Le mura di cinta dell’antica Lubiana furono erette tra il 14 e il 15 d.C., come testimonia un’iscrizione trovata nei pressi della porta orientale di Emona (così si chiamava l’originario insediamento romano), dove attualmente si trova la piazza della Rivoluzione Francese. Mura larghe poco meno di tre metri alla base e alte sei-sette metri; ritmate da 26 torri e aperte da quattro porte principali distribuite lungo il perimetro che cingeva l’intera città a ridosso del fiume Ljubljanica. Strutture imponenti, costruite verso l’esterno con grandi massi di pietra squadrata e, all’interno con materiali minuti, tenuti insieme da una malta di sabbia e calce mista a ciottoli, reperiti direttamente dagli argini del fiume. Una murata solida che ha attraversato le insidie del tempo, fino quasi agli inizi del XX secolo ed ancora oggi in parte presente nei tratti ricostruiti dall’archeologo Walter Schmid (1875-1951) che guidò la campagna di scavi sul lato meridionale dell’antica Emona, prima dell’inizio della Grande guerra.
Dal 1913 Schmid ricostruì il muro principale, in gran parte emerso, fino alla sua altezza originaria, a partire dalle pietre rinvenute nei dintorni dell’attuale quartiere di Mirje. Egli si premurò di evidenziare la demarcazione tra la parte originaria del rinvenimento e quella ricostruita, marcandone l’interruzione con sassi più piccoli e coprendo la parte finale del muro con zolle d’erba, in linea con la tradizione delle ricostruzioni archeologiche dell’epoca.
Conclusa la prima guerra mondiale ed avviati i processi di ammodernamento della città, le antiche mura divennero oggetto di contesa tra conservatori e innovatori: erano viste, da questi ultimi, come impedimento allo sviluppo urbano verso sud, per cui se ne rivendicava la demolizione, anche in ragione della incerta autenticità della loro ricostruzione prebellica; a favore di questa invece si schieravano le associazioni di conservatori che si battevano per la memoria storica di quel manufatto e per l’eredità culturale della antica tradizione slovena.
In quegli stessi anni, Jože Plečnik, architetto sloveno che ha operato nella prima metà del XX secolo, lavorava a Praga dove si era trasferito dal 1919, dopo l’esperienza viennese presso lo studio di Otto Wagner. Figura singolare e fortemente carismatica quella di Plečnik, che ha legato la propria opera all’immagine iconica della sua città natale, Lubiana; come nel caso di Friedrich Shinkel per Berlino, di Otto Wagner per Vienna, di Antoni Gaudí per Barcellona, etc….
Proprio a Praga Plečnik era impegnato alla sistemazione della residenza e dei giardini del Castello per il primo Presidente della Repubblica Cecoslovacca Tomas Masaryk (eletto nel 1918). Era questa, un’opera grandiosa e di grande impatto scenografico, sia per la sua collocazione rispetto alla città, adagiata sul colle di Hradčany, sia per il suo aspetto maestoso, tra spalti, terrazze degradanti e logge distribuite lungo le scalinate che scendono fino al Palazzo del Senato. Un’opera anticipatrice della straordinaria abilità dell’architetto sloveno di saper manipolare i diversi materiali della storia. Materiali che riconduce ad una unitarietà espressiva capace di raccontare, allo stesso momento, le stratificazioni del tempo e la contemporaneità alle quali sono ricondotte.
I giardini che vediamo oggi, sono il frutto di un prodigioso lavoro che Plečnik rimette in ordine, partendo dagli elementi di permanenza riconosciuti, rinvenuti e restituiti alla loro originaria bellezza, seppur parte di una nuova storia. Una storia che affonda le radici nell’Egitto delle grandi dinastie, nella Grecia classica, nella Roma imperiale e nella Firenze repubblicana, alle quali fanno riferimento i principali studi di Plečnik.
