Introduzione

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Il significato delle città
Pepe Barbieri PDF




Abstract


Quale ruolo per i grandi segni delle città: i diversi depositi stratificati di memoria? Accettare la loro presenza vuol dire riconoscere anche la loro distanza – il loro altro tempo, la loro diversa origine - che ci spinge ad interrogarci sulla riproduzione automatica e banale della città esistente. Si deve esplorare una concezione più aperta dell’idea di costruzione di una città per parti dove – persa la possibilità di un controllo integrale della forma urbana – sia comunque possibile assicurare, attraverso l’architettura, qualità e scintille di senso alla molteplicità in continua mutazione dei luoghi: realizzare letteralmente una con-temporaneità. La grandezza e continuità di quei segni consente di attivare le differenze dei diversi contesti con cui quelle figure si confrontano. In una metafora musicale quei segni possono produrre una unità della narrazione come un basso continuo, che accompagna una parziale ricomposizione della forma urbana, nel giuoco contrappuntistico con le altre parti.

 

Significato e senso

Le curve sinuose del fiume. Le lucide linee della ferrovia. Il cerchio delle antiche mura urbane. O gli aperti vuoti delle aree inedificate in cui poter “scoprire” – perché altrove coperte dal costruito - il fondamentale primo testo su cui è scritta la città: la sua geo-grafia.
Sono i grandi segni di cui si parla in questo numero di EWT per ragionare e confrontarci sul loro ruolo nel progetto di futuro delle nostre città. Riconoscerli vuol dire accettare la loro “presenza”: il loro essere nel presente e, insieme, distanti, irradiati da un altro tempo e connotati da forme originate da processi diversi e lontani da quelli che producono la affastellata congerie dei paesaggi urbani contemporanei. E’ una distanza che, in una silenziosa interrogazione, pone il tema – inquietante rispetto alla acritica riproduzione automatica della città-merce – di cogliere il possibile significato della mutevole e molteplice rete di materiali, di fatti urbani e dei loro rapporti nel frammentato, e spesso anonimo, deposito di forme della città contemporanea.
Il significato delle città era il titolo di un libro di Carlo Aymonino del 1975 – che voglio qui ricordare nel decennale dalla scomