Il grande filone della storiografia francese delle Annales ha prodotto, com’è noto, strumenti conoscitivi e operativi di grande importanza per le discipline legate alla conservazione e al restauro 1. Uno degli allievi di Jacques Le Goff, Pierre Nora, negli anni Ottanta ha messo a punto una serie di volumi che illustrano i lieux de mémoriein Francia, cioè i luoghi che portano con sé una carica che potremmo dire immateriale. Nora, anche sulla scorta dell’insegnamento di Braudel, insiste sugli aspetti geografici dell’analisi storica. Sono i luoghi nella loro conformazione orografica innanzitutto, ma anche nella loro capacità di accumulare e stratificare memorie. Questo richiama il valore del cammino, un moderno laico pellegrinaggio, così come dello storytelling e della narrazione condivisa. Di qui la creazione in Francia di percorsi, musei didattici, memoriali che ricordano eventi che fanno parte della memoria collettiva della nazione, soprattutto legati alle due guerre mondiali. Anche in Italia c’è stata una certa ricezione di questo concetto, come negli importanti lavori di Mario Isnenghi.
Ma c’è un aspetto di Nora che appare di particolare interesse: egli sembra porre in contrapposizione memoria e storia. Malgrado gli odierni abusi linguistici, non si tratta di sinonimi: la storia è una creazione intellettuale, difficile, che richiede rigore di metodo e chiarezza interpretativa e che trascende il soggetto che la elabora. La memoria invece è un fatto che attiene soprattutto alla sfera emotiva, attivandosi certamente in un quadro collettivo, ma pur sempre sulla base di un investimento individuale, che non accetta la cristallizzazione dal punto di vista storico. E si colloca quasi nell’ambito del sacro, come afferma Nora: intuizione su cui vale la pena riflettere.
Su questa base, la Francia ha dato l’avvio alla creazione di una serie di percorsi di memoria, destinati a commemorare memorie talvolta difficili, come le memorie della guerra, ma sempre costruendo un discorso comune. Ricordo qui Oradour-sur-Glane, in Francia, che De Gaulle volle fosse conservato nella sua crudezza di villaggio devastato dai nazisti (fig. 1), con l’obiettivo di non disperdere la memoria vivente del secondo conflitto mondiale, del dolore e della disperazione e delle sofferenze che patirono quanti furono sterminati nel tragico avvenimento (fig. 2). Un luogo straordinario – e devo la conoscenza ai colleghi spagnoli, in primo luogo ad Ascensión Hernández Martínez – è la città di Belchite in Spagna dove la stessa memoria venne conservata ma dal fronte opposto, quello franchista e antidemocratico, con un’operazione in bilico tra verità storica e
narrazione imposta dal regime (fig. 3, fig. 4).
Insieme ai colleghi spagnoli abbiamo cercato di fare il punto su questa attenzione alle “memorie in conflitto”, in una pubblicazione curata con Maria Pilar García Cuetos. Riflessioni su questo tema vedono naturalmente la cultura tedesca in primo piano – e cito qui gli studi di Gabi Dolff-Bonekämper- ma anche l’Italia è investita da simili tendenze: la conservazione dei campi di concentramento è argomento recentemente portato avanti da molti studiosi e progettisti di restauri, come Andrea Ugolini in un volume curato insieme a Francesco Delizia sul campo di Fossoli. Va qui richiamata, ad esempio, la diffusione in tutta Europa degli Stolpersteine o pietre d’inciampo, nati da un’idea dell’artista tedesco Gunter Demnig, che ricordano nomi e dati di deportati in tasselli da inserire nelle pavimentazioni di strade e piazze in corrispondenza delle abitazioni da cui le persone vennero deportate verso i campi di concentramento. Ma discorsi analoghi si stanno estendendo a tutte le passate dittature e ai periodi di terrore. Ad esempio in Cambogia, la vecchia scuola usata come luogo di torture oggi è diventata il museo del genocidio di Tuol Sleng, correttamente da un punto di vista della memoria collettiva, con la conservazione di tutti gli ambienti interni nella loro terribile nudità.
Anche in Italia esistevano campi di concentramento, e fin dalla prima guerra mondiale, come nel caso di Avezzano, nel centro dell’Abruzzo, dove fu costruito un campo per custodire i soldati catturati durante la prima guerra mondiale. Questo campo venne costruito dai prigionieri austroungarici con le macerie e sulle macerie di Avezzano distrutta dal terremoto della Marsica del 1915. Ospitò poi prigionieri anche della seconda guerra mondiale, in quella catastrofe nazionale che fu il periodo successivo all’armistizio del 1943 e successivamente gli sfollati in fuga dai bombardamenti. Una memoria che si intreccia fra lutti di origine diversa, intercettando anche la storia fisica della città.
Il campo venne realizzato un po’ al nord di Avezzano, in una posizione lontana e isolata, ma la città piano piano lo ha raggiunto nel corso degli anni: L’impianto era molto regolare, come un moderno castrum, su cui si disponevano le baracche dei prigionieri (fig. 5) e altre costruzioni destinate a varie funzioni, delle quali ancora molte hanno resistito fino a pochi anni fa, poiché utilizzavano già una struttura in cemento armato, sia pure elementare, in ossequio ai principi di prevenzione sismica. Alcune erano palazzine destinate agli ufficiali e al comando: una in particolare era l’ufficio-magazzino per i militari, uno chalet in legno del tutto spaesato nel contesto abruzzese, ma in realtà non raro negli anni della ricostruzione post 1915. Sulla città dei prigionieri si è infatti costruita la moderna Avezzano, i cui edifici sono inframmezzati da ruderi ormai ridotti a zone di risulta, perché la popolazione non ne ha accettato di fatto la memoria e gli oneri che questa comporta. Il resto più evidente e significativo è lo chalet dei magazzini del comando (fig. 6), ma le altre baracche ormai sono quasi del tutto scomparse, malgrado i tentativi di difenderne gli ultimi resti consistenti da parte di associazioni locali - come il battagliero Comitato Abruzzese Paesaggio - e della soprintendenza.
Come sempre in questi casi, le responsabilità della conservazione vengono addossate esclusivamente alle istituzioni pubbliche, sulla base di una constatazione che sentirete spesso anche voi: «ma se è così importante, perché la soprintendenza non pone il vincolo?». Ben sapendo che la soprintendenza non può vincolare, sia per ragioni di personale e di budget, sia perché non si può vincolare tutto, e molto possono fare anche le altre amministrazioni, come quelle comunali. È comunque innegabile il forte intreccio tra città del presente e memorie “negative”, secondo quanto individuato da Jean Louis Cohen nella mostra Architecture in uniform, dove si mostrava la terribile “normalità” della guerra e delle sofferenze da essa provocate. Il caso di Avezzano mostra che la memoria non sempre può essere senz’altro condivisa, e che spesso si ha anche la necessità di superare il passato, circoscrivere il ricordo solo ad alcune forme di narrazione – ad esempio quella scritta – anziché imporne la presenza ad un pubblico che ne rifiuta il carico. Insistere troppo sulla memoria non porta forse a esacerbare i conflitti che non riusciamo più a ricomporre? L’argomento è oggi di bruciante attualità e mi limito a citare gli episodi legati ad un passato che viene letto in chiave negativa, come negli Stati Uniti di America, dove le statue di Colombo vengono distrutte perché il navigatore è visto come l’iniziatore dello sterminio dei nativi di America e uno schiavista. Atteggiamento non diverso della distruzione dei colossi di Bamiyan da parte dei talebani: e mi permetto di far notare come le statue dei Padri Pellegrini, anglosassoni e protestanti, molto più coinvolti direttamente nello sfruttamento dei nativi d’America, non vengono toccate. Come si ricorderà, il conflitto è stato riattivato dalla difesa da parte della destra neo-conservatrice della statua del generale sudista Lee, ma dobbiamo renderci conto che stiamo attualizzando conflitti di un secolo e mezzo fa, senza nessuna prospettiva storica. Richiamo anche i contrasti nati a Chicago sul monumento “fascista” degli Stati Uniti, una colonna regalata da Benito Mussolini per celebrare la transvolata dell’Atlantico compiuta da Italo Balbo nel ’33: va notato che all’arrivo, Balbo fu incoronato come un capo indiano e salutato dalla popolazione in festa. La colonna si trova in un bellissimo parco di Chicago dove la maggior parte delle persone andava a fare jogging e speriamo che continui, malgrado le discussioni e le dimostrazioni.
Un articolo pubblicato sul “New Yorker” da Ruth Ben-Ghiat, docente di storia della cultura italiana a New York, criticava la presenza delle scritte fasciste su molti monumenti italiani. Una simile proposta avrebbe giustamente avuto senso negli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo e durante la liberazione, quando il rovesciamento del regime aveva un significato ben diverso. E la grande maggioranza delle scritte furono allora cancellate. Quelle che sono rimaste sono strettamente legate ad episodi monumentali, e hanno perso il loro carattere di richiamo ideologico: oggi la loro distruzione avrebbe forse il significato di attualizzare i conflitti, conseguendo probabilmente un risultato opposto.
Sul tema della memoria scomoda o divisiva, soluzioni molto interessanti sono state realizzate nell’Alto Adige, dove è sempre viva la grande discussione tra memoria e storia. Il monumento alla Vittoria di Marcello Piacentini fu costruito dopo l’avvento del fascismo, tra il 1926 e il 1928 per celebrare la prima guerra mondiale, sul luogo di un monumento che era stato dedicato ai soldati di Francesco Giuseppe, quindi dell’Impero austroungarico. Il nuovo arco trionfale doveva anche ricordare la figura di Cesare Battisti, irredentista trentino giustiziato dagli austriaci, nonostante le proteste della vedova che rifiutava l’evidente strumentalizzazione da parte della dittatura. Già negli anni Settanta, Alexander Langer, che fu un grande pacifista altoatesino, proponeva di storicizzarlo, trovando il modo di mettere il monumento piacentiniano tra virgolette. Dopo ulteriori polemiche sulla sua conservazione, in coincidenza con le campagne di restauro promosse dalla Soprintendenza, oggi il monumento è stato salvato e trasformato in museo.
Il passaggio di status non ha comportato distruzioni o cancellazioni, ma l’allestimento dei sotterranei, interessanti anche dal punto di vista architettonico, e l’apposizione di un anello attorno a una delle colonne, che ne indica l’inserimento in un percorso di conoscenza didattica di tutti i monumenti fascisti o nazisti di Bolzano (fig. 7).
Altro caso istruttivo, sempre a Bolzano, è la ex-Casa del Fascio, un edificio concluso nel 1942 e oggi a dir poco imbarazzante, perché sulla facciata campeggia un grande fregio che celebra le glorie del fascismo – tra cui un Mussolini a cavallo - all’epoca commissionato ad uno scultore altoatesino forse in un tentativo di inclusione della componente germanofona. Trasformato da sede fascista a sede di uffici delle Finanze, conserva il fregio gigantesco sulla facciata, completato addirittura nel 1957. Rispetto alle richieste di demolizione dell’edificio o cancellazione del solo fregio, si è deciso per un depotenziamento, ovviamente tra polemiche e discussioni, con un’operazione a parer mio molto intelligente. Davanti al grande bassorilievo, è stata installata una scritta luminosa che rende leggibile, soprattutto di notte, la frase di Hanna Arendt: “nessuno ha il diritto di obbedire” (fig. 8). Una chiara inversione delle imposizioni delle dittature, che rende possibile storicizzare il contenuto celebrativo della grande rappresentazione prendendone le distanze dal punto di vista ideologico, facendo sì che la conservazione e il restauro dell’edificio non siano sentiti come esito di una manipolazione a fini politici.
Un altro tentativo di “uscire dalla storia” prende corpo in questi anni, nel tentativo di leggere il patrimonio architettonico nel suo carattere utilitario e quindi passibile di modificazioni che ne attualizzano, ogni volta, il significato. Già nel 2015 una bellissima mostra alla Cité du Patrimoine a Parigi (Un bâtiment, combien de vies?) poneva in primo piano il fatto che un edificio può vivere diverse vite nella sua storia, proponendo prestigiose e radicali trasformazioni, prevalentemente “d’autore”: l’accento era posto prevalentemente sul ruolo della destinazione funzionale, che dovrebbe risolvere quasi automaticamente le altre questioni poste dalla conservazione dell’edificio. Questo approccio riemerge con la tendenza all’adaptive reuse, che è stato lanciato da parte della Commissione Europea nel 2018, anno europeo del patrimonio. La Dichiarazione di Leeuwarden che ne è scaturita è un lucido tentativo di uscire dall’impalcato teorico umanista, ma senza riferimenti alternativi che non siano frutto di un pragmatico adattamento al presente. L’attenzione è rivolta al built heritage, il cui riuso apporta benefici in termini culturali, sociali ed economici alla società. I processi attuativi si basano, tra l’altro, su flessibilità, partecipazione dei cittadini, affidamento a seguito di regolari concorsi, multidisciplinarità: una opportuna narrativa – lo storytelling già citato – è decisiva per valorizzare la storia dell’edificio e rafforzarne il valore. I lavori preparatori presso la Commissione Europea nel corso del 2018, presentarono l’adaptive reuse come un metodo idoneo per cercare di rispondere ai problemi posti dalla dismissione di tre grandi classi patrimoniali: le fabbriche e le installazioni industriali; le caserme; gli edifici di culto, visti come grandi spazi sicuramente vuoti, con un pragmatismo che non tiene conto di altri valori.
