Abstract:
Roma è inerte non solo dal punto di vista fisico, urbano (l’urbs), ma anche dal punto di vista sociale (la civitas). I due aspetti sono fortemente interrelati, per cui partendo dalla inerzia della città fisica, probabilmente si smuove anche la componente sociale. Roma è immobile e trova nel suo straordinario patrimonio culturale, urbanistico, architettonico, archeologico, naturalistico, il fondamento della sua inerzia. È possibile trasformare questa inerzia in un valore, estrarre da essa innovazione e sviluppo? La città è bloccata, ma anche strutturata da tre anelli: le mura, l’anello ferroviario, il grande raccordo anulare. Tre grandi infrastrutture urbane inerti, di grande potenzialità inespressa, che attendono un progetto di riscatto e di valorizzazione. La figura dell’anello è in fondo il simbolo di questa radicata inerzia.
I grandi segni della storia, della geografia e delle infrastrutture incidono profondamente sulla forma della città, diventando essi stessi la condizione fondante delle trasformazioni urbane. Nella modernità e nel contemporaneo, alla inerzia della tettonica e della morfologia del suolo, alla resistenza dei grandi complessi edilizi ereditati dal passato si aggiunge l’irruente potenza delle infrastrutture della mobilità. Mentre nel passato erano la geografia del luogo e la permanenza del tessuto urbano preesistente ad influenzare l’organizzazione della città, dalla modernità i rapporti cambiano: sono le infrastrutture a imporsi, fino a cancellare ogni relazione con i caratteri geografici e storici del contesto. Lo sviluppo della città può essere interpretato attraverso la tensione che si instaura tra questi fattori, da come il piano e il progetto si confrontano con la resistenza del passato e la nuova infrastrutturazione urbana. L’inerzia urbana può avere intensità diverse: può essere radicata, latente, aperta alla integrazione o cedevole al progetto di trasformazione. Il futuro della città dipende in gran parte dalla rielaborazione delle potenzialità incorporate nella sua inerzia.
A Roma il discorso assume una sua specifica prospettiva. La città è inerte non solo dal punto di vista fisico, urbano (l’urbs), ma anche dal punto di vista sociale (la civitas). I due aspetti sono fortemente interrelati, per cui partendo dalla inerzia della città fisica, probabilmente si smuove anche la componente sociale. Roma è immobile e trova nel suo straordinario patrimonio culturale, urbanistico, architettonico, archeologico, naturalistico, il fondamento della sua inerzia. È possibile trasformare questa inerzia in un valore, estrarre da essa innovazione e sviluppo? La città è bloccata, ma anche strutturata da tre anelli: le mura, l’anello ferroviario, il grande raccordo anulare. Tre grandi infrastrutture urbane inerti, di grande potenzialità inespressa, che attendono un progetto di riscatto e di valorizzazione. La figura dell’anello è in fondo il simbolo di questa radicata inerzia.
Il sistema tuttavia non è chiuso, i tre recinti sono intersecati da grandi infrastrutture naturali: il Tevere che lega la città al mare e il grande parco dell’Appia Antica che, come un raggio verde partendo dal centro, sembra misurare, l’espansione della città verso sud est, verso il vasto territorio dell’area metropolitana. Il futuro di Roma è legato alla capacità di rinnovare nel profondo il ruolo degli anelli, rimuovendone l’inerzia e trasformandoli in infrastrutture ambientali permeabili e aperte sia verso l’esterno che verso l’interno.
Le mura Aureliane sono un patrimonio storico, archeologico, inestimabile, unico, eppure in abbandono. Se ne accorse certamente Christo nel 1974 quando impacchettò Porta Pinciana (fig. 1).
È ammissibile che dopo anni dalla elaborazione di un piano strategico per la valorizzazione delle mura cittadine, non si sia riusciti neppure a realizzare un parco lineare lungo il suo perimetro? Che non si sia visto nelle mura una grande risorsa per riqualificare parti di città, per restituire ai cittadini e ai turisti l’esperienza di un patrimonio straordinario, per farne una grande infrastruttura di riconnessione urbana?
