura, emerge la chiara intenzione di rafforzare il collegamento tra viale del Re e ponte Sublicio, realizzando un grande viale alberato costeggiante il tratto interno delle mura, corrispondente all’attuale viale Ascianghi, che avrebbe collegato il Ministero con la piazza di porta Portese. Il tratto di mura urbaniane finiva per essere aggirato dal nuovo tracciato, senza nemmeno quella visibilità che nel caso della più antica e illustre cinta aureliana era stata assicurata. Non a caso, nella previsione della commissione AACAR, lo spazio interno al bastione viene riempito da villini, come accade nel tratto gianicolense, scomparendo di fatto dalla scena urbana. La porta di Marcantonio de Rossi veniva conservata, ma sostituita da un ampio varco nelle mura nel tentativo di mediare il passaggio alla periferia. (fig. 5)
La proposta va considerata come uno dei tanti esempi di approccio pragmatico giovannoniano, di “diradamento” del tessuto antico per le esigenze moderne. In questo quadro, si giunse a prevedere l’annullamento della piazza settecentesca di porta Portese e la demolizione della fabbrica della Dogana, riconosciuta nel suo valore esclusivamente per il portico a tre arcate: peraltro, si lasciava l’ipotesi di una ricostruzione parziale del portico sul lato interno della porta Portese, addossato alle mura in simmetria con il modesto edificio del Corpo di Guardia.
La demolizione totale della Dogana di Ripa Grande, eseguita tra il 1915 e il 1919, rimane l’evento più traumatico per il nodo urbano di porta Portese, che va comunque letto in continuità con la sistemazione del viale Marmorata e delle pendici settentrionali dell’Aventino, in corrispondenza dell’attuale Piazza dell’Emporio, progettata fin dal 1922 da Vincenzo Fasolo. La sistemazione principale mirava ad inquadrare armonicamente il nuovo ponte Sublicio, sfruttando il posizionamento di elementi architettonici di sfondo e la disposizione di masse architettoniche nuove.
Un’ulteriore rimozione del segno urbano rappresentato dalle mura urbaniane avvenne con la realizzazione della casa della G.I.L. tra il 1933-1936, ad opera di Luigi Moretti e il Dopolavoro dei dipendenti dei Monopoli di Stato tra il 1936-1938, di Ettore Rossi. Il primo edificio, giustamente noto e apprezzato, trae la propria ragion d’essere dalla posizione tra i due assi che raggiungono viale Trastevere, ma in entrambi gli edifici, e soprattutto nel secondo, le mura furono intese come semplice barriera, recinzione di spazi residuali, in un carente dialogo con il contesto urbano, ereditato dalla storia e mal gestito dagli strumenti pianificatori. Né va dimenticata la realizzazione della rimessa ATAC in piazza Bernardino da Feltre che ha ulteriormente ostruito la visibilità delle mura.
La realtà esterna alle mura è oggi frutto della sequenza eterogenea di manufatti annessi al Clivo Portuense e di una forte speculazione edilizia, da cui trae origine uno scenario urbano privo di qualità, tra il residenziale e il produttivo. L’area, agli inizi degli anni Sessanta, era legata alla dismissione dello scalo ferroviario di Trastevere; da alcune vedute aeree emerge che l’intero settore, costeggiante il fiume, era ancora privo di edifici residenziali, al cospetto dei già sviluppati quartieri di Testaccio e Monteverde. Questa porzione di città fu presa in considerazione dagli strumenti urbanistici di fine Ottocento, ma non si riuscì mai a leggere, nemmeno nel corso del Novecento, la cinta urbaniana come patrimonio storico da integrare alle trame urbane circostanti. Le fortificazioni difensive di molte città storiche, sorte prima dell’evoluzione industriale, hanno avuto tutte lo stesso destino: perdita della loro reale funzione e mancata possibilità di riconversione rispetto alle altre tipologie architettoniche. L’architettura difensiva vive con difficoltà il suo essere patrimonio storico della città.
Numerosi gli studi e le proposte per la valorizzazione dell’area, ma poche mettono in primo piano le mura. Il Dipartimento di Programmazione e Attuazione urbanistica di Roma Capitale ha recentemente preso in esame l’area, predisponendo uno schema di assetto preliminare specificato (SAPS)14, di potenzialità di recupero e valorizzazione dell’area Portuense. Nello specifico risponde alla richiesta dell’area C6 di viale Trastevere e deposito Atac-Ex G.I.L., nella quale si indica la presenza di manufatti edilizi incoerenti e precari a ridosso delle mura, cosa che impedisce la continuità visiva e la fruibilità dello spazio libero antistante.