Sono, queste, le forme di una bellezza originaria che non ha mai esaurito il suo ciclo vitale; espressioni di una classicità che ogni volta si reinventa a partire sempre dagli stessi principi. L’architettura si sa, è una disciplina complessa, in cui è possibile, rintracciare principi e concetti che sono sostanzialmente gli stessi da sempre, dall’inizio della civiltà urbana ad oggi. Ogni buona architettura è sempre il risultato di un equilibrio armonico, di un dialogo, tra la parte e il tutto; in poche parole, tutto ciò che appartiene a 5000 anni di storia dell’architettura.
«Se esiste un pantheon di grandi architetti che ha investito sul futuro della propria architettura, a partire dalla rielaborazione del passato, Plečnik è senz’altro tra questi. I grandi architetti sono quelli che hanno compreso questo compito e si sono dedicati, con coscienza, allo studio dei principi dell’architettura. Ci hanno insegnato come sia importante e duraturo, nel tempo, conoscere non le forme, ma i principi, perché sono facilmente comprensibili e aperti alle modificazioni future».1
È proprio durante gli anni di permanenza a Praga (1919-1934) che Plečnik inizia ad interessarsi alla riorganizzazione della sua Lubiana. Lavora ad alcuni progetti a scala urbana che già esprimono la volontà di dare forma ad una città che immaginava come la nuova capitale slovena, sia dal punto di vista architettonico che da quello artistico e culturale.
Sono gli anni in cui riconsidera l’approccio verso l’architettura e sceglie una strada del tutto personale per esprimere le sue idee sulla classicità e sulla dimensione del tempo, avviandosi verso quella architettura eterna che lo distinguerà (ed in parte lo isolerà) dagli sviluppi futuri della cultura moderna dominante.
«L'architettura eterna non è quella che si oppone al tempo a causa della sua forza fisica, ma quella che tutti possono comprendere ed apprezzare, anche molti anni dopo la sua realizzazione. L'architettura, pertanto, deve contenere una certa dose di universalità, come le grandi opere d'arte classica. Ecco perché Plečnik ha scelto di utilizzare un linguaggio tradizionale, costruito sugli elementi architettonici classici: la colonna, l’arco, la piramide, l’obelisco […] elementi con forti significati simbolici»2.
Tornato definitivamente a Lubiana Plečnik sceglie di abitare nel sobborgo di Trnovo dove decide di stabilire anche il suo piccolo studio. È proprio da qui che muove i suoi passi (anche nel senso letterale del termine), per realizzare quell’idea visionaria di dare forma compiuta all’assetto urbano della città. Si muove a piedi, da casa verso il centro, misura gli spazi di quella trasformazione solo immaginata; pensa e cerca soluzioni che poi troveranno concretezza nel disegno e nella realizzazione delle sue opere. Come diceva un suo studente in quegli anni, è proprio a partire dalla casa di Trnovo che l’architetto costruisce la sua città ideale.
Nel 1926, in uno dei suoi tanti viaggi di ritorno da Praga, su suggerimento di Franc Stele (1886-1972) capo dell’ufficio per la conservazione dell’eredità culturale slovena, Plečnik viene incaricato di proporre un suo progetto per la sistemazione delle mura romane, anche se i lavori non cominciarono prima del 1934, a causa della grande depressione socio-economica che dominava il Paese e gran parte dell’Europa.
Un lavoro paziente, quello di Plečnik, che sa osservare e selezionare con attenzione, quasi ossessiva, le tracce e gli elementi di permanenza della storia, proprio a partire dalla profonda conoscenza del contesto in cui opera. Una capacità di invenzione esercitata con consapevolezza e coraggio allo stesso tempo, per operare tra la città costruita e quella in attesa, provando a svelare l’anima ancora presente di una sorta di “mancanza che resta”.
Sotto la sua direzione accurata e sapiente, la città ricuce le sconnessioni tra le tracce del passato e le necessità delle trasformazioni del presente, un’impresa che vede impegnato l’architetto contemporaneamente in diversi cantieri.