L’anello ferroviario è più noto come limite per la regolamentazione del traffico che altro. È invece l’infrastruttura strategica che può garantire una più efficiente mobilità e accessibilità, ma anche un serbatoio di opportunità per la rigenerazione urbana. L’anello con i suoi diversi scali ferroviari dispone di un immenso patrimonio di aree, di fabbricati, di nodi, di intersezioni con le reti insediative, ambientali, culturali. È possibile che questa straordinaria risorsa abbia finora prodotto solo la stazione Tiburtina con gli uffici BNL? Perché a Milano c’è un progetto strategico sugli scali ferroviari e a Roma no?
Il Grande Raccordo Anulare ha assunto nel tempo un ruolo determinante nell’organizzazione funzionale della città, divenendo segno geografico e frontiera tra periferie urbane interne ed esterne all’anello, eppure nonostante le sue potenzialità è una infrastruttura autoreferenziale, “una macchina celibe” avrebbe detto Renato Nicolini, tutta incentrata sul trasporto privato, una infrastruttura ad alta congestione che attraversa la città, la unisce, ma non la integra. C’è da chiedersi, perché in tanti anni questa cintura che avvolge la città non si sia trasformata in una “green belt” secondo un progetto urbanistico sperimentato in tante città europee?
Il discorso richiede un approfondimento che faremo in tre interventi specifici, iniziando dalle mura intorno alla città.
Le mura Aureliane
La Roma imperiale non aveva bisogno di mura (quelle dei re e della repubblica avevano perso la loro funzione difensiva a partire dal II secolo a.C). Quando molti secoli dopo Aureliano decise costruire con rapidità le nuove mura, la scelta fu quella di adeguarsi alla struttura morfologica di una città straordinariamente grande (circa un milione di abitanti al tempo di Augusto), incorporando nel suo tracciato una pluralità di complessi edilizi esistenti: dal palazzo imperiale Sessoriano con l’anfiteatro Castrense, alla Piramide Cestia, al Castro Pretoriano, all’arco fatto costruire da Augusto sull’antica via Tiburtina nel punto di incontro di ben tre acquedotti. Il rapporto tra mura e acquedotti era del resto un carattere distintivo del sistema urbano di Roma. Gli acquedotti entravano nella città, si appoggiavano alle mura e alle porte, ne facevano parte per alcuni tratti. A Porta Maggiore, uno dei punti più alti della città, convergevano ben otto acquedotti, realizzando un nodo infrastrutturale e monumentale di grande potenza. Le mura Aureliane, realizzate nel 270-275 d.C. dall’imperatore Aureliano e sopraelevate da Onorio all’inizio del V secolo d.C., si sviluppavano per circa 19 Km intorno alla città. Il recinto era scandito da 300 torri distanziate tra loro di circa 30 metri.
A differenza di molte grandi città europee, come Vienna, Parigi o Milano, che distrussero i loro recinti murari per promuovere la loro modernità con un nuovo sviluppo urbano, Roma, dopo l’unificazione d’Italia, conservò le proprie mura, intervenendo solo nell’ammodernamento delle antiche porte e nell’introduzione di nuovi passaggi in relazione allo sviluppo della rete stradale. Delle antiche mura rimangono circa 13 Km (sono andati persi i tratti lungo il fiume e quelli che risalivano il Gianicolo e comprendevano un lembo di Trastevere). Si tratta di un sistema archeologico, storico e culturale unico e, nel contempo, di una infrastruttura urbana decisiva per il disegno e l’identità della città (fig.2). Tale patrimonio, tuttavia, non ha trovato nelle politiche di sviluppo della Capitale e in particolare nei suoi piani urbanistici una adeguata attenzione. Solo l’ultimo piano regolatore (approvato nel 2008) ha riconosciuto nelle mura Aureliane un ambito di programmazione strategica per la realizzazione di un parco lineare lungo il suo circuito. A distanza di oltre 10 anni non si sono avuti risultati concreti. Manca ancora un impegno politico in questa direzione e un progetto operativo unitario che consideri le mura come una risorsa e non un costo, una grande infrastruttura dello spazio pubblico, in grado di ricomporre la forma di una parte consistente della città, restituendo ai quartieri della prima espansione moderna nuovi luoghi di riferimento e spazi di aggregazione sociale.