Nella situazione odierna, esistono com’è noto, potenzialità convertibili a nuovi usi ed occasioni di riqualificazione a scala locale e urbana. L’area nei pressi delle mura, caratterizzata da abbandono e sottoutilizzazione, potrebbe essere migliorata attraverso la localizzazione di nuovi spazi pubblici, sui tracciati strutturati. La soluzione plausibile del parco urbano è finalizzata a restituire alla città una delle sue aree di pregio e di consentire la connessione con servizi di natura culturale, turistica, ambientale e sportiva.
La realizzazione di un intervento dovrebbe porsi il duplice obiettivo di valorizzazione delle mura come patrimonio storico architettonico e il recupero dell’equilibrio urbano della porzione di territorio annesso. In questo scenario le fortificazioni rappresentano il limite dove si incontrano le aree urbanizzate sature e i residuali spazi liberi. In particolare, il primo atto di rigenerazione consiste nell’eliminazione dei manufatti addossati alle mura – stazioni di servizio, officine meccaniche, capannoni in stato di abbandono - per recuperare spazio vitale. Le superfetazioni come manomissioni, inglobamenti all’interno di nuovi tessuti edificati, usi impropri, affliggono il contesto antropico urbano, causando la perdita di unitarietà e di fruibilità del tracciato storico15. Occorrerà pensare anche ad un vasto progetto di restauro della consistenza innanzitutto fisica delle mura e della porta, non escluso il residuo del Corpo di Guardia, che sono state ignorate per decenni e che sono testimonianza importante, come si è detto, delle tecniche costruttive e fortificatorie.
Un organismo esteso come le mura ha bisogno dell’individuazione di diversi settori di intervento al fine di rispettare una gerarchia che è essa stessa matrice di equilibrio. La progettazione dello spazio pubblico si fonda sul recupero del maggior numero di connessioni e le mura sono il mezzo unificatore, organismo sinuoso che grazie alla propria articolazione geometrica instaura rapporti variabili. La cortina muraria e i baluardi creano una sequenza di dilatazioni spaziali e di restringimenti visivi, e proprio da questi potrebbe generarsi un sistema di piccole piazze accolte nei fianchi interni ed esterni dei baluardi. Le mura potrebbero assumere valore di saldatura, tra il fiume e viale Trastevere sul suo asse longitudinale, e di tante connessioni tra gli edifici storici e novecenteschi sul suo asse trasversale (fig. 6). Nasce qui l’esigenza di coordinare intorno allo spazio pubblico delle mura una compagine attiva di poli attrattori che partecipino direttamente alla rigenerazione urbana, soprattutto edifici di natura culturale e museale come l’Arsenale, l’ex Dopolavoro Monopoli, oggi cinema, l’ex G.I.L., il palazzo degli Esami, il San Michele e lo stesso Ministero: istituzioni che stanno riconquistando a fatica un ruolo urbano, ma senza un coordinamento generale, quasi episodi staccati e privi di contesto: fatto particolarmente evidente nel caso della ex G.I.L., riaperta dopo un attento restauro, ma fiancheggiata da impianti sportivi improvvisati che alterano la sua corretta percezione.
La creazione di un’area pedonale permetterebbe di isolare il tratto di mura, rafforzando la sua destinazione grazie ad un grande spazio uniforme. La creazione di un contesto attrezzato con alberature, spazi verdi e specchi d’acqua, progettati insieme all’arredo urbano, valorizzerebbe le mura restituendo un luogo di inclusione sociale e di dialogo con la città (figg. 7, 8). Il legame da rinnovare con la città si rafforza con la conversione di manufatti esistenti (come la rimessa ATAC) a nuovi usi sportivi, culturali e di aggregazione sociale e con l’incremento dei flussi annessi. L’apertura di ingressi al parco su tutti i fronti permetterebbe l’accessibilità allo spazio pubblico creando nuove relazioni soprattutto con il Tevere, la periferia portuense, la città storica e il viale Trastevere. La risoluzione del vuoto urbano, lasciato dagli stravolgimenti storici, potrebbe partire da una rilettura del rapporto tra la massa del complesso del San Michele e la cinta muraria. L’area in esame svuotata dalla demolizione della Dogana, di cui restano ancora tracce sulle mura urbaniane, ha bisogno di un intervento completo sia per le condizioni di degrado attuali16, sia per restituire un senso al nodo di porta Portese. Il fine dovrebbe essere quello di creare una continuità con il parco urbano e di offrire funzioni di svago e culturali alla città.