Un lavoro minuzioso condotto sulle vestigia archeologiche della città romana, che Plečnik reinterpreta liberamente, integrando i reperti originari con elementi fittizi: archi, piramidi, cupole che, nella loro sequenza, costituiscono una narrazione unitaria. Una narrazione che appartiene alla storia della città e, nello stesso momento, alla sua dimensione moderna. È questa una modalità che aggiunge dinamicità ai monumenti consegnati dal tempo, una sorta di risignificazione, capace di restituire nuova vita attraverso le trasformazioni messe in moto dal progetto3.
Come in una sceneggiatura, la sequenza degli accadimenti urbani, pensati dall’architetto, si fa racconto di una storia, con i suoi personaggi ed il dialogo tra le parti. Lo spettatore coinvolto attraversa la scena e ne è direttamente partecipe, come rapito dai segni che attraggono lo sguardo per rimandarlo in altre direzioni in un’armonica continuità, costruita con forme diverse che, tuttavia, restituiscono la bellezza di una storia unica, pur raccontata per frammenti: la città.
Gli archeologi, sostenuti dalla gran parte dei conservatori, avanzavano critiche severe sull’operato di Plečnik, per l’interpretazione arbitraria della ricostruzione delle mura e in particolare per l’introduzione della piramide, che consideravano inopportuna rispetto alla conservazione dello stato originario del sito. Ma il senso che Plečnik dava a quella ricostruzione era molto più ampio degli obiettivi indicati dagli archeologi. Egli non pensava di imitare l’antica Emona ma cercava di restituire una dimensione più estesa del sito archeologico, al di là del limite fisico delle mura. La sua principale ispirazione era restituire un senso alle rovine emerse dalla storia; ritrovare una nuova dimensione del tempo, nel tempo, tale da rimandare al passato con la consapevolezza del presente. Il suo era un lavoro di pura invenzione nel quale il fondale principale era rappresentato dalla storia, ed i personaggi che ne interpretavano il racconto erano le architetture che la abitavano da sempre. Una dimensione “piranesiana”, nella quale le rovine si trovano in una condizione particolare dell’architettura, quella di imitare la natura, a tal punto da fondersi con essa. Questo era il punto di partenza di Plečnik nella ricomposizione dei reperti del sito di Emona. La sua idea era quella di creare un “parco delle antiche rovine”, così come magistralmente immaginato da Giovanbattista Piranesi nelle sue incisioni.
Intorno al muro, Plečnik dispose un parco archeologico, con un lapidario al suo interno, e aprì tre passaggi verso sud, sottolineando il primo con un arco ed il secondo con una piramide. I due ingressi della città esistevano già in epoca romana, ma furono murati successivamente a causa delle minacce della guerra; Plečnik li riaprì mettendo in evidenza la porta principale, cosidetta “Porta Decumana” con sette colonne e costruì altre due piramidi in terra (coperte da erba) che, purtroppo, nel tempo sono andate perdute. Al di la del muro, oltre la strada egli concluse la composizione con una serie imponente di pioppi (oggi rimossi), per segnalare la presenza del parco al di fuori del suo recinto.
Così come nei molti altri progetti per la città, gli interventi immaginati da Plečnik sembrano ogni volta rimandare ad un disegno più ampio pensato per parti; un grande programma urbano alla continua ricerca di un suo complessivo equilibrio. Ogni progetto, infatti, oltre a presentarsi come soluzione specifica di aspetti puntuali, svela ad uno sguardo più attento, gli innumerevoli riferimenti che legano quella parte di città alle altre, attraverso un sofisticato e raffinato sistema di connessioni, di elementi che ne sottolineano l’appartenenza ad un quadro più ampio.
Plečnik riesce ogni volta a trasformare la soluzione di problemi semplici in nuove occasioni di ricerca e sperimentazione, per ricomporre le linee della sua configurazione spaziale, capace di esprimere al meglio i caratteri della nuova città. Lavorando sulla solennità degli elementi compositivi dello spazio, persegue un disegno preciso: quello di costruire una nuova memoria storica per la città, quell’”Architettura Perenne” in grado di restituire la testimonianza di un tempo che non ha una sua storia, ma le contiene tutte4.
