Parole chiave: Progetto urbano, patrimonio, trama verde, Ferrara
Urban design, urban heritage, green framework, Ferrara
Abstract:
Nella seconda metà del Novecento il recupero delle mura storiche di Ferrara ha costituito un caso di rilevante interesse per gli studi urbani rivolti al recupero del patrimonio e alla progettazione urbanistica. L’articolo inquadra questa esperienza all’interno di una riflessione più ampia sul rapporto città e mura mettendo in evidenza, nella parte finale, la difficolta di ripartire, nei decenni successivi, da questa esperienza per rilanciare una visione strategica per la città.
Premessa
“Ferrara….. una città dove dal centro si vede la campagna”; queste parole, pronunciate alcuni anni fa, da Panos Koulermos, professore di architettura all’UCLA di Los Angeles, durante una conversazione all’IUAV di Venezia cambiarono il mio modo di vedere Ferrara, portandomi a riflettere sul rapporto tra città e campagna non più in termini di opposizione ma di relazione. Ferrara potremmo definirla una città-paesaggio per gli intrecci che si sono stabiliti nel corso dei secoli tra il costruito e i suoi vuoti, e il vuoto è stato uno dei punti di forza della sua riqualificazione novecentesca (il Progetto Mura). Oggi la città si è fermata in preda ad una crisi di strategia e a rigurgiti identitari non in grado di cogliere le potenzialità di un progetto contemporaneo in grado di associare il patrimonio urbano (le mura) alle opportunità fornite da alcune parti in attesa di rigenerazione, ad esempio l’antico fiume Po di Volano, oggi ridotto a canale, a cui la città deve la sua nascita. La suggestione di Koulermos mi apparve percettiva ma in seguito, conoscendo meglio la città, mi resi conto che era anche fisica e che nella Ferrara storica e murata esisteva una campagna urbana. Non quella di Pierre Donadieu, che diviene urbana perché gli abitanti delle città esportano i loro modelli di vita in contesti agresti, ma al contrario una campagna che ancora oggi si pone come una delle componenti della morfologia urbana. Una riflessione generale sul tema del recupero delle mura urbane storiche come opportunità di rigenerazione urbana non può prescindere da Ferrara. Le ragioni sono numerose, innanzitutto è una delle città più murate d’Italia, secondo si tratta di mura che raccontano, allo stesso tempo, la storia di un dispositivo militare, urbano e paesaggistico, infine il recupero delle sue mura è stato uno dei più importanti progetti avviati in Italia alla fine del secolo scorso. Un progetto che non ha riguardato solo il restauro del manufatto ma che è stato concepito come una strategia di valorizzazione e rilancio dell’intera città.
Le mura come tema urbano
Ci hanno insegnato che le città un tempo erano organismi compatti e murati, opposti alla campagna, come ci mostra Ambrogio Lorenzetti nell’affresco del Buon Governo a Siena. Si tratta di una alterità non solo fisica ma fatta di diritti, di appartenenze, di privilegi, di difesa. Non sempre le mura delle nostre città dividevano un pieno (il tessuto urbano) da un vuoto (i campi, le selve, l’acqua) spesso delimitavano domini politici diversi ma non forme di paesaggio o della geomorfologia. Le città murate abbondavano di campi agricoli che erano necessarie anche per l’autosostentamento in caso di assedio. I fiumi entravano nei perimetri urbani fortificati, anzi a volte si ampliavano le mura per proteggere parti importanti del corso d’acqua. La toponomastica antica a sua volta ci dà molte informazioni sulla componente rurale e geografica nelle città. Le ragioni storiche che hanno portato le città a chiudersi dentro le mura sono dunque chiare. Sono legate a esigenze difensive, ma anche fiscali e politiche. Una pluralità di significati che le hanno rese un fatto tecnico, urbano, militare e politico, in grado di regolare anche le relazioni tra città e il suo territorio circostante. Del resto l’importanza urbana del dispositivo delle mura è ben evidente nei testi dei teorici dell’architettura quali Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci e in particolare Francesco di Giorgio Martini. Vitruvio è il primo che affronta il tema delle mura e della forma dei bastioni, un intero capito del suo libro I è dedicato a questo aspetto. Vitruvio mette in relazione la costruzione delle mura e quindi la fondazione di una città alla salubrità del sito e alla fertilità del suolo. Addirittura racconta che i “nostri” antenati prima di scegliere dove erigere il recinto eviscerassero del bestiame, che nel sito pascolava, per controllare la condizione del fegato [1990 35]. Con le dovute accortezze le mura e quindi le città si potevano anche costruire in zone paludose purché vicine al mare e orientate a nord, nord-est, inoltre importante era la costruzione di una rete di canali in grado di governare il flusso e deflusso delle acque. L’Alberti nel Libro V del De re aedificatoria (1989), partendo dal pensiero vitruviano non arriva a proporre modelli ideali o tipologici aprioristici ma associa la costruzione delle mura alla specificità del sito che ospita la città e alla varietà dei luoghi, ovviamente con tutta una serie di accortezze da seguire nella costruzione del sito fortificato. Francesco di Giorgio Martini è sicuramente il padre delle fortificazioni moderne, diversi storici lo attestano e il suo nome è legato in particolare a Siena e a Urbino, dove lavorerà per il Duca Federico di Montefeltro. Le mura certamente guidavano la crescita delle città; era consuetudine definire dei recinti che non cingevano una città già esistente ma al contrario delimitavano spazi dove questa si sarebbe espansa. Spesso tali delimitazioni erano molto ampie e molte città dovettero aspettare l’Ottocento per vederle riempite.
Con l’avvio della rivoluzione industriale, dentro il recinto fortificato, sorgono le prime manifatture che in seguito interesseranno le aree immediatamente al di fuori. Le attività che generavano insalubrità nelle città (es. i macelli, i mercati o i lazzareti) a loro volta iniziano ad essere spostate al di fuori della città, mentre le mura, a partire dalla metà dell’800, decadendo il loro ruolo difensivo, iniziano ad essere demolite (Vienna docet). Con la modernizzazione le mura e le aree ad esse associate, divengono di fatto degli spazi di transizione, trasformandosi in soglie che segnano il passaggio tra città antica e moderna e quella contemporanea. È lungo questa soglia che nella seconda metà dell’Ottocento si realizzeranno alcune delle più spettacolari operazioni di trasformazione urbana, riguardanti città che si apprestavano a diventare capitali o comunque città nodali della nuova geografia urbana europea. La demolizione delle mura urbane se da un lato ci ha privato di straordinarie opere di ingegneria e architettura dall’altro ci ha consentito di assistere a processi di modernizzazione che hanno visto nascere, in luogo delle antiche mura, giardini lineari e “sistemi di parchi” (Vienna, L’Avana) o, più modestamente, viali urbani (Bologna, Firenze) o autostrade di cintura (Parigi). Con il suo Ring, Vienna rappresenta certamente il simbolo della rottura del rapporto tra la città e le mura. Siamo alla metà dell’Ottocento e quindi, come ci rammenta Jacques Le Goff, stiamo parlando di una storia che introduce la problematica della lunga durata, trasformandola in un tema di interesse strutturale per il progetto urbano contemporaneo (De Seta e Le Goff,1989).
Le mura come tema urbanistico
Nella seconda metà del Novecento, l’urbanistica italiana si cimentò profondamente con il tema del progetto della città storica. Furono sperimentate modalità di lettura delle trasformazioni della città e di riconoscimento delle preesistenze attraverso l’analisi morfologica e tipologica, si introdussero degli approcci percettivi per capire anche il rapporto stabilito e modificato nel tempo tra città e il sito che la ospita. Furono infine elaborati piani e progetti che non sempre ebbero delle ricadute concrete sulla città. Non approfondiremo queste esperienze ma alcune si possono citare. Ritorniamo ad Urbino e al rapporto con lei stabilito da Giancarlo De Carlo (1966). Si tratta di uno dei più importanti progetti urbanistici e architettonici svolti in Italia, certamente una delle esperienze più conosciute al di fuori del paese vista la caratura internazionale del suo protagonista. La particolare conformazione urbana di Urbino cresciuta come un fuso sulla sommità di una collina, aggregata al Palazzo Ducale dei Montefeltro, ha determinato una prossimità e una integrazione molto forte tra il tessuto urbano e le mura. Non vi sono gli spazi ampi che si trovano a Ferrara o in altre città di pianura. In particolare la piazza del Mercatale, al piede del palazzo ducale con la famosa rampa dietro al teatro che consentiva al Duca di arrivare con il cavallo nella sua residenza, costituisce, ancora oggi, uno dei punti più problematici al margine della città storica. Le mura a Urbino sono una parte costitutiva del complesso monumentale del palazzo ducale che, a differenza di molte sedi signorili, costruite nel centro delle città, traguarda il paesaggio circostante ponendosi a sua volta come segnale della città per chi arrivava da fuori. Si tratta di uno dei nodi irrisolti del progetto per Urbino di Giancarlo De Carlo. Il fattore di discontinuità fu, nell’Ottocento, la costruzione del Teatro Raffaello Sanzio, costruito sul bastione dell’Abbondanza dove giungeva la rampa elicoidale che partiva dal Mercatale. Tale nodo costituito dalla piazza del mercato sul bordo meridionale delle mura, la rampa, il teatro e il palazzo costituirono uno dei temi progettuali più rilevanti della riflessione dell’architetto genovese, anche se gli interventi si limitarono al recupero della rampa e delle scuderie annesse mentre la piazza esterna è rimasta un parcheggio e ancora oggi è un nodo urbano irrisolto. Potremmo raccontare numerose storie di questo tipo, numerose vicende di conflitti che hanno spesso portato ad adattare le città alle esigenze e aspettative, vere o presunte della civilisation machiniste che nell’utopia Lecorbusiana era un obiettivo da raggiungere mentre nella realtà ha portato allo stravolgimento di molte città.
Anche l’esperienza di Luigi Piccinato a Padova racconta bene la difficoltà, nel secondo dopo guerra, di conciliare l’esigenza di modernizzare la città, in pieno boom economico, con le ragioni e la complessità della storia. Ancora oggi, a Padova ritroviamo una porzione interessante delle mura cinquecentesche e qualche tratto di canale ma, nel Settecento, il suo centro storico era caratterizzato da un articolato intreccio di tessuti urbani storici, luoghi pubblici e religiosi, canali, aree rurali e giardini. Piccinato elaborò cinque piani urbanistici per Padova. Iniziò a lavorarci in pieno fascismo, allora giovane collaboratore di Marcello Piacentini, e continuò alla fine della guerra (Franzin, 2004). Uno dei temi più controversi del difficile rapporto tra l’urbanista e la città è senz’altro identificabile nella localizzazione e costruzione del nuovo ospedale sanitario, fortemente voluto dall’università patavina. Venne allora individuata un’area non lontana dai complessi monumentali del Santo e di Santa Giustina, dove allora si trovava il bastione Cornaro. Piccinato si opporrà a questa scelta, e indicherà il rischio di cancellare un settore straordinariamente ricco e vario del centro storico padovano particolarmente caratterizzato da quell’intreccio di elementi sopra indicati. Per chi si occupa di progettazione urbana sono questi i punti di maggiore interesse: le soglie, le transizioni, gli interstizi, le discontinuità, le relazioni possibili. Nel corso del Novecento le vicende e le trasformazioni, che hanno riguardato le mura storiche delle città europee, ci raccontano del conflitto tra conservazione e patrimonio, da un lato, e modernizzazione, dall’altro ci parlano anche della necessità di igienizzare città che stavano diventando metropoli come ci ricorda il dibattito sulla demolizione delle mura di Parigi. Agli inizi del Novecento, la città intra-muros è strangolata dal dispositivo murario voluto dal governo Thiers nel 1836 e terminato nel 1845. Questa cinta fortificata, in seguito denominata le fortifs, era lunga 34 chilometri e larga 128 metri, con 94 bastioni che presto verranno accerchiati dalla periferia. Internamente alla città, con le sue scarpate erbose era un luogo di promenades mentre la zona militare inedificabile esterna (la zone), profonda 250 metri, era occupata da capanne, orti ed insediamenti abusivi abitati da povera gente, denominata zonards, che abitavano in baracche di legno su ruote e trainate da cavalli. I problemi posti dalla demolizione sono molteplici e riguardano principalmente la sorte del terreno liberato dalle fortificazioni. L’esigenza di riarticolare le relazioni tra la città e la sua periferia è primaria e non può prescindere dall'utilizzo di questo anello, ma come? Costruendo abitazioni di cui c’è grande bisogno o privilegiando la cintura verde e i collegamenti viari, o trovando un equilibrio tra queste diverse esigenze? E in che forme garantire e rafforzare le relazioni tra la città consolidata, all’interno, e quella in via di formazione, all’esterno? Le risposte a tali interrogativi le troviamo nelle differenti proposte che saranno formulate nel passaggio tra i due secoli e costituiranno uno dei caposaldi teorici del rapporto tra cultura igienista, progetto del verde e urbanistica (Charvet, 2005).
Mura e vuoti. Il caso di Ferrara
Ferrara rappresenta un caso studio interessante perché la città ha nelle mura storiche e nello spazio aperto uno dei suoi punti di forza (Ravenna, 1985). Nata e cresciuta linearmente lungo l’antico tracciato del Po, essa presenta una struttura complessa data dalla giustapposizione di differenti tessuti urbani – le addizioni – racchiusi da una cinta muraria di circa nove chilometri, ampliata a partire nel XV secolo, di cui oggi ne rimangono sette. Le demolizioni delle mura urbane avviate in molte città italiane dopo l’unificazione del paese, hanno coinvolto Ferrara solo in parte, nel tratto ovest dove, agli inizi del Novecento, fu costruita la linea ferroviaria. Le mura sono rimaste perché, probabilmente la città alla fine dell’Ottocento era povera e marginale e questo non rendeva economicamente conveniente la sua demolizione. Inoltre l’ampiezza della città murata era talmente rilevante (comparabile ai perimetri di Bologna e Firenze) che i primi quartieri novecenteschi e le prime “periferie” trovarono localizzazione all’interno di essa, senza tuttavia saturarne gli spazi vuoti presenti. Restando dentro le mura, un’altra dimensione appartiene a Ferrara à la solitudine. Capita quando una città viene pensata come capitale di uno stato e poi “improvvisamente” si trova ad essere un presidio periferico di un altro stato. La sua decadente grazia ricorre certamente in Gabriele D’Annunzio che, insieme a Pisa e Ravenna, la colloca tra le “città del silenzio” decantandone la “deserta bellezza”. Giorgio Bassani nel Romanzo di Ferrara (2012) non si sottrae dal segnalare questa sua introversione data dall’intreccio di città e campagna dove, in aree anche prossime al centro, si respira l’odore della terra coltivata e si è colpiti dal silenzio. Ma gli autori che forse più hanno sintetizzato il carattere solitario della città sono due: Charles Dickens e Michel Butor. Tra le loro descrizioni della città sono passati poco più di cento anni ed entrambi sottolineano la decadenza e l’incompiutezza di una città un tempo grandiosa. Dickens associa ai luoghi, che rendevano Ferrara attrattiva per un viaggiatore del Grand Tours, ovvero la casa dell’Ariosto e la prigione del Tasso, la descrizione di queste lunghe strade dove erbe rampicanti e erbacce stanno riempiendo le lunghe e silenti strade, che gli appiano unreal and spectral. Butor, dal canto suo, descrive l’incompiutezza di Ferrara, come un insieme di rovine di una città futura (l’addizione erculea) che non ebbe mai compimento, e divenute frammenti reali (es. il quadrivio di Biagio Rossetti) di una città sognata(1958). Butor coglie aspetti che contraddistinguono ancora oggi la città: la discontinuità e il non finito (Bruno Zevi parlava di non finito urbatettonico), l’assenza, l’importanza del vuoto riscontrabile nelle parti incompiute, ma anche nella dimensione notevole di certi spazi (strade e piazze) dell’addizione, voluta dal Duca Ercole I, alla fine del Quattrocento. È probabilmente tale incompiutezza che rende dilatati i nuovi spazi urbani caratterizzati dall’alternanza tra palazzi, giardini e cortine edilizie di case a schiera, cresciute lungo strade dalla sezione ampia. L’asse più importante dell’addizione (Corso Ercole I d’Este) è connotato da una rarefazione del tessuto urbano che progredisce mentre ci sposta verso nord: dal castello, al quadrivio monumentale ed infine alle mura nord, dove l’equilibrio pieno-vuoto è già sbilanciato a favore del secondo e la campagna segnala la sua presenza. Percorrendo oggi le mura ritroviamo un paesaggio urbano piuttosto articolato, con la sua varietà di spazi aperti che si intrecciano con i quartieri d’abitazione popolare, con i tessuti del centro storico medioevale, con le lottizzazioni artigianali e le aree dismesse, presenti in particolare a sud lungo il Po. Queste ultime rappresentano un patrimonio rilevante di spazi per la riorganizzazione della città e per tale motivo sono state inserite nei programmi di riqualificazione urbana. Dunque un paesaggio vario, denso e diradato allo stesso tempo, cadenzato dalla presenza delle mura, che fin dalla seconda metà del Novecento è stato oggetto di piani urbanistici che hanno salvaguardato questo grande patrimonio consentendo, nel 1995, il riconoscimento della città storica come patrimonio mondiale dell’umanità da parte dell’Unesco.
