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La questione delle mura
Giovanni Durbiano, Tommaso Listo
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Parole chiave:          rappresentazione, soggetto, mura, assemblaggio, azione;
                                   representation, subject, walls, assemblage, agency

 

Abstract:

La riqualificazione dello spazio adiacente alla Porta Palatina, parte rimanente della cinta muraria della Torino romana, serve da pretesto per interrogare il significato che un progetto delle mura pone oggi. Questa domanda diventa l’occasione per una riflessione sui presupposti filosofici che sottendono l’azione del progetto architettonico. In particolare, vengono messi in contrapposizione due possibili paradigmi: quello del soggetto rappresentante di tradizione moderna e quello di matrice relazionale su cui sono costruiti concetti come l’assemblaggio e teorie come l’Actor-network. Lo scopo è di offrire un contributo a una concettualizzazione del progetto che parta dalla sua effettività.




Il progetto del Parco Archeologico della Porta Palatina, parte rimanente della cinta muraria della Torino romana, è l’occasione per un contributo teorico all’elaborazione di una concezione della progettazione architettonica fondata sul criterio dell’effettività. Dato un progetto che si è rivelato effettivo – che è stato cioè realizzato – ci si chiede quale sia il perché di tale effettività o, detto in altre parole, quale siano le condizioni di possibilità di un’azione efficace nell’ambito della progettazione architettonica.

Prima di affrontare questo problema è utile rispondere a una domanda: qual è la questione generale che oggi un progetto come quello del Parco Archeologico, un progetto delle mura, pone? Iniziamo dal capire se questa questione sia esclusiva di qualcuno. Il principale indiziato è l’architettura; d’altra parte, si tratta di un progetto di trasformazione urbana intorno a un elemento architettonico prominente, le mura appunto. Due caratteristiche che, anche prese separatamente, dovrebbero legittimare l’architettura come principale destinataria della domanda o come la disciplina che sa interpretarla in tutta la profondità del suo significato. Così è per l’area del Parco Archeologico, uno spazio inserito nel cuore della città, e la Porta Palatina, eminente esempio di tipo architettonico.

Proprio l’azione attraverso l’analisi tipologica è quella che Tafuri – scrivendo a proposito delle teorie di Samonà, Rossi, Aymonino, Grassi, Gregotti e Canella – definì come la risposta a una richiesta di fondazione della disciplina architettonica e la possibilità di un «metodo di controllo della progettazione, un metodo oggettivo, logico ed analitico, che presieda alla progettazione stessa» (1968, p. 198). Un metodo scientifico per la progettazione, in sostanza, con cui parlare il linguaggio proprio della disciplina (p. 199), l’unico oggettivamente (veramente) in grado di leggere le relazioni tra spazio, progetto e città. Vale la pena approfondire il passaggio di Tafuri. L’oggettività è la caratteristica chiave del metodo, ciò che dice della sua non-arbitrarietà e, in ultima istanza, della sua efficacia. Il significato di oggettività qui va inteso a partire dall’assunto per cui tra un insieme di rappresentazioni da una parte (le teorie di cui sopra), e il mondo (la città) dall’altra, vi siano delle relazioni di corrispondenza che permetterebbero, qualora la conoscenza di tali relazioni venisse tradotta in metodo, di garantire il controllo sul progetto. Tutto si regge sulla certezza di tale corrispondenza, o meglio, sulla certezza che tale corrispondenza sia vera; che è come dire che qualcosa è ritenuto vero perché corrisponde a qualcos’altro. Questa è una concezione antica della verità, sintetizzata dalla formula tomista adaequatio rei et intellectus.