Le mura Aureliane sono anche una grande infrastruttura narrativa attraverso cui è possibile ripercorrere la storia della città, cogliere i diversi caratteri delle direttrici di espansione che si dipartono dalle porte, le diverse qualità del rapporto tra l’interno e l’esterno delle mura. Questo potenziale narrativo e strutturante va reso effettivo attraverso opere e interventi che consentano la reale fruizione del sistema murario, a partire da un itinerario pedonale e un corridoio verde che si sviluppi con continuità. Una tale infrastruttura va vista come un’opera pubblica di base, un primo momento per una strategia più articolata, tesa a realizzare un grande parco lineare e fare delle mura una risorsa culturale ed economica, un attrattore per un turismo sostenibile e iniziative imprenditoriali. Intorno alle mura Aureliane non esiste un percorso pedonale (né tantomeno ciclabile), idoneo, attrezzato, in sicurezza, che possa consentirne la fruizione e la valorizzazione. Realizzare questo sistema può essere l’inizio di una nuova strategia di riconquista dello spazio pubblico. Si tratta di prevedere intorno uno spazio con ampiezza variabile a seconda del contesto, con penetrazioni verso l’interno e l’esterno; uno spazio di progetto che coinvolge il suolo nel suo spessore. In fondo si tratta di immaginare intorno alle mura una sorta di nuovo pomerio, importante come quello antico, uno spazio che liberi la visione delle mura, restituendole alla fruizione pubblica.
Le mura come infrastruttura narrativa della città
Camminando lungo il recinto murario, le mura non appaiono più come una barriera di separazione, piuttosto come una membrana porosa, una infrastruttura di passaggio e di transizione tra parti urbane. Le porte, in particolare, sono i nodi complessi di un sistema urbano radiale, ancora incardinato sulle vie consolari. Il movimento scorre a fatica attraverso le antiche porte, a volte ampliate con nuovi fornici come a Porta del Popolo (1887), a porta Pinciana (1909-1914), a Porta San Giovanni (anni ’20) e a Porta Metronia (anni ‘30); a volte demolite per lasciare spazio alle arterie stradali moderne come a Porta Salaria (1921) o affiancate da tagli come a Porta San Paolo e a Porta San Pancrazio (mura Gianicolensi). Per assecondare il crescente traffico automobilistico sono stati tagliati interi tratti di mura, come all’inizio di via Tiburtina o lungo via Toscana. In alcuni casi come su via Cristoforo Colombo (la via Imperiale) e via Nicola Zabaglia furono inseriti nel recinto murario nuovi fornici.
Le mura raccontano storie, portano nel loro corpo i segni delle trasformazioni, delle manutenzioni, delle ristrutturazioni (le più importanti sono quelle di Onorio che all’inizio del V secolo d.C. potenziò le mura, raddoppiandone l’altezza e quelle volute da Paolo III con le fortificazioni bastionate realizzate da Sangallo il giovane nel 1537. Le mura Aureliane si connettono a quelle secentesche di Urbano VIII, che da Porta Portese risalgono il Gianicolo e scendono alla volta delle fortificazioni della Città del Vaticano. Lungo le mura gli stemmi papali che hanno promosso i restauri e le ristrutturazioni, ma anche i segni e le memorie di battaglie e di scontri (intorno a Porta San Pancrazio le truppe francesi fronteggiarono, nel 1849, i garibaldini e le milizie del Repubblica Romana; vicino a Porta Pia troviamo i segni della breccia che consentì ai piemontesi di entrare in città; a Porta San Paolo, una grande lapide ricorda la resistenza dei romani, nel settembre del 1943, contro l’occupazione tedesca).
Il rapporto tra le mura e la storia della città è raccontato da una serie di spazi museali allestiti nello spessore delle porte: a Porta San Sebastiano troviamo il Museo delle Mura Aureliane (dal museo è possibile accedere al camminamento di ronda che si sviluppo per circa 300 metri con uno straordinario affaccio sul Parco dell’Appia Antica), a Porta San Pancrazio il Museo della Repubblica Romana e della Memoria Garibaldina, a Porta Pia il Museo storico dei bersaglieri, a Porta San Paolo il Museo della via Ostiense.
Piani Urbanistici
Quando nel 1870 Roma divenne la Capitale d’Italia, le mura iniziarono a interagire fortemente con lo sviluppo urbano. A differenza delle grandi città europee, le aree inedificate all’interno del recinto murario erano molto estese (oltre il 50%): ville, giardini, ma anche orti e vigneti rappresentarono immediatamente una grande risorsa. I piani regolatori del 1873 e del 1883 regolarono l’edificazione all’interno delle mura, avviando un processo di saturazione delle aree disponibili. È di questo periodo la realizzazione dei quartieri borghesi Esquilino, Castro Pretorio e Sallustiano che lambiscono le mura tra Porta Maggiore e Porta Salaria. Sulla strada che collegava il Quirinale a Porta Pia (la cui facciata interna fu progettata da Michelangelo) furono realizzati i Ministeri dell’Economia, della Guerra, dell’Agricoltura, quasi a sottolineare la continuità direzionale dell’asse voluto da Sisto V. Subito al di fuori di Porta Pia viene costruito il complesso del Ministero dei Lavori Pubblici e a ridosso del recinto del Castro Pretorio il Policlinico Umberto Primo. Al lato opposto: il quartiere popolare di Testaccio a ridosso della Porta San Paolo e prossimo al Porto fluviale e al Mattatoio (realizzato nel 1888 su progetto di Gioacchino Ersoch) alle cui spalle sono ancora visibili alcuni ruderi del recinto murario che si sviluppava lungo il Tevere. L’unico intervento di rilievo esterno in quegli anni fu il quartiere Prati in prossimità di Castel Sant’Angelo.
Il piano del 1909, voluto da Ernesto Nathan e predisposto da Edmondo Sanjust di Teulada, completò l’edificazione all’interno delle mura e avviò lo sviluppo della città moderna “fuori porta”. In quegli anni era in avanzata fase di realizzazione il quartiere Ludovisi che comportò la distruzione della grandiosa Villa Ludovisi Boncompagni tra via del Tritone e Porta Pinciana. Sempre all’interno del recinto murario, sul piccolo Aventino, si affermava il nuovo quartiere di San Saba (realizzato tra il 1906 e il 1921 con i pregevoli edifici di Quadrio Pirani). Immediatamente fuori porta Tiburtina prendeva forma il quartiere popolare di San Lorenzo, mentre al di là delle mura, tra Porta Pia e Porta Pinciana, una serie di edifici notevoli, tra cui gli stabilimenti Peroni progettati da Gustavo Giovannoni, la chiesa di Santa Teresa di Tullio Passarelli e l’elegante villino Marignoli di Giulio Magni, attivavano lo sviluppo dei quartieri Nomentano e Salario. In quest’area il piano di Sanjust aveva previsto un asse alberato, Corso d’Italia, come struttura di mediazione tra le mura e il nuovo fronte edilizio. A guardare bene, questo è stato l’unico tentativo di realizzare intorno alle mura una infrastruttura urbana di qualità, un pezzo di boulevard connesso con il Viale del Muro Torto che correva tra le mura del Pincio e Villa Borghese (da poco acquisita come parco pubblico). Niente di simile in altri tratti. Mancava del tutto l’idea di realizzare intorno alle mura un boulevard come circonvallazione interna. La vera circonvallazione era prevista all’esterno lungo il confine dell’espansione prevista dal piano.
Un asse alberato è rintracciabile nell’arteria stradale che corre lungo il lato interno delle mura tra la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme e quella di San Giovanni. Sanjust si limitò qui a rafforzare il preesistente collegamento tra le chiese. Tra le mura e il fronte edilizio di Viale Castrense fu realizzato un giardino pubblico, alla sua estremità, verso Santa Croce in Gerusalemme, fu in seguito inserito un capannone dell’azienda municipale trasporto. Il capannone fu abbattuto solo nel 2000.