Le tappe per raggiungere questo traguardo sono state numerose ed hanno implicato l’azione combinata di amministratori, associazioni culturali, intellettuali. Potremmo affermare che la valorizzazione di tale patrimonio identitario, costituito dalle fortificazioni ferraresi nasce innanzitutto come progetto culturale, sicuramente stimolato dalla assunzione, da parte di Giorgio Bassani, della città a topos letterario. Di non minore importanza è stata la pubblicazione, nel 1960 della monumentale opera storico-critica di Bruno Zevi, legata alla figura di Biagio Rossetti. Lo storico romano, con il suo Saper vedere l’urbanistica (2018), trasforma la città in un testo da decodificare avviando una riflessione sulle modalità di costruzione e trasformazione di uno spazio urbano complesso, a partire dalla affermazione di Jakob Burckhardt, contenuta nel suo celebre volume «La civiltà del Rinascimento in Italia» (1980). In questo testo lo storico svizzero presenta Ferrara come la prima città moderna d’Europa, grazie alla sua addizione Erculea mentre la riflessione zeviana, nonostante una certa connotazione ideologica, rappresenta uno dei primi tentativi di lettura di una città cercando di metterne in evidenza la grammatica dello spazio urbano, con i suoi dispositivi innovatori e le sue relazioni con il contesto preesistente. Nel 1988 grazie al programma FIO (Fondo Investimenti Occupazione) del Ministero dei Beni Culturali, viene avviato il progetto di recupero denominato “Progetto Mura”, proposto dalla municipalità ferrarese con l’intenzione di invertire la stagnante situazione economica della città, facendo leva sul suo rilancio culturale e turistico. Questa strategia si è fondata sulla riqualificazione del patrimonio urbano e architettonico, sullo sviluppo di manifestazioni artistiche e musicali di alto livello così come sul rilancio dell’università cittadina. Una serie combinata di azioni che hanno portato al restauro delle mura, al recupero di importanti contenitori storici, alla valorizzazione degli spazi circostanti. Le fortificazioni vengono trasformate in un parco lineare perimetrale alla città storica, rafforzato dalla costruzione di piste ciclabili, mentre un nuovo parco urbano/rurale viene posto tra le mura ed il Po Grande a nord. Percorrendo oggi il perimetro delle mura ci si muove in un corridoio verde e monumentale allo stesso tempo, lungo il quale è possibile leggere anche la storia urbanistica della città. Potremmo dire che questo percorso lo possiamo leggere come un testo che, nel bene (le mura e gli edifici storici recuperati, oltre al verde e alla campagna urbana salvaguardata) e nel male (la bassa qualità, il disordine generato dalle urbanizzazioni dei decenni scorsi e l’abbondanza di parcheggi), ci racconta la città. Il recupero delle mura di Ferrara non è stata solamente una operazione di recupero e restauro di un monumento ma un progetto che ha riguardato tutta la città. Tale corridoio costituisce un punto di partenza per costruire una trama di percorsi e spazi verdi in grado di rigenerare i due ambiti periferici cresciuti prevalentemente a sud e nord della città, lavorando sulle connessioni tra le aree residenziali e il centro storici e migliorando gli spazi infrastrutturali e industriali dismessi o sottoutilizzati. È arrivato il momento di andare oltre questa lungimirante visione e lo spirito del “Progetto Mura” deve allargarsi alla città, deve prendere in carico i suoi settori periferici in sofferenza per l’enorme patrimonio di aree dimesse e per la bassa qualità dell’urbanizzazione contemporanea, ma per fare questo serve una vision che alla città manca da anni.