Ora, è particolarmente interessante ai fini dell’articolo inserire qui una breve digressione filosofica al riguardo. In “L’epoca dell’immagine del mondo” (2002) Martin Heidegger elabora un’analisi metafisica dell’età moderna a partire dalla trasformazione che la secolarizzazione opera proprio alla concezione della verità come adaequatio. Secondo Heidegger, il problema che la modernità si trova ad affrontare è quello di capire cosa renda certa la corrispondenza nel momento in cui la garanzia che le rappresentazioni e il mondo corrispondano non è più fondata sulla bontà divina. La risposta che definirà il moderno si troverebbe nella filosofia di Descartes, lì dove la certezza di sé in quanto soggetto pensante (cogito) diventa la sola certezza non intaccabile anche dal più radicale dei dubbi. Il cogito, solo segmento della realtà in grado di garantire certezza, è così l’unica conoscenza la cui certezza non sta in altro ma in sé, ciò che può dirsi autogarante o ab-soluto, cioè non vincolato da altro, e pertanto ciò su cui fondare ogni altro sapere. Heidegger prosegue l’analisi caratterizzando la natura dell’azione di veridizione del cogito: non si tratta di un percepire – attività ingannevole ed esposta al dubbio – bensì di un rappresentare (vor-stellen), un porre davanti a sé, nello spazio di certezza di cui il soggetto è garante, i cogitata, da cogliere in pura evidenza ossia con chiarezza e distinzione. La posizione necessaria perché il mondo sia rappresentabile è quindi quella dello star di fronte, dello star di contro (Gegen-stand) al soggetto rappresentante: l’oggettualità1. Nella rappresentazione – argomenta Heidegger – il soggetto dispone, anticipandola attraverso la disposizione di un oggetto, della conoscenza di un pezzo di mondo. L’anticipazione così intesa è quella che, in modo eminente, attua la fisica moderna; per esempio, la funzione matematica del moto di un corpo – una rappresentazione chiara e distinta di un fenomeno reso oggettivo - permette di calcolare, prevedendola, la traiettoria di quel corpo2 (fig. 1).

Tafuri coglie in modo molto nitido queste implicazioni: l’oggettività (del metodo) – indice di un’azione di rappresentazione – permette il controllo – forma di conoscenza anticipata – del progetto. L’analisi heideggeriana indica quello che in un certo senso si potrebbe definire il mezzo attraverso cui l’azione di rappresentazione si trasmette, ovvero la struttura costituita da un soggetto e un oggetto che vi è posto di fronte.

La questione delle mura diventa questione squisitamente architettonica quando l’architettura si assume come soggetto ab-soluto e, tracciandone i limiti, pone la città di fronte a sé nel disegno di progetto, come un tutto chiaro e distinto di cui disporre. Questa possibilità, per dirla con il Descartes di Heidegger, si istituisce se è posto un altro tipo di mura: quelle tra dentro e fuori, tra soggetto e mondo, tra architettura e città. L’azione del progetto di trasmettere attraverso questa struttura metafisica: dal soggetto rappresentante all'oggetto rappresentato.


Per il progetto del Parco Archeologico si poteva contare su questa modalità d’azione. Ma così non si è fatto, perché? Perché la questione generale che il progetto delle mura ha posto, non era evidentemente una questione riducibile alla disciplina dell’architettura. O, meglio, si è constatato che a trattarla come una questione di esclusiva pertinenza dell’architettura non si sarebbe stati in grado di mettere in azione un progetto efficace (fig. 2).

Lo spazio intorno alla Porta Palatina si è rivelato infatti refrattario a una interpretazione unidirezionale, e ci si è trovati piuttosto a muoversi in un delicato ecosistema di valori relativi, anche in contrapposizione tra loro. Aimaro Isola, autorevole co-autore del progetto, scrive che le mura, come le «siepi, i confini, quelli tra dentro e fuori, tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra persone e natura, tra organico e inorganico, sono sempre più insicuri, difficili da osservare e quindi da raccontare e da disegnare... la natura, i paesaggi, non sono solo il contesto – di là delle mura e delle siepi – il fuori con il quale dobbiamo confrontarci. In qualche modo, mura e siepi non sono cose, oggetti staccati dall’io, ma si prolungano in continuità di fili che ci attraversano, ci costituiscono, si intrecciano in noi» (cfr. in questo stesso numero di EWT). Questa osservazione si inserisce in una sua più generale presa di distanza dal termine contesto: «ho, da tempo, il sospetto che il termine contesto, che tutti abbiamo abbondantemente usato e amato, sia, se non fuorviante, almeno insufficiente a esprimere le tensioni che il progetto di architettura può veicolare... Progettando non pensiamo solo ad una cosa che si posa in un dato luogo e che in essa si trovi a suo agio, oppure ad un soggetto che usa il luogo come oggetto, imponendosi, ma anche a forze vitali, fili che si intrecceranno, formano, trame, nodi, fra cose e corpi, tra natura e artifici, tra ciò che è e ciò che sarà» (Listo e Riviezzo, 2020, p. 33-34).

La proposta del Parco Archeologico nasce quindi dal riconoscimento dell’azione delle molte istanze coinvolte nell'area, e dei loro reciproci legami. Istanze che agiscono insieme e in relazione all’azione del soggetto che le osserva, e che dovrebbe identificarle distintamente. Una identificazione singolare che il soggetto rappresentante non è costitutivamente in grado di compiere, non fosse altro perché, calato nella mediazione, non ha modo di porsi come ab-soluto. Ecco la questione che pone, oggi, il problema delle mura: non il disegno di un perimetro che faccia della città un oggetto, un tutto rappresentabile in unità, piuttosto un lavoro di ricomposizione a partire da una prospettiva non ab-soluta, e che si svolge annodando e intrecciando attraverso l’azione di progetto trame polimorfe, parziali e contingenti (fig. 3).