L’originaria natura del confine potrebbe quindi essere convertita da funzione di separazione a luogo di interrelazioni. L’antico tracciato delle mura, può agire come un diaframma tra le realtà circostanti e come un’arteria verde che connetta direttamente il Tevere con l’interno della città. Il confine può essere convertito ad organismo di interfaccia, favorendo la rivitalizzazione dei valori ancora presenti e il riappropriarsi di una porzione di tessuto urbano ormai dimenticato.
Note
1 Sulla guerra di Castro, v. Pastor Von L., (1971). Storia dei Papi. Roma, vol. XIII, cap. XI.
Ranke Von L., (1965). Storia dei Papi. Firenze: Sansoni, pp. 825-32.
Questo contributo è tratto da Roselli L. (2019). Roma, Porta Portese e la Dogana di Ripa, un nodo urbano da risolvere, tesi di laurea in Restauro architettonico, Pescara: Università degli Studi "G. d'Annunzio”, relatore prof. Claudio Varagnoli.
2 Le misurazioni iniziarono nel luglio del 1641 con D. Castelli e G. Bonazzini architetti della R.C.A. (BAV, arch. Barb.)
3 Esistono dei precedenti progetti della cinta gianicolense del Maculano e del Buratti ai tempi di Urbano VIII (cod. Barb. 6542, folio 12 e 17).
4 Cassanelli L., Delfini G., Fonti D., (1989). Le mura di Roma, architettura militare nella storia urbana. Roma: Bulzoni Editore, pp. 162-63.
5 Heimburger M., (1971). L’architetto militare Marcantonio De Rossi – e alcune sue opere in Roma e nel Lazio. Roma: Istituto di studi Romani Editore, pp. 27-28, Tav. XXXIX (cod. Vat. lat. 11258, fol. 66).
6 Gigli G., (1958). Diario Romano (1608-1670), pp. 86-7, 225-6, 250-1.
7 Spagnesi G., (1964). Giovanni Antonio De Rossi. Architetto romano. Roma: Officina Edizioni Roma, p. 42.
8 Menichella A., (1999). Matthia De’ Rossi architetto pontificio. In: “La Confessione nella Basilica di San Pietro in Vaticano”, pp. 115-17.
9 Bonanni P., (1699) Numismata Pontificum Romanorum, Quae a tempore Martini V, usque ad annum MDCXCIX.
10 Braham A., Hager H., (1978). Carlo Fontana: the drawings at Windsor Castle, London: Sotheby Parke Bernet Pubns, fig. 342.
11 Valadier G., (1819). Descrizione del lavoro dello spurgo delle Mura di questa città da farsi come segue. (A.S.R, Consiglio d’Arte, b. 125)
12 AACAr, (1925). Architettura e Arti decorative. In: Rivista d’Arte e di Storia, anno MCMXXV. Milano-Roma: casa editrice Bestetti e Tumminelli, p. 5.
13 AACAr, (1916). Annuario dall’anno XXI–MCMXI – all’anno XXV-MCMXV. “Sistemazione edilizia della zona presso il ponte di Marmorata”. Roma: Tipografia Innocenzo Artero, pp. 75-80.
14 Roma Capitale, SAP Porta Portese – Riva Portuense, Progetti Urbani e Ambiti di Valorizzazione, attività 2009-2013. Il programma ha il compito di definire le linee guida prescrittive, gestionali e indicative. Il P.L.U.S. (Piano locale urbano di sviluppo), “Porta Portese una risorsa per Roma”, 2011, “è basato sull’inquadramento di analisi e obiettivi e sulle linee guida sviluppate per il SAPS”.
15 Roselli L. (2019). Roma, Porta Portese… op. cit.,tav. 23.
16 Roselli L., (2019) Roma, porta Portese…, op. cit., tavv.. 21-22.
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