La Dichiarazione di Leeuwarden invita ottimisticamente al dialogo tra patrimonio e architettura contemporanea, frutto di una riflessione equilibrata tra passato, presente e futuro. Alcune premesse al tema dell’adaptive reuse derivano da un libro di Liliane Wong, una studiosa americana che enumera vari casi di riuso adattativo o flessibile. Probabilmente questa è la modalità che la comunità europea chiede: Wong illustra una casistica pertinente, ma gli esempi sono piuttosto concepiti in un’ottica che esclude il “primato” dell’edificio, in cui l’interpretazione prevarica la conservazione, del tutto in linea con alcune pratiche vigenti negli Stati Uniti – alcune, perché a volte negli USA si può essere molto rigorosi in fatto di conservazione - ora importate nella cultura europea. Ad esempio, un edificio di San Francisco, una delle ultime testimonianze rimaste illese dall’incendio, viene riutilizzato mettendo letteralmente “sottovetro” la facciata, ma forse non è questo che avremmo chiesto ad un intervento di conservazione. Un caso interessante: la gotica chiesa dei Domenicani di Maastricht oggi è adibita a libreria, con sale destinate alla lettura o alla ristorazione, ma certamente l’intervento non punta alla comprensione dell’edificio – illustre e affascinante costruzione medievale, con molte sovrapposizioni – quasi senza consapevolezza delle sue caratteristiche tipologiche e costruttive. Più interessanti i casi in cui il riuso flessibile costituisce una critica alla preesistenza su cui insiste, come nell’intervento di Günther Domenig sull’edificio progettato da Albert Speer a Norimberga per le adunanze naziste. Durante la conferenza preparatoria di Lovanio (15 febbraio 2018) una studiosa come Fani Mallouchou Tufano in rappresentanza di “Europa Nostra” si è battuta molto per richiedere soprattutto dei limiti da imporre alle trasformazioni richieste dalle pratiche del riuso. Infatti, non si ragiona mai sul livello a cui possono arrivare queste trasformazioni, lasciando intendere che tale limite non esiste. Una discussione sul destino di questi edifici dismessi raramente coinvolge il pubblico, per privilegiare piuttosto interesse commerciali o chiaramente speculativi. Fani Mallouchou ricordava l’esigenza della conoscenza storica, la necessità di disporre di un rilievo scientifico, soprattutto la consapevolezza della storicizzazione della preesistenza, quindi la possibilità di tener conto di tutte le interpretazioni che si sono sedimentate sull’opera.
Molti degli edifici a cui si riferisce l’elastica categoria del riuso adattivo non rientrerebbero, comunque, nelle maglie della tutela istituzionale, almeno in Italia. La legge italiana, infatti, estende la tutela alle realizzazioni con almeno settanta anni di vita: un criterio stabilito già dalla legge 1089/1939 (che richiedeva però soltanto cinquanta anni), per porre una certa distanza temporale tra il momento della creazione/esecuzione e quello del riconoscimento di interesse per la cultura. Ma come comportarsi per quelle opere – e in particolare gli edifici, coinvolti da pressioni immobiliari e commerciali che agiscono in misura molto minore sulle altre forme artistiche – che hanno meno di settanta anni e sono quindi soggette a demolizione, trasformazione, cancellazione, senza che le competenti Soprintendenze possano agire? Da molti anni, il Ministero, e per esso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea, sta provando a utilizzare un altro strumento giuridico, la legge 22 aprile 1941, n. 633 (successivamente modificata e integrata) sulla “protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”: non tuteliamo un’opera a seguito di un “riconoscimento”, come afferma la 1089, ma in quanto opera di un artista o di un architetto importante. Questa legge protegge le creazioni letterarie e musicali, così come quelle di pittura, scultura, architettura, cinema. L’autore ha il diritto di rivendicare la paternità anche in vista di eventuali trasformazioni, opponendosi ad ogni forma di alterazione incongrua: è quindi a lui che dobbiamo chiedere per modificare un’opera. Le cose cambiano per l’architettura: l’autore non può opporsi a modifiche richieste dalla committenza nel cantiere durante o al termine dei lavori, ma se all’edificio è riconosciuto di importante carattere artistico dall’autorità competente, tali cambiamenti tornano di sua spettanza (art. 20). Si tratta in sostanza una legge che protegge il diritto di un privato, del tutto diversa nell’impostazione e nella finalità dalla 1089 e dal Codice del 2004 che ne deriva. E infatti la legge tutela anche gli eredi, a cui si riconosce il diritto di intervenire sull’opera alla morte dell’autore (art. 23). Assume quindi una importanza notevole il progetto o meglio la volontà creatrice dell’autore, che fa premio sulla materialità della realizzazione e sulla sua storicità, intesa come successione di alterazioni e impieghi. Già Massimo Severo Giannini, uno dei nostri maggiori specialisti in diritto pubblico, negli anni Settanta sottolineava che il bene culturale “non è bene materiale, ma immateriale: l'essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinte, nel senso che esse sono supporto fisico, ma non bene giuridico”2.