Le dimensioni di Ferrara rendono strutturale la riflessione urbanistica sul ruolo delle mura, in particolare se associate ad altri fattori urbani determinanti. Mi riferisco in particolare all’università, ai suoi spazi e alla sua interazione con l’intera struttura urbana. A Ferrara i quartieri universitari, come in gran parte delle città universitarie italiane, sono saldamente radicati nel centro storico fin dal 1392. Questo legame differenzia la tradizione italiana sia da quella anglosassone, i cui collegi riprendono la tradizione dei monasteri appoggiati a borghi fornitori di servizi, sia nordamericana, con i suoi campus esterni o isolati (Farinella, 2010). La crisi dei centri storici, in termini di residenti e attività, è una delle dinamiche che le città italiane si trovano a vivere, in particolare quelle piccole ma la presenza dell’università ne garantisce la vita. Ferrara conserva ancora una ricca mescolanza di attività, rilevante anche per la taglia della città (circa 130.000 abitanti e 20.000 studenti universitari). L’università nella città è organizzata per poli: un polo scientifico e tecnologico, l’unico fuori dal perimetro delle mura ma prospiciente, un polo biologico-farmaceutico e chimico dentro alle mura; un’asse centrale, dentro il centro storico, che da nord a sud unisce i dipartimenti di Giurisprudenza, Economia, Studi umanistici e Architettura e un polo medico-chirurgico nel Policlinico esterno alla città. I primi tre poli sono strettamente legati alla città storica e alle sue mura e costituiscono una opportunità per ripensare il rapporto tra università e città in termini di parco universitario diffuso strutturato sul corridoio patrimoniale delle mura e su alcuni percorsi e spazi pubblici (ma non fruibili) che attraversano la città storica mettendo in relazione i poli universitari. Questo intreccio o trama potrebbe costituire un fattore primario per la rigenerazione della città incentrata sulla ricchezza del suo tessuto urbano, sulla varietà dei suoi spazi aperti, su spazi universitari aperti alla città, sulle opportunità date dalla presenza di un corso d’acqua che potrebbe fungere da connessione tra la città murata e la periferia sud e non da ultime sulle sue mura. Queste, come già ribadito, possono assumere il carattere di un corridoio culturale e naturale, certamente urbano ma anche rurale, se alle fortificazioni associamo il parco urbano nord che unisce la città al grande Po.