Per studiare le caratteristiche di questa azione si può – e si deve – osservarla nell’ambito del caso specifico, come quello del progetto della Porta Palatina. Questo contributo prova però a generalizzarla per definire un presupposto teorico su cui fondarne l’efficacia. Per questo, serve nuovamente fare riferimento alla filosofia, ma con la speranza che tale digressione possa essere utile a inquadrare una dimensione che abbia, se assunta, il ruolo di stimolare conseguenti innovazioni operative. Il che significa chiedersi: qual è l’alternativa al soggetto rappresentante? 

Mary B. Hesse, filosofa e storica della scienza, in “Forze e Campi” (1962) notava come nella storia di teorie e modelli fisici per l’azione a distanza, cioè l’azione che un corpo esercita su un altro, si alternassero due presupposti metafisici di fondo: quello del discreto e quello del continuo. Da una parte, partendo dal presupposto del discreto, si ha per esempio la gravità newtoniana, dove il concetto di forza definisce l’azione di una massa sull’altra, lasciando però il problema – allo stesso Newton innanzitutto – di spiegare cosa questa forza fosse o come si trasmettesse nel vuoto ipotizzato tra le masse. Dall’altra, si ha il presupposto di realtà continua, dove non c’è vuoto, ma per esempio il campo elettromagnetico, e il modello fisico può spiegare l’azione come una trasmissione attraverso il campo. Un po’ come delle onde che increspano la superficie del mare. Le teorie fisiche adottano, a seconda dell’efficacia esplicativa3 una o l’altra concezione: dal meccanicismo all’elettromagnetismo, da quest’ultimo all’atomismo, e da questo alla relatività generale e alla meccanica quantistica, fino ai campi quantistici e al modello standard di oggi.

Con molta libertà, si prenda lo studio di Hesse per costruire la seguente analogia: così come nella storia delle teorie fisiche sull’azione a distanza si alternano due paradigmi, si potrebbe dire che nella storia dell’azione del progetto di architettura accada qualcosa di simile. Riprendendo la domanda sopra, se l’azione di rappresentazione è sostenuta dall’istituzione del paradigma soggetto-oggetto, cosa può sostenere – cosa è presupposto a – un’azione che volesse svolgersi in diverso modo? Continuando a giocare con l’analogia: si può essere newtoniani e costruire una teoria a partire dalle masse che sono soggetto e oggetto, oppure no, e basarsi sull’ipotesi del continuo, cercando di definire la consistenza e le proprietà dello spazio tra le masse, quell’apparente vuoto lasciato sullo sfondo del paradigma moderno4 che, come detto dell’area del parco archeologico, al contrario del vuoto in cui le azioni si trasmettono in modo costante e uniforme, oppone un’eterogenea resistenza. La comprensione di ciò che sta tra diventa così fondamentale per valutare l’effettività dell’azione: capire come si propaga l'azione serve a capire quanto questa possa essere efficace. Ma a cosa potrebbe corrispondere il continuo?

La filosofia del Novecento è anche una faticosa decostruzione del paradigma moderno. Si è visto qui con Heidegger, ma sono in tanti a essersi confrontati con quel modello di soggetto e di rappresentazione. La ricerca di alternative parte quindi dai risultati di questo scontro. Se ne prendono qui brevemente in considerazione un paio tra quelle emerse negli ultimi cinquant’anni e attualmente tra le più influenti5, mettendo a fuoco ciò che le accomuna rispetto alle condizioni dell’azione.