Nel 2018, la Città del Vaticano per la prima volta ha partecipato con un suo padiglione alla Biennale di Venezia. Nato da una efficiente concertazione tra il cardinal Ravasi e Francesco Dal Co, curatore artistico del padiglione, è costituito in realtà non da un unico oggetto, ma da più cappelle ridotte all’essenziale, con l’altare e lo spazio per pochi fedeli in raccoglimento, come delle schegge di spiritualità realizzate da diversi progettisti. Ne è nato quindi un complesso che prende il nome di Vatican Chapels, inaugurato nell’agosto del 2018 sull’isola di San Giorgio Maggiore, nel bacino di San Marco, nell’area ancora verde di proprietà della fondazione Cini. Le cappelle sono state realizzate quindi in un parco aperto sulla laguna, con un notevole effetto sul contesto ambientale. Molte cappelle sono senz’altro di alto livello qualitativo: Eduardo Souto de Moura crea uno spazio sacro con l’uso di grandi monoliti montati solo grazie alla forza di gravità, senza impiego di leganti, creando un percorso quasi ipogeo; Norman Foster declina con grande mestiere il suo linguaggio più noto; Carla Juaçaba è una giovane progettista brasiliana che riduce la sua architettura ad un elemento estremamente lineare, la croce, e ad una sequenza di sedute minimaliste, il tutto in acciaio trattato in modo che sia specchiante, quindi riassorbito dal paesaggio, come ad esempio la croce che quasi scompare nel contesto (fig. 9).
Ma tutti i progettisti sono interessanti, anche per la loro provenienza dai vari continenti e per l’uso di materiali diversi: ad esempio Radic, cileno originario della Croazia, rievoca una delle piccole cappelle rurali che si trovano nelle zone desertiche del Cile, realizzandola con pezzi di spoglio e con un cemento gettato in casseformi foderate con pluriball per ottenere un particolare effetto superficiale (fig. 10), che avvicina la costruzione ad un riparo temporaneo eppure ricco di significati; mentre il giapponese Terunobu Fujimori realizza quella che all’apparenza riprende proprio lo schema tipico della cappella, ma come in tutti, ricercando una integrazione significativa con il contesto naturale.
Al termine della Biennale, vista l’impossibilità per la Santa Sede di provvedere alla manutenzione e alla salvaguardia delle cappelle e il rischio di manomissioni, viene quindi avanzata la richiesta di riconoscimento del diritto d’autore. La discussione che ne è nata all’interno del competente Comitato presso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea3, riconosceva nella questione alcune aporie: si tratta di tutelare e quindi poi mantenere e salvaguardare anche in futuro, creazioni che sono nate per essere temporanee. Questo è vero per tanti altri padiglioni, che sono stati salvati: però i materiali utilizzati – come appunto la cappella di Radic o l’acciaio riflettente di Juaçaba – pongono chiaramente, e porranno, problemi conservativi non da poco, con oneri notevoli che probabilmente finiranno per ricadere sullo Stato e per molti anni in futuro. Questi sono i problemi che pone la tutela di opere che ancora non sono state testate dalla storia e per di più nate senza un preciso orizzonte temporale di riferimento. Ma il valore delle “cappelle” è certamente innegabile: non sfugge il parallelo con la tipologia dei Sacri Monti, che nelle regioni alpine integrano piccoli spazi sacri con percorsi devozionali entro grandiosi paesaggi naturali. Per questo si è deciso di associare alla tutela delle singole cappelle, anche la manutenzione del verde, degli alberi e dei prati, con l’auspicio di rendere stabilmente pubblico il parco, in modo che sia sempre evidente ed esperibile l’integrazione tra architettura e natura.
