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Mura urbane e aree archeologiche: da patrimonio mediterraneo a progetto.
Il caso della Medina di Tripoli (Libia).
Ludovico Micara
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Parole Chiave:                     Mura Urbane - Urban Walls, Aree Archeologiche - Archaeological Sites, Patrimonio - Heritage, Progetto - Project, Medina Di Tripoli - Tripoli’s Medina.

 

Abstract

La ricchezza e complessità del patrimonio storico, come i segni urbani impressi dalle tecniche di fortificazione e dagli scavi archeologici, conferiscono un valore aggiunto alle città affacciate sul Mediterraneo.
Le mura urbane della Medina di Tripoli, dal momento che vengono in contatto con sistemi urbani preesistenti alla loro costruzione, contribuiscono ad arricchire le qualità architettoniche e i valori della città.
Gli interventi difensivi storici, e gli scavi e le scoperte dei grandi siti archeologici in prossimità dei paesaggi urbani mediterranei, assumono dunque un potente ruolo di trasformazione, suggerendo nuove realtà e nuovi significati, ancora da decifrare.
È nella scoperta di queste nuove possibilità interpretative che risiede il fascino che tali studi ancora esprimono.




Introduzione

I sistemi difensivi e le fortificazioni sono state da sempre un potente elemento di disegno e di caratterizzazione del paesaggio. La messa in campo di strumenti atti a individuare e ad utilizzare le geometrie palesi o nascoste dei siti, sia che riguardasse la difesa di insediamenti urbani o di emergenti siti isolati, ha permesso il loro ridisegno in funzione strategica, insieme alla formalizzazione di una nuova più astratta immagine rispetto a quella naturale, e di un nuovo paesaggio artificiale.
Questo è tanto più vero dal momento che, con lo sviluppo da parte degli ingegneri militari, dal XVI° secolo in poi, dei nuovi trattati scientifici sulla balistica delle armi da fuoco, si diffondono i sistemi di difesa bastionati, molto più impattanti rispetto ai precedenti sistemi difensivi.
La loro messa in opera sulle coste meridionali del Mediterraneo, nell’ambito della reconquista delle città già occupate dagli arabi, e della nuova globalizzazione spagnola promossa da parte di Carlo V, mette in secondo piano i profili delle medine e dei centri antichi, con le loro cupole e minareti, producendo una generale trasformazione del paesaggio costiero.
Il caso di Tripoli di Libia (Micara, 2013-2), come di altre città storiche la cui formazione risale a civiltà urbane anteriori o contemporanee all’Islam, illustra un ulteriore capitolo di questa affascinante storia. Le nuove strutture difensive si innestano così su strutture urbane complesse, ricche di tracce archeologiche forti, evidenti anche nelle rigenerazioni arabo-islamiche, ma estranee alle “moderne” geometrie dei nuovi sistemi bastionati, con le quali vengono a patti, creando inediti compromessi e configurazioni innovative.
L’archeologia nelle sue varie forme, sia come tracce impresse nei tessuti urbani e nel sistema territoriale, o ruderi architettonici, o i tanti spolia inseriti in edifici più tardi, è una componente fondamentale della multiforme identità della città mediterranea. Spesso, tuttavia, un patrimonio così importante fatica a trovare il posto giusto nei sistemi urbani, piuttosto che divenire una preziosa risorsa culturale ed ambientale. Anche per i segni costituiti dai siti archeologici vale dunque la ricerca di una loro capacità di trasformazione dei territori e dei paesaggi.


Le mura di Tripoli

Un disegno nella Biblioteca Antica dell’Archivio di Stato di Torino rappresenta il sistema difensivo della città di Tripoli nel 1559, ma non la Medina in esso contenuta.
Il disegno rappresenta la situazione delle mura e del porto di Tripoli subito dopo il dominio spagnolo (1510-1530) e dei Cavalieri di Malta (1530-1551) (fig. 1).

Riconquistata la città nel 1551 dalla flotta ottomana comandata da Sinan Pasha (Micara, 2008-1), rinforzata dai combattenti arabi di Murad Agha, il nuovo governatore di Tripoli Darghut Pasha, che aveva favorito, con le sue navi corsare, la riconquista, nel timore di un nuovo attacco da parte dell’armata cristiana, si dedicò al rafforzamento delle difese militari e delle mura. Risalgono a questo decennio alcune nuove strutture difensive che compaiono nel disegno e ne suggeriscono una probabile datazione (Aurigemma, 1916), (Aurigemma, 1929). Tra esse il Castello bastionato (Saray al-Hamra, il Forte Rosso), nell’angolo meridionale delle mura pentagonali, circondato da un fossato, e sul lato opposto, all’estremità nord delle mura, un forte a pianta quadrata, detto di San Pietro, voluto da Darghut Pasha nel 1559, quando temeva di essere attaccato dall’armata di Spagna. Un ulteriore fortilizio, in alto a destra nella tavola, chiamato Castellejo e più tardi Burg el-Mandrik viene costruito sugli scogli che proteggono a nord-est il porto stesso, con un nuovo molo per l’attracco delle navi. Nell’immagine delle fortificazioni di Tripoli non è rappresentata la Medina. Dobbiamo ricorrere ad immagini più recenti (fig. 2, fig. 3) per capire il rapporto tra tali fortificazioni, l’abitato al loro interno, e l’impatto con i contesti urbani creati dalle espansioni coloniali e moderne all’esterno della Medina. Le nuove strutture difensive sono dunque inserite in un tessuto urbano complesso, ricco di forti tracce archeologiche, quelle della Oea romana, progenitrice dell’attuale Tripoli, evidenti anche nella città arabo-islamica. Tali strutture venendo a patti con le “moderne” geometrie dei sistemi di difesa bastionati, danno luogo a inediti compromessi e configurazioni innovative (fig. 4, fig. 5).
Conseguenza delle trasformazioni prodotte da tale impatto sono gli spazi di risulta tra questi diversi sistemi. Tali spazi, un tempo considerati “vuoti”, senza una precisa funzione e destinati agli usi più diversi, sono divenuti “spazi pubblici” di grande importanza per gli assetti urbani contemporanei e per determinare l’immagine della città mediterranea. Tra essi il vuoto tra il castello e la città coloniale, la cosiddetta Piazza Verde, teatro delle grandi adunate volute da Gheddafi, e le nuove strade di circonvallazione create sul sedime e al posto delle antiche mura demolite.

L’intervento coloniale italiano (1911), lasciava sostanzialmente intatto il tessuto urbano della Medina, a parte la liberazione del tetrapylon romano di Marco Aurelio e Lucio Vero dalla morsa dagli edifici circostanti, ma demoliva parte delle mura, soprattutto sul lato orientale, per ampliare e accedere più facilmente al porto. La lunga sosta nei lavori di riconfigurazione della città, dovuti alla Grande Guerra del 1915-18, termina nel 1921, anno in cui diviene governatore della Libia Giovanni Volpi di Misurata. Nel suo programma riveste grande importanza l’attività urbanistica ed edilizia orientata a trasformare Tripoli in capitale e sede del governo della nuova colonia (Talamona, 1993). Questo compito venne affidato ad Armando Brasini (Conforti, 1990), (Procida, 2009). Nel giro di pochi anni (1922-25) i suoi progetti ridisegnano il fronte a mare della città (Micara, 2006), recuperando lo spazio reso disponibile dalla demolizione delle antiche mura. I suoi interventi, dalla creazione del Lungomare Volpi, percorso di ingresso dalla città coloniale alla Medina e al Castello, alla rimodellazione dei fronti esterni del Castello stesso, trasformato nella straordinaria icona di un’architettura mediterranea senza tempo, al monumento dedicato ai caduti italiani della Libia e alla Vittoria, recentemente trasformato in un imponente serbatoio idrico nel punto più alto della città, dove un tempo sorgeva il Forte del Faro, al più tardo edificio del banco di Sicilia, oggi Cassa di Risparmio della Libia, sulla marina prospiciente il porto, veicolano un’idea scenografica di architettura, risonante di motivi classici e genericamente orientaleggianti.
Ma il tema urbano più significativo in tale ottica è il lungo travaglio progettuale che ha portato alla trasformazione dell’informe spazio antistante l’ingresso alla Medina da Sud, la cosiddetta Piazza del Mercato del Pane, sulla quale convergevano i percorsi provenienti dall’oasi a Sud-Est, nella Piazza Castello con il nuovo Municipio e le architetture neo-moresche del Teatro Miramare (Von Henneberg 1994). Trasformazione che si conclude con la creazione della grande piazza degli anni ’30, la cosiddetta Piazza Verde, spazio privilegiato per le manifestazioni e la retorica dei regimi, da quello fascista a quello di Muammar Gheddafi. La nuova piazza diviene così lo spazio pubblico centrale della città, alle porte della Medina e del Castello, punto di incontro e meta obbligata per chi proveniva dalle strade più importanti della nuova capitale coloniale (fig. 6).