Il concetto di assemblaggio (agencement)6, coniato da Gilles Deleuze e Félix Guattari viene definito dagli autori come una molteplicità di parti eterogenee che costituiscono una simbiosi per una certa durata di tempo, creando nuovi funzionamenti (Deleuze e Guattari, 2017). Il termine originale francese comunica in modo immediato che l’assemblaggio è agentività, produzione di effetti, aspetto esplicitato in polemica con il pensiero rappresentativo; l’assemblaggio non rappresenta un pezzo di mondo, piuttosto è un pezzo di mondo in azione. L’Actor-network theory (ANT), nata all’interno dei Science e Technology Studies (STS) per opera di Bruno Latour, Michel Callon e John Law si può considerare, al netto di alcune differenze sostanziali, quasi una versione empirica dell’assemblaggio. Al centro dell’ANT ci sono le relazioni che le entità, che siano umane o meno, stringono tra loro. L’assunto fondamentale è che l’agentività qui è equivalente all’essere in relazione, e che l’azione sia possibile attraverso le associazioni che vanno a costituire legami e reti, gli unici agenti possibili (Latour, 1996). Anche qui, soprattutto nel lavoro di Latour (2009), si consuma una battaglia di emancipazione dal pensiero moderno, interpretato come il pensiero della separazione e della distinzione; sostenere che non ci sono scienza da una parte e società dall’altra, è sostenere che le mura sono in rovina. Al loro posto ci sono appunto assemblaggi e actor-networks; reticoli multiscalari, dalle gerarchie relative e mutevoli, di cui non si riescono a definire i limiti. Sia nell’assemblaggio che nell’ANT c'è l'impossibilità di giungere a una visione del tutto, a una conclusione, quindi a una rappresentazione completa. Deleuze e Guattari arrivano a usare il Castello di Kafka come metafora di assemblaggio (Deleuze e Guattari, 1986): una costruzione che si continua a esplorare passando da una stanza all’altra, ma di cui non si riesce mai a cogliere l’organizzazione complessiva. Nell’ANT, poi, la dimensione topologica si sovrappone a quella fisica, moltiplicando le relazioni di distanza e prossimità contenute in uno spazio. Presupporre che l’azione del progetto di architettura si propaghi attraverso gli assemblaggi o gli actor-networks, implica un ripensamento della stessa concezione di progetto – o quanto meno delle sue modalità operative – in vista della sua efficacia.

In un certo senso, oggi, ci si trova con l’esigenza contraria rispetto a quella avvertita da Tafuri nel testo citato sopra, là dove Tafuri scriveva programmaticamente come l’architettura fosse da ricondurre ai suoi elementi primi e al suo ‘grado zero’, allo scopo di introdurre un’oggettività nella rilevazione dei fenomeni che potesse soddisfare il bisogno di principi costanti e permanenti (1968, p.199). Piuttosto di ricondurre a sé la misura dei fenomeni, l’architettura dovrebbe cercarla fuori di sé, nella variabile impermanenza dei processi del mondo.




Note

1 Il termine tedesco per oggetto è Gegenstand.
2 Il discorso di Heidegger serve a definire quello che a parer suo è il profilo della scienza moderna in funzione del suo sistema filosofico. Ma al netto del suo pensiero è significativo come un’argomentazione molto vicina si ritrovi per esempio nel Foucault de ‘Le parole e le cose’ (2018).
3 La storia dell’alternarsi dei paradigmi scientifici è molto più complessa e non limitata al laboratorio scientifico, ma si può sostenere comunque che l’adozione di ipotesi sulla costituzione della realtà fisica sia fortemente correlata all’efficacia nell’incrementare conoscenza.
4 Ironia vuole che Descartes avesse una concezione continua del mondo fisico.
5 Ve ne sarebbero altre, basti citare qui la Documentalità (Ferraris, 2014).
6 Nell’edizione italiana viene preferito il termine concatenamento per tradurre agencement, qui si mantiene assemblaggio essendo quello con più ampia diffusione, e anche quello più usato da vari prosecutori, si veda Delanda (2006).


Riferimenti bibliografici

DeLanda, M. (2006), A new philosophy of society: assemblage theory and social complexity, Continuum, London, UK
Deleuze, G., Guattari, F. (1986), Kafka: toward a minor literature, University of Minnesota Press, Minneapolis, USA
Deleuze, G., Guattari, F. (2017), Mille Piani, Orthotes, Napoli-Salerno, IT.
Ferraris, M. (2014), Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari, IT.
Foucault, M. (2018), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR Rizzoli, Milano, IT.
Latour, B. (1996), “On actor-network theory: a few clarification”, in Soziale Welt 47, pp. 369-81
Latour, B. (2009), Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano, IT.
Listo, T., Riviezzo, A., M. (2020), “Vivere con i luoghi: un’intervista a Isolarchitetti”, in Abitare la Terra n. 53, pp. 32-35
Heidegger, M. (2002), “L’epoca dell’immagine del mondo”, in Heidegger, M., Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano, IT, pp. 71-101.
Hesse, M. B. (1962), Forces and Fields. The Concept of Action at a Distance in the History of Physics, Dover Publications INC, New York, USA.
Tafuri, M. (1968), Teorie e storia dell’architettura, (ed. riveduta 1986), Laterza, Roma-Bari, IT.




 

 

 







 

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