L’aula meridionale del battistero di Aquileia è un’opera che non esito a definire straordinaria di Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, sulla cui qualità nessuno nutre dubbi (fig. 11).
L’edificio insiste su una incompiuta aula che doveva fiancheggiare il battistero posto di fronte alla basilica di Popone, ed ospita dei pavimenti mosaicati di grande valore. I progettisti hanno scelto di proteggere i resti del calpestio con una costruzione che fa uso di muri pieni, con un effetto che ricorda da vicino le murature realizzate con pezzi di spoglio che contraddistinguono tante architetture medievali. Si è trattato di una profonda innovazione nella protezione di resti archeologici, dove non per forza si deve usare il vetro, con allusione ad una ricostruzione senza che nessuno possa avere dubbi sulla modernità di questo intervento, proprio per il suo carattere minimalista. L’interno concentra l’attenzione del visitatore sui pavimenti, lasciati con l’ondulazione indotta dall’azione del tempo e degli uomini, e sugli altri reperti, come sarcofaghi e frammenti di mosaico: soltanto una grande apertura permette di capire la relazione con il contesto. L’esterno dell’area archeologica è più tradizionale, anche se molto raffinato ed efficace, nella rilettura del quadriportico antico attraverso il disegno pavimentale. Gli autori, cioè lo studio Tortelli e Frassoni insieme alla competente Soprintendenza chiedono il riconoscimento del diritto d’autore dell’opera per proteggerla da modifiche e aggiornamenti, causate soprattutto degli impianti. Ne è nata così un’interessante discussione, grazie anche alla presenza della Soprintendente, durante la quale, di fronte alla volontà di tutelare una creazione di alto livello, è emerso che l’intera area è ovviamente vincolata e quindi anche la stessa aula meridionale con i preziosi reperti che protegge: in questo caso, si sarebbe andato a sovrapporre un ulteriore strumento di salvaguardia. E che profilo assegnare ad un’opera che vive dell’interpretazione dei resti preesistenti, che si fa carico di figuratività e di spazialità pregresse, con grande sensibilità, ma senza potersene distaccare in una totale individualità? E quindi: si tratta della creazione di un autore contemporaneo del tutto nuova o non è piuttosto l’esito di una interpretazione di altissima qualità di un sito ricco di stratificazioni? Come nel caso del museo di Santa Giulia a Brescia, opera degli stessi architetti, si chiederebbe di tutelare l’impostazione progettuale, delegando ai soli autori e ai loro eredi qualsiasi prossimo intervento, escludendo del tutto la possibilità di trovare altre future soluzioni progettuali, anch’esse nate dalla interpretazione della preesistenza. È una decisione che fissa la realizzazione nel suo stato attuale, sul quale non si potrà intervenire se non chiamando gli stessi architetti o i loro eredi. E questo comporta anche dei problemi amministrativi, non da poco, nonché storiografici: un museo è infatti una interpretazione che può essere anche revocata, rivista. Tuttavia si tratta di questioni puramente teoriche, poiché il diritto d’autore è stato riconosciuto – e come poteva non esserlo in un’opera di tale valore? – ma le domande poste sono state tali da indurre ad un ripensamento globale della strategia di applicazione del diritto d’autore. Soprattutto si vorrebbe evitare di sovrapporre troppi strumenti di tutela e segnalare che la corretta gestione di un edificio dovrebbe essere condotta con strumenti “normali”, facendo appello alle regole del buon costruire, al di fuori delle quali anche le regole più coercitive rischiano di restare lettera morta.