Accanto alla Basilica di Santa Croce, nel sito del Palazzo imperiale Sessoriano, all’interno delle mura, fu realizzato, all’inizio del ‘900, il complesso della caserma del Principe di Piemonte (ora sede della Direzione Generale dello spettacolo e cinema, e di due musei militari). Un terzo museo, dedicato alla storia degli strumenti musicali, venne allestito in un nuovo edificio negli anni ’20. All’esterno del recinto murario fu distrutto il sito archeologico del Circo Variano che si spingeva oltre l’attuale Piazza Lodi.
Nell’insieme, è evidente come sia mancata, anche in un piano di qualità come quello del Sanjust, un progetto di valorizzazione delle mura urbane. Fin dall’inizio mancò un’attenzione progettuale a fare delle mura un sistema organico tra interno ed esterno tra città storica ed espansione. Le mura vennero conservate, ma si rinunciò a realizzare al loro intorno uno spazio moderno integrato al nuovo e all’antico, a progettare un vuoto, come parco e boulevard, capace di valorizzarne la straordinaria presenza. Le mura si affermarono piuttosto come confine funzionale e sociale tra settori urbani, tra un versante occidentale-settentrionale, caratterizzato da quartieri borghesi e destinazioni direzionali, e un versante orientale-meridionale popolare e produttivo.
Il piano del 1931 (nel gruppo di progettazione Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini) confermò tale orientamento. Il tracciato esterno delle mura assunse il ruolo di una arteria stradale ordinaria, piuttosto un raccordo che una vera e propria circonvallazione. C’è da chiedersi il perché di questa sottovalutazione in una fase in cui tutta l’urbanistica romana faceva dell’antichità classica e del mito imperiale il suo cardine. Solo Porta San Sebastiano, attraversata dall’Appia Antica, si sottrasse alla generale disattenzione. La porta fu restaurata e nei suoi locali fu ricavata l’abitazione del gerarca fascista Ettore Muti. In questo periodo, lungo il tratto di mura tra Porta San Giovanni e Porta Metronia, dove un tempo scorreva il canale dell’Acqua Mariana (intubato all’inizio del XX secolo) che alimentava una serie di mulini, vennero realizzati una serie di impianti sportivi a servizio dei vicini insediamenti per impiegati, tra cui il complesso ICP progettato da Innocenzo Sabbatini.
Alcune fotografie storiche degli anni ’40 mostrano il campo sportivo che poi diverrà la scuola calcio della Romulea e i campi da tennis del futuro circolo A.S.D. A ribadire forse la volontà di caratterizzare l’area dal punto di vista sportivo va segnalata la costruzione negli anni ’30 della palestra per la scherma progettata da Emanuele Filiberto Paolini. All’inizio di via Sannio, accanto alla Porta Asinaria che funzionava allora come passaggio pedonale fu realizzato un giardino pubblico, ma trai due Torrioni della Porta era già in operante un occasionale mercato di bancarelle, anticipazione del più ampio e articolato mercato di via Sannio che prenderà consistenza negli anni ’60 per il trasferimento dei commercianti del mercato di Piazza Dante.
In coincidenza con la preparazione delle Olimpiadi del ’60, il sistema viario intorno alle mura, da Piazzale Flaminio a Castro Pretorio, venne radicalmente trasformato. Scomparvero i marciapiedi e la linea tramviaria lungo il Muro Torto, venne dismesso l’edificio con l’impianto di ascensori che lo collegava con il Pincio. I sottopassi e le trincee lungo Corso Italia interruppero il dialogo tra il pregevole fronte edilizio e il sistema murario. La nova arteria in parte in galleria era un notevole progetto di ingegneria (di Ignazio Guidi), ma del tutto settoriale e indifferente rispetto alla forte presenza delle mura. L’intervento trasformò Corso Italia e il Muro Torto in un corridoio automobilistico a scorrimento veloce che impediva fisicamente il contatto con le mura. La frattura persiste ancora ed esprime una forte domanda di riqualificazione urbana.