Proposte e sollecitazioni
Questa riflessione su Ferrara rivela l’interesse per una ricerca comparativa sulla salvaguardia delle mura storiche come punto di partenza per un progetto urbano e paesaggistico che leghi patrimonio e contemporaneità. L’interesse emerge in particolare da una riflessione sul ruolo delle mura come “spazio-soglia” tra parti di città che hanno orditure e strutture morfologiche differenti. Uno spazio di transizione che rende possibile il passaggio tra vuoti e pieni. Nella fisica la soglia segna il passaggio tra due stati fisici di un sistema sotto l’azione di cause esterne. Dunque la soglia segna un punto di transizione. Se da un lato delimita una separazione dall’altro costituisce uno spazio di relazione, ha perciò un carattere duplice: è un bordo ed è un limite, ma anche un nodo o linea di interscambio. Questa prospettiva rende rilevanti le criticità derivanti, oggi, dall’aver trasformato questo perimetro in uno spazio infrastrutturale (viario e ferroviario), dalla necessità di riusare i tanti contenitori generati dalle presenza delle fortificazioni, oggi degradati o abbandonati, dall’abbandono delle aree industriali (o portuali) prospicenti le fortificazioni, dalla frammentazione e dal disordine generato dalla costruzione delle periferie oltre mura, della rigenerazione, infine, degli spazi vuoti che spesso ritroviamo dentro e fuori con gli usi impropri che si sono consolidati, come ad esempio i parcheggi. Oggi nella Ferrara, patrimonio Unesco e “città delle biciclette”, l’ambito sud tra le mura e il fiume è di fatto un grande parcheggio e tutte le azioni che si stanno compiendo, contenute ad esempio nel “Piano periferie” (in via di realizzazione) o nel progetto Interreg Europe “Perfect” (Planning for Environment and Resource Efficiency in European Cities and Town) o nel PUMS (Piano urbano mobilità sostenibile), confermano la volontà di concepire la città murata sud e i suoi dintorni come un grande parcheggio e area di attraversamento automobilistico, in aperta controtendenza con quanto le virtuose città del nord Europa stanno sperimentano in termini di città car-free. Questi problemi, che preludono a scelte di prospettiva per l’assetto delle città, le riscontriamo a Ferrara così come in tante città che oggi si stanno interrogando su questa presenza certamente ingombrante e generatrice di conflitti ma che richiede una capacità di governo e di assunzione di responsabilità oggi difficilmente riscontrabile in chi amministra le nostre città. Una riflessione comparata di tale natura potrebbe rappresentare un'opportunità per comprendere, in diversi contesti storici e geografici, il rapporto che si è instaurato tra la città storica, le mura e la città contemporanea e come potrebbe evolvere, attraverso una riflessione progettuale complessa e interdisciplinare, verso un sistema nel quale storia e contemporaneità costituiscono temi complementari di una strategia e di un progetto fondato sulla rigenerazione urbana. Insomma Ferrara la potremmo sintetizzare nell’immagine di una città/borgo che perché distanziata, silenziosa e rarefatta, consente in pochi minuti di bicicletta di passare dalle attività e dal fermento tipico della piazza italiana al silenzio della campagna, caso mai percorrendo un asse che attraversa tutta la città rinascimentale e dove gradualmente dalla densità del centro si transita verso la rarefazione della campagna, pur restando dentro le mura storiche. Intendiamoci, non si tratta di una città perfetta anzi presenta oggi un deficit di progettualità e di vision impressionante, come già ricordato. Del potenziale intreccio virtuoso in termini urbani del rapporto tra città e università prima descritto nessuno ne parla, se escludiamo alcune tesi di laurea seguite in questi anni. Tutte le sue qualità descritte appartengono alla sua storia e i suoi progetti più rilevanti sono “episodi” concepiti tra la fine del Quattrocento (l’Addizione erculea) e gli anni ’80 del Novecento (il Progetto Mura e il Parco urbano).
Ma inconsapevolmente in queste operazioni ritroviamo, seppur casualmente, i “podromi” di un processo e di un progetto che oggi manca a Ferrara e al nostro paese. I temi ricorrenti nelle agende politiche, pressate dagli studi sui cambiamenti climatici e ora dall’impatto della pandemia, parlano di città e natura, di aree urbane car free, di mobilità dolce, di città resilienti, attive e accoglienti ma ahimè spesso ne parlano solo e quando si interviene si tratta di cosmesi. Ritorna in campo la qualità e l’autorevolezza della governance, a livello locale e globale, e la consapevolezza che oggi la nostra società è più reattiva a parole che non con i fatti, verso i problemi delle città e le crisi globali, siano esse pandemiche o climatiche. Concludendo, se il “Progetto mura” è stato realizzato, della trama potenziale, sopra descritta, nessuno ne parla.
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