Primato dell’immaterialità, dilatazione del concetto di patrimonio, insistenza sugli aspetti emotivi della memoria, preponderanza dell’approccio pragmatico al di fuori del tradizionale quadro umanistico, sono tutte costanti che stanno mutando profondamente il senso della conservazione del “segno storico” nelle nostre città. Sarebbe troppo lungo individuarne le ragioni e troppo al di fuori delle mie competenze, ma mi limito a segnalare due possibili piste da seguire. Un aspetto problematico riguarda proprio l’insistenza sugli aspetti immateriali e prevalentemente soggettivi, che nascono dalla crescente insofferenza nei confronti dei valori intrinseci dell’opera. Persiste infatti un sospetto nei confronti di progetti, anche culturali in senso lato, che sappiano interpretare l’edificio partendo dall’edificio stesso, con tutte le sue stratificazioni e le sue “contraddizioni” storiche. Infatti, affiora spesso un certo timore nel confrontarsi con aspetti diciamo veritativi, di sostanza. Vale forse la pena ricordare l’ultima coinvolgente lezione di Gianni Vattimo, in cui il padre del “pensiero debole” sosteneva che l’ermeneutica, lo studio dell’interpretazione di un testo non significa che questo non esista, non significa che è vera solo la nostra ricezione, e che non esiste un fondamento; piuttosto ha l’obiettivo di dimostrare che la verità non si fonda su ragioni metafisiche, non certo di dissolverla sotto l’azione delle tante interpretazioni. Il testo, così come l’opera architettonica, mantiene una sua realtà, ha le “sue ragioni”, come sosteneva anche Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione.
Forse si può ritrovare un dialogo con l’edificio, con la sua centralità in tutte le azioni di tutela, restauro, conservazione e valorizzazione. Ritengo che sia necessario partire dalle ragioni dell’edificio che noi abbiamo sottomano, forse ponendo in secondo piano le ragioni dell’autore o quelle del pubblico, e privilegiando invece, come in una ricerca di autodisciplina, le ragioni dell’altro, che è l’edificio in tutto il suo spessore materiale e storico, fatto di sovrapposizioni, interpretazioni, significati, alterazioni, ecc.
Un’altra considerazione riguarda il progressivo offuscamento del valore legato alla qualità estetica. Spostando tutto l’accento sui valori soltanto storico-testimoniali forse stiamo perdendo qualcosa e stiamo aprendo ad una visione spesso ideologica o moralistica del passato, con il rischio di caricare il patrimonio di un peso insostenibile, come le distruzioni di edifici, statue e monumenti inaugurata con la catastrofe dell’11 settembre 2001.
Richiamo in conclusione un filosofo inglese, Roger Scruton, conservatore, che ha dedicato buona parte del suo lavoro all’estetica, con idee innovative sull’architettura. La sua riflessione è fra le pochissime del nostro tempo che rifiuta la relatività del concetto di bello e, addirittura in opposizione ai principi kantiani, considera la bellezza come un valore reale, strettamente dipendente dalla nostra natura razionale: così intesa, la bellezza ha un ruolo irrinunciabile nella costruzione della vita umana. Per fuggire il kitsch, e oggi la mercificazione e il consumismo, l’arte contemporanea si è vista costretta a perseguire la novità e l’eccitazione, ma giungendo a soluzioni che Scruton definisce senza mezzi termini nichiliste. Potremmo leggere molte delle “ristrutturazioni” che compaiono nelle riviste di architettura come altrettante fughe dal kitsch del ripristino per approdare a soluzioni acclamate ed eccitanti, ma spesso autoreferenziali e pretestuose: e se si confronta la “dissacrazione” di questa produzione architettonica con la “sacralizzazione” della memoria vista in Pierre Nora, si avrà un’idea delle contraddizioni che attraversano la nostra odierna cultura del patrimonio.
Note
1. Il testo che segue è estratto da un più ampio contributo presentato al corso di eccellenza “La parola e la cosa. Due sguardi sul restauro”, a cura della prof. Chiara Occelli, Dottorato di ricerca in “Beni architettonici e del Paesaggio”, Politecnico di Torino, 4-5 novembre 2019, i cui atti sono in preparazione. Ringrazio la curatrice per aver concesso gentilmente la pubblicazione in anteprima.
2. Giannini M.S., I beni culturali, 1975-76, ora in (Giannini 2005) p. 1028; cit. in (Casini 2015).
3. Presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, Direzione Generale per la Creatività, è attivo un Comitato Tecnico-Scientifico per l’Arte e l’Architettura Contemporanee, con compiti di consulenza; componenti attualmente in carica (dal 2018): G. Barreca, F. Canfora, D. Tamborrino, C. Varagnoli.
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