Il Piano del1961 era tutto proiettato a sostenere l’espansione della città. Il suo punto di forza era la delocalizzazione delle attività direzionali dal centro lungo un sistema infrastrutturale che dall’Eur avrebbe dovuto svilupparsi fino a Centocelle e a Pietralata. La scelta del decentramento era largamente condivisa e ispirò il progetto Asse Attrezzato (il gruppo di lavoro era costituto da Vinicio Delleani, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Lucio e Vincenzo Passarelli, Ludovico Quaroni, Bruno Zevi), che ebbe il merito di visualizzare, con un disegno alla grande scala, il ribaltamento delle funzioni direzionali verso l’esterno, sostenendole con una potente rete infrastrutturale di connessione. Come è noto nell’arco di pochi anni il progetto SDO (Sistema Direzionale Orientale) fu prima depotenziato e poi progressivamente accantonato. L’ Asse Attrezzato dello SDO proponeva una tangenziale intermedia tra la cinta muraria e il raccordo anulare, tale sistema avrebbe consentito non solo di servire i quartieri del quadrante sudorientale, dall’Appio Latino a Pietralata, ma avrebbe realizzato la connessione con circonvallazione Nomentana- Salaria in direzione Foro Italico.
La complessità dell’operazione (l’attraversamento dell’Appia Antica ad esempio) costrinse a ricercare soluzioni più interne con l’obiettivo di utilizzare alcune arterie esistenti come via Marco Polo e via Cilicia (ultimata all’inizio degli anni’80 con il cavalcavia di Sergio Musmeci). La soluzione individuata per realizzare la connessione con la circonvallazione Nomentana-Salaria fu estremamente modesta e non all’altezza del problema. Invece di intervenire sull’anello ferroviario, in quel tratto in trincea, con un abbassamento del piano del ferro e la realizzazione sulla copertura di un adeguata arteria stradale, si entrò nel denso tessuto di Porta San Giovanni per addossarsi poi alle mura Aureliane lungo Viale Castrense e immettersi all’incrocio con l’Acquedotto Felice, sul tratto sopraelevato della Tangenziale Est (ultimata nel 1975). Al di là della scarsa efficienza e qualità dell’intervento, l’impatto della congestione automobilistica sulle Mura Aureliane fu devastante.
Degrado, incuria e aree progetto
Il degrado delle mura si intensificò negli anni successivi: le porte persero il loro ruolo di luoghi di appuntamento e d’incontro tra cittadini per divenire disordinati nodi di traffico automobilistico che escludono e disorientano il pedone. Eppure, lo spazio all’intorno delle porte, complesso, frammentato e caotico, rappresenta un tema di straordinario interesse progettuale. Così a Porta di Santa Maria Maggiore, un crocevia in movimento di flussi tramviari, ferroviari, automobilistici, con fermate del trasporto pubblico ricavate in spazi occasionali, (per il suo riordino esiste una proposta di Italo Insolera); così a Porta Salaria (dove dopo la demolizione del 1921 si riportò nella pavimentazione la traccia degli antichi torrioni, oggi del tutto illeggibile); così a Porta San Paolo, isolata e trasformata in una rotatoria; così a Porta San Giovanni (dove i pedoni transitano attraverso stretti fornici moderni) e a Porta San Sebastiano, dove la fermata degli autobus ha una sistemazione a rischio. Incredibilmente non c’è interesse, non c’è progetto. Lo spazio pubblico è assente, aumenta invece l’abbandono. Il degrado non è solo fisico, non è solo nelle strutture che hanno bisogno di interventi di manutenzione e di restauro per cui, nella loro attesa lungo le mura si susseguono precarie recinzioni arancioni, ma è sociale. Sono numerosi i tratti occupati da ricoveri di fortuna dei senza tetto, come a Porta Tiburtina, in prossimità della sede della Caritas, oppure lungo le mura di Viale Pretoriano dove l’estensione degli accampamenti trova un freno per la presenza del palazzo dell’Aeronautica Militare (progetto di Roberto Marino del 1929-31). Sporcizia e incuria si diffondono in ogni direzione, non risparmiando neppure i tratti caratterizzati dalla presenza di alberghi di pregio come a Via Campania, in prossimità di via Veneto.