La piazza si affaccia sul mare con una darsena di approdo cerimoniale incorniciata da due alte colonne a base quadrata, sormontata da due sculture in bronzo, rappresentanti la lupa romana da una parte e un veliero, simboleggiante Tripoli, dall’altra. Il chiaro riferimento alla straordinaria icona costituita dalle colonne di Piazzetta S. Marco a Venezia, ripresa d’altra parte anche da Florestano Di Fausto a Rodi, suggerisce il modello sotteso a questa realizzazione: la “piazza italiana”, non tanto nella sua versione rinascimentale, peraltro rimasta prevalentemente sulla carta, come utopia da realizzare, quanto nella versione che concretamente si è configurata nelle tante città storiche italiane, come luogo di raccordo e di incontro tra parti e tessuti urbani diversi (città medievale e città barocca, città antica e città moderna …), come spazio in cui si accostano e si confrontano le architetture più significative di particolari storie urbane.
Nonostante la sintesi mediterranea felicemente raggiunta in questa complessa operazione (la piazza ancora oggi è lo spazio pubblico più significativo della Tripoli contemporanea), il problema dei bordi della Medina si aggrava per la presenza di nuovi edifici, come i grandi alberghi nell’area nord-occidentale della città, o di nuove infrastrutture, come la beltway tra la Medina e il porto che, recidendo le connessioni storiche tra il tessuto urbano e il mare, isola ancor di più la stessa Medina (Micara, 2008-2) (fig. 7, fig. 8). Quello che fin dalle origini è stato costruito come un sistema urbano orientato verso il porto, non trova oggi accesso al mare ed è confinato e chiuso all’interno di una barriera difficile da attraversare. Lo spostamento del porto commerciale verso est, con maggiore disponibilità di aree libere e infrastrutture, potrebbe preludere alla riconsiderazione del tracciato e del peso della beltway, così da permettere la creazione di un nuovo porto turistico strettamente legato alla riabilitazione residenziale della Medina.

Nella nuova dimensione metropolitana della Grande Tripoli è tuttavia impossibile intervenire per elementi discreti, ma occorre una nuova visione strategica che interpreti la nuova scala geografica della città. Il progetto urbano del paesaggista francese Gilles Clément (Clément, 2005) demolisce una serie di tessuti degradati, residui, délaissé nella nomenclatura di Clément, integrando le aree libere così ottenute con aree di risulta o non sfruttate, per realizzare una grande cintura metropolitana costituita da giardini, spazi pubblici e servizi. Tale cintura, sviluppando le indicazioni di Clément potrebbe raggiungere ai suoi estremi anche il mare, saldando in un unico sistema lineare anche le presenti aree portuali, e potenziandole con servizi di livello urbano. Si ricostituirebbe così, anche alla scala metropolitana, quel rapporto tra aree residenziali e spazi pubblici, così importante per la qualità del tessuto urbano della medina mediterranea (fig. 9).

L’odierna Medina è dunque il risultato di una serie di riscritture dell’abitato tradizionale, da quello romano, a quello arabo-islamico, a quello ottomano, a quello del periodo coloniale italiano a quello contemporaneo. Riscritture che hanno trasformato un antico insediamento legato ai traffici di un porto collocato in un’ampia baia, nel cuore ancora vivo e pulsante, seppur con numerosi problemi, di una metropoli di oltre un milione e mezzo di abitanti.
Questa nuova dimensione ha completamente cambiato i rapporti tra le diverse parti della città. Già nel periodo dell’occupazione italiana di Tripoli, l’abbattimento di parti della cinta muraria, seppur conservatasi come sedime di nuove strade, aveva integrato la Medina con la città italiana degli anni ’30, dando luogo ad un inedito “centro storico” formato da tessuti urbani tradizionali, come quello arabo islamico basato sulla casa a corte, e quello primo novecentesco, basato sul rapporto tipo-morfologico tra tracciato stradale ed isolato. Oggi questo nucleo storico, molto più ampio della tradizionale Medina, è ancora facilmente riconoscibile, con le sue architetture, gli antichi monumenti, i portici novecenteschi, le “nuove” istituzioni della città coloniale. Ma già in questa prima riscrittura emergono alcune trasformazioni urbane legate alla nuova dimensione dell’abitato. Mentre tutta l’attenzione dei nuovi colonizzatori è concentrata sulla città cosiddetta italiana, dove sono localizzati gli edifici delle istituzioni del potere coloniale, il labirintico tessuto urbano della Medina è tenuto sullo sfondo delle geometriche prospettive dei nuovi assi urbani. Uno sfondo ancora poco conosciuto e in parte misterioso, abbandonato alle sue logiche insediative e modi di vita sociali e religiosi (Cabasi, 1979), la cui presenza è tuttavia necessaria e costituisce componente fondamentale dell’idea novecentesca di città del Levante mediterraneo. In questo tipo di approccio le trasformazioni più rilevanti si verificano nelle aree di tangenza, frizione e contatto tra i due sistemi urbani e quindi nei bordi della Medina. L’abbattimento di parti delle mura rende disponibili, come si è visto, i sedimi per la costruzione di nuove strade e di nuovi edifici pubblici, mentre parti più o meno ampie di tessuto prossime ai bordi vengono investite dall’attenzione “normalizzatrice” della amministrazione coloniale.