Una solennità costruita come riferimento alla storia e non alle forme degli interventi, come una große stadt edificata attraverso l’articolazione di parti minute. Si tratta dell’applicazione ragionata di una strategia adattiva, per frammenti, intesa come insieme di piccoli progetti appartenenti ad un disegno unico della nuova configurazione urbana.
È proprio sotto questo aspetto che possiamo considerare l’opera di Plečnik come sostanzialmente contemporanea, perché manifesta una strategia di tipo adattivo che interviene negli interstizi lasciati liberi dalle trasformazioni della storia e in quelle parti dove ancora non sono depositati significati tali da doverne considerare una possibile conservazione. Quella di Plečnik non è la visione strategica di chi lavora sulla indispensabile completezza del tutto, ma piuttosto la visione organica, di chi affida al singolo intervento la capacità di creare una modificazione multipla.
Il grande lavoro di Plečnik, tuttavia, non riesce a trovare compimento e nella sua lunga carriera di progettista restano più numerosi i progetti delle realizzazioni; ciò si deve anche alla sua grande generosità nel produrre aggiornamenti e variazioni dei progetti nei quali si misura con i temi della storia e della sua continuità nel tempo. Rimane comunque intatto il segno forte di rinnovamento che la città riceve nei trent’anni che vanno dal suo ritorno a Lubiana fino agli ultimi giorni della sua vita. Un’opera che segnerà per sempre la città, con una produzione singolare e ricca di edifici, piazze, canali, argini e parchi lungo il fiume. Alla Ljubljanica riconosce un ruolo centrale di infrastruttura urbana e di spazio pubblico allungato tra i palazzi del centro antico, arricchita da una singolare forma di monumentalismo colto ed accogliente: come accade, ad esempio, nella riproposizione della Stoà per il portico del mercato (sulla sponda destra del fiume) e dell’Agorà per la realizzazione di piazza Congresso (sulla sponda sinistra).
Come ha scritto Adolf Loos: «Non temere di essere giudicato non moderno. Le modifiche al modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un miglioramento, in caso contrario attieniti alla tradizione. Perché la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina al fianco»5.
* Il testo è una rielaborazione ampliata del contributo per l’VIII Forum ProArch di Napoli del novembre 2019.
“CITTÀ E MEMORIA l’esperienza di Lubiana e l’eredità di Jože Plečnik”
Note
1 Miha Desman L’eredità di Plečnik e l’architettura contemporanea slovena, in Domenico Potenza, Lubiana una città a memoria. L’eredità di Jože Plečnik e l’architettura contemporanea – lettera ventidue, Siracusa 2019
2 Andrej Hrausky, La contemporaneità di Jože Plečnik, mostra allestita alla DESSA Gallery di Lubiana dall’11 settembre al 20 ottobre del 2017. La mostra illustra come il lavoro di Plečnik non sia solo parte del nostro passato, ma una tradizione ancora viva, dove la lezione del maestro sloveno riesce a restituire ancora stimoli importanti per l'architettura contemporanea.
3 Plečnik utilizza questo dispositivo progettuale per realizzare il suo scopo principale, «L’architettura urbana di Plečnik non è monumentale bensì dinamica» come scrivono Lucius Burckhardt, Linde Burkhardt in La città passeggiata pubblicata con una sequenza di immagini in Jože Plečnik Architetto 1872-1957 catalogo dell’omonima mostra - allestita a Venezia nel 1988 presso la Scuola Grande San Giovanni Evangelista – edito dal Centro Culturale di Arte Contemporanea Internazionale, “Rocca Borromeo”, Venezia 1988
4 Domenico Potenza (a cura di), annotazioni e trascrizioni tratte da Janez Koželj in alcuni appunti per un percorso intorno al fiume dal titolo Lubiana. Tra monumentalizzazione e contestualizzazione, il progetto delle infrastrutture come occasione di ri-costruzione dell’identità urbana, Lubiana 1998.
5 Adolf Loos, Parole nel vuoto, (traduzione di Sonia Gessner), I edizione gli Adelphi 1992, Adelphi edizioni S.p.a. Milano, 1992.
Riferimenti bibliografici