Lungo le mura, sulle sue pareti e sul coronamento, troviamo un vasto repertorio di essenze vegetali: ailanti, sambuchi, fichi, allori, capperi, ginestre edere; ai piedi lacerti di prato. Lo spettacolo è attraente, pittoresco; come nelle incisioni di Piranesi la natura sembra riprendere il sopravvento sulle costruzioni. Ma anche questo è un segno dell’abbandono, la presenza del verde non è la premessa per un parco, costituisce invece il pericolo che le piante più infestanti come l’ailanto, possano radicarsi e scalzare la struttura in mattoni del recinto murario.
Il verde insinuato nelle pieghe del recinto murario rivela la sua complessa ecologia, il suo potenziale di rete di biodiversità, di elemento di connessione di una serie di parchi e di aree verdi distribuiti lungo il suo perimetro da Villa Borgese, a Villa Doria Pamphili, al Gianicolo, all’Orto Botanico, a Villa Sciarra, al Cimitero Acattolico, a Villa Osio (dove ha oggi sede la Casa del jazz), al Parco dell’Appia Antica, a Villa Scipioni, ai giardini di quartiere come quelli di Porta Metronia e di Via Carlo Felice. Il parco intorno alle mura è necessario anche da questo punto di vista, ma, nonostante, l’enfasi data dal Piano regolatore del 2008 sul suo ruolo strategico, resta un obiettivo tutto da costruire. Lo scarso interesse dell’amministrazione comunale per la valorizzazione delle mura è del resto testimoniato dalla permanenza lungo il suo perimetro di aree di servizio di aziende municipalizzate come l’Acea e l’Ama, quest’ultima, in particolare, vi ha installato dei nodi logistici per la raccolta dei rifiuti (a via Sannio e a l Viale del Campo Boario).
La fruizione delle mura, la loro stessa visione è impedita da una pluralità di destinazioni d’uso per attività sportive, per aree artigianali, per magazzini come a Via Sannio dove troviamo anche abitazioni private e un teatro. Era un costume consolidato consentire di allestire nel corpo delle mura, soprattutto nelle torri, residenze e studi per artisti; ora non più, ma resta ancora qualcosa di quella tradizione a Via Campania nella Scuola d’Arte Educatrice, il laboratorio di ceramica fondato da Francesco Randone nel 1894 e nel bastione di Sangallo il Giovane al Viale di Porta Ardeatina, dove lo studio dello scultore Corrado Ruffini è ancora affidato ai suoi eredi.
Non esiste un quadro aggiornato e dettagliato delle concessioni e delle destinazioni d’uso, ma il risultato è evidente: le mura non sono fruibili nella loro continuità, non c’è un progetto di valorizzazione e di restituzione di questo straordinario patrimonio alla città. Eppure, alcune operazioni potevano essere avviate da tempo: a partire dai marciapiedi che mancano o sono insufficienti per dimensione e qualità, oppure dalla mobilità e dalla circolazione automobilistica, intervenendo sulle sezioni stradali, restringendo o abolendo le carreggiate, introducendo dei sensi unici o pedonalizzando strade sottoutilizzate (come a Viale Castrense o a Viale della Porta Ardeatina), vietando il parcheggio delle auto lungo le mura. Realizzare un percorso pedonale e ciclabile continuo lungo le mura potrebbe essere un primo passo. Sono operazioni, semplici, di buon senso, pratiche che in tutto il mondo sono chiamate technical urbanism. In mancanza di altro anche la tattica è importante.
In questa direzione c’è maggiore attenzione da parte delle associazioni di base, da parte dei cittadini che riconoscono il valore delle mura come bene comune. Tra le iniziative va ricordato il programma Intorno alle Mura che ha organizzato una serie di camminate lungo la cintura muraria per scoprirne il valore monumentale e archeologico, ma anche il suo ruolo di infrastruttura narrativa, di grande traccia che tesse il racconto della città, del suo sviluppo, delle sue vicende edilizie ed urbanistiche. Intorno alle mura si intrecciano itinerari di archeologia e di architettura moderna (figg. 3 e 4).