I bordi della Medina: spazi pubblici e progetto

Ancora oggi il problema dei bordi della Medina, nonostante le demolizioni, le trasformazioni prodotte al loro intorno, le relazioni con i tessuti urbani interni ed esterni alle mura, rimane irrisolto. Soprattutto in prossimità di aree in cui le mura sono ancora presenti e conservano una forte e significativa icasticità. È il caso del bordo occidentale, dove la striscia di spazio libero accanto alle mura è un vuoto, una risulta tra la Medina, in quel punto più alta rispetto al terreno circostante, la strada di circonvallazione e i grandi alberghi che la costeggiano.
Credo sia questa l’occasione per trasformare un “vuoto” in uno “spazio pubblico”, una sorta di parco lineare attrezzato tra la Medina e la città nuova.
Devo illustrare meglio questa affermazione.
Lo “spazio pubblico urbano”, almeno nel significato che usualmente gli attribuiamo è un termine relativamente recente e, tutto sommato, generico. Infatti non possiamo parlare di spazi pubblici per gli agorai delle polis ellenistico-romane, i fora e i balnea dell’antichità romana o i suk, bazar e hammam delle città arabo-islamiche e persiane, o i maidan persiani o spazi simili del Levante.
Questi spazi avevano una specifica destinazione funzionale (commerciale, istituzionale, rappresentativa, celebrativa, sanitaria) e una denominazione ugualmente precisa nella toponomastica urbana. La stessa considerazione possiamo farla per le piazze medievali e, a maggior ragione, per le piazze rinascimentali e barocche, legate alle esigenze formali delle scenografie rappresentative volute da nuovi “principi”.
Anche Il Movimento Moderno in architettura è scarsamente interessato agli spazi pubblici, riservando la sua attenzione al rinnovamento economico, tipologico e sociale del patrimonio edilizio tradizionale, nel disegno dei nuovi quartieri “razionali”.
Lo “spazio pubblico” non è caratterizzato da una o più funzioni specifiche. In realtà non ha funzioni. L’idea di spazio pubblico emerge in situazioni ancora non consolidate o formalizzate.
La nozione di “spazio pubblico” dunque è legata alla soluzione dei “vuoti urbani”. Il progetto tende a trasformare uno spazio “vuoto” in uno spazio “pieno”, ricco di significati e valori che gettano nuova luce sul contesto urbano, e istituiscono con esso relazioni innovative.


I segni urbani dell’archeologia: da Leptis Magna, Sabratha, Oea, a Tripolis

L’espansione di Tripoli, ad una più ampia scala geografica, ha investito anche il territorio lungo la costa della Tripolitania ad Est ed Ovest della Medina (Micara, 2013-1), avvicinandosi considerevolmente alle aree archeologiche di Sabratha (fig. 17-18) e Leptis Magna (fig.16), le antiche città romane che assieme ad Oea, progenitrice dell’odierna Medina, costituivano la federazione della grande Tripolis. Queste importanti aree archeologiche sono state scavate e portate alla luce da archeologi italiani all’inizio del secolo scorso (Bartoccini 1924-25). Ma la loro reale dimensione è molto più ampia di quella attualmente visitabile, in ogni caso cospicua, che riguarda prevalentemente gli edifici monumentali, templi e basiliche, i fori, i teatri e gli anfiteatri, le terme e parte delle insulae residenziali. Infatti al loro intorno esiste un ampio tessuto archeologico, ancora in parte non scavato, formato da ville suburbane, tombe, spesso di grande interesse, a cui si sovrappone in maniera del tutto spontanea e disordinata la periferia ancora incerta e in formazione della capitale. A tutto questo si aggiunge l’interesse turistico e il richiamo delle aree costiere che rischia di portare nuovi insediamenti in prossimità e a stretto contatto con le aree archeologiche.

In tale contesto il caso di Tripoli è alquanto particolare, dal momento che la Medina (Madinat al-Qadima) stessa è un sito archeologico (Ciranna, 2005) (Micara 2013-2), cresciuto sulle tracce dell’antica Oea romana. È ancora riconoscibile la permanenza, come tracce presenti nel tessuto urbano, dell’antico cardo, dei decumani, e di una serie di domus lungo la striscia costiera, quella più densamente abitata. Il magnifico tetrapylon di Marco Aurelio e Lucio Vero (fig. 19) è ancora presente, come straordinario monumento, sullo sfondo dei minareti arabo-islamici, nell’incrocio tra il cardo e il decumanus maximus. Ma l’attuale degrado della Medina, con molte aree vuote al suo interno, risultanti da crolli e distruzioni, potrebbe permettere il loro scavo per riportare alla luce la pianta e i resti archeologici della città antica.

È possibile allora pensare alla ricostituzione, nella nuova scala geografica metropolitana, del sodalizio urbano che aveva dato luogo alla grande Tripolis classica, dove le attuali aree archeologiche, con i loro servizi, rivestano il ruolo di grandi spazi pubblici ad integrare un’armatura urbana e territoriale forse troppo estesa e sicuramente ancora debole e non equilibrata per la qualità dell’abitare contemporaneo.


Patrimonio archeologico e nuovi paesaggi mediterranei

La ricerca archeologica, anche se non sempre motivata da interessi puramente scientifici, è stata storicamente un potente elemento di integrazione e di rapporti tra Nord e Sud del Mediterraneo. Ma non sempre le sue scoperte, i suoi siti sono entrati a far parte dei patrimoni identitari nazionali; come per esempio in Libia dove le città romane, Leptis Magna, Sabratha, Cirene…, almeno sotto il regime di Gheddafi, non essendo “islamiche”, erano considerate prodotti del “colonialismo” romano.
E tuttavia i siti archeologici hanno sempre costituito un aspetto essenziale dei paesaggi mediterranei.
Caratteristica principale che contraddistingue i siti archeologici delle regioni mediterranee, aldilà dell’importanza archeologica e monumentale dei siti stessi, è la qualità estetica e lo spessore storico e culturale del paesaggio in cui sono collocati. Questo fatto ha come conseguenza che la loro protezione e valorizzazione non riguarda solo il sito archeologico in sé stesso ma si estende al suo contesto ambientale e di paesaggio. Questa considerazione è tanto più vera oggi, dal momento che la crescita economica porta con sé la crescita insediativa e infrastrutturale, con forti pressioni sullo sviluppo turistico delle aree adiacenti i siti.
Mentre fino ad oggi tali problemi sono stati affrontati separatamente tra loro è importante che si affermi, anche a livello delle soprintendenze, l’idea della globalità del paesaggio nelle sue congiunte dimensioni storiche, culturali, fisiche e percettive.
Una ulteriore considerazione riguarda la dimensione spaziale dei ritrovamenti archeologici. Mentre tradizionalmente la ricerca archeologica ha riguardato prevalentemente i centri delle città antiche, recentemente, una volta che tali centri sono stati scavati e studiati, i lavori di ricerca e scavo si estendono sempre più ai loro bordi più o meno prossimi, con forti interferenze e sovrapposizioni con i moderni sistemi insediativi locali. Si sta sviluppando inoltre una ricerca archeologica a livello territoriale e regionale attenta a ricostruire la rete che connetteva in un insieme coerente i diversi resti sparsi nel territorio.
L’esperienza diretta, la familiarità, la “vicinanza dell’antico” diventa così sempre più parte integrante del progetto dei nuovi paesaggi mediterranei.
È possibile dunque pensare alla definizione di un nuovo concetto di museo del territorio, in cui può coniugarsi la dimensione del paesaggio culturale e quella della valorizzazione del patrimonio storico-archeologico. In questo quadro particolarmente interessanti appaiono quelle situazioni complesse in cui sia necessario approfondire l’iter di scavo-ricerca-studio-conservazione-divulgazione museale nel suo insieme, fin nelle valutazioni delle relazioni che il sistema museo instaura con il territorio e con le potenzialità del turismo culturale.
L’idea di patrimonio che emerge non è dunque, ancora una volta, necessariamente legata ad un’idea di pura conservazione. Quanto viene ereditato dal passato in tanto è patrimonio in quanto, anche attraverso delle trasformazioni al suo intorno, è in grado di modificare, trasformare, incidere positivamente sull’assetto del territorio e sul paesaggio.
Un’idea dinamica e viva di patrimonio sulla quale si è costruito più in generale il paesaggio e la cultura urbana mediterranea.




Riferimenti bibliografici

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