La mappa redatta dal programma Intorno alle Mura ha individuato oltre 100 edifici moderni: dalle poste di Adalberto Libera a Porta san Paolo, alla Rinascente di Franco Albini e Franca Helg a Porta Salaria, al complesso polifunzionale dello studio Passarelli a via Campania, agli uffici di Luigi Moretti a Porta Flaminia, alle ali laterali della stazione Termini di Angiolo Mazzoni a Porta Tiburtina, alla Ambasciata della Gran Bretagna di Sir Basil Spence a Porta Pia. Tutti questi ambiti richiedono maggiore cura e progettualità(fig. 5).
Tra gli interventi più recenti, la realizzazione delle stazioni della linea metropolitana C a San Giovanni e a via Amba Aradam, entrambe in prossimità delle mura, esprimono una progettualità complessa che coglie il ruolo del sotterraneo nella struttura della città. Lo scavo delle metropolitane non aveva finora promosso una trasformazione dello spazio delle stazioni in progetti urbani più ampi, capaci di valorizzare le stratificazioni archeologiche e geologiche, integrando la funzione trasportistica con destinazioni d’uso legate alla cultura e allo spazio pubblico. La stazione della Metro C a San Giovanni, inaugurata nel 2018, ha avviato un processo in questa direzione. La discesa alle banchine (a- 27 m.) e la risalita divengono l’occasione per realizzare un percorso museale che attraversa le stratificazioni del suolo e ricostruisce la storia del luogo, dalla contemporaneità, all’età romana del I secolo d.C. (quando il sito era caratterizzato dalla presenza di una grande tenuta agricola), fino alla preistoria profonda. La stazione-museo, con la sua connessione alla linea metro A, realizza ai piedi delle mura uno spazio di transito che potrebbe dilatarsi e divenire, utilizzando infrastrutture della metro già realizzate, una piazza ipogea aperta sullo slargo di Porta Asinaria, ad una quota di cica 4 metri più bassa rispetto alla Porta cinquecentesca di San Giovanni.
Più avanti, seguendo le mura, la fermata Amba Aradam della metro C, in via di ultimazione, ripropone in forme diverse il tema dello spazio museale per la valorizzazione dei resti archeologici rinvenuti durante le opere di scavo (in questo caso una caserma del II secolo d.C.). Il progetto prevede di inserire il tratto di mura tra via Ipponio e via della Ferratella come elemento caratterizzante il patio di accesso alla stazione.
La proposta di rendere accessibile al pubblico il tratto murario potrebbe estendersi a tutto il segmento compreso tra Porta Metronia e Porta Asinaria, ricavando tra le mura e gli impianti sportivi che oggi occupano l’area, un percorso pedonale continuo (si veda in proposito le riflessioni di Pepe Barbieri su questo stesso numero di EWT).
Le stazioni Metro di San Giovanni e di Amba Aradam, che hanno rimesso in gioco la stratificazione archeologica come componente integrante del progetto urbano, aprono ad una prospettiva di valorizzazione del tutto nuova. Lo spazio intorno alle mura va inteso nel suo spessore, dal sottosuolo, al soprasuolo. Il pomerio diventerebbe così una sorta di banco minerale da trattare in sezione e nel suo spessore. Lungo le mura si aprirebbero una molteplicità di opportunità di intervento, vi troveremmo una sequenza di aree progetto in grado di rigenerare nel profondo il rapporto delle mura con la città.
Come abbiamo già ricordato, il Piano regolatore del 2008 aveva riconosciuto le mura come ambito di programmazione strategica, non solo le mura, ma anche il Tevere, l’Appia Antica e l’area archeologica centrale, l’asse Flaminio-Fori-Eur, l’anello ferroviario. Tutti ambiti strategici, legati alla struttura della città alla sua storia, alla sua identità, tutti ambiti determinanti per il suo futuro. Ma i progetti strategici non possono rimanere sulla carta e nei cassetti, hanno bisogno di visioni d’insieme, di investimenti, di opere, di infrastrutture, di programmi d’intervento incrementali e coordinati nel tempo, di interventi pubblico-privati, di condivisione, di soluzioni adeguate di governance e soprattutto di capacità di regia, di indirizzo e di controllo da parte dell’ente pubblico. Tutto questo a Roma non c’è stato, ma siamo certi che il discorso vada ripreso. Forzare l’inerzia delle mura è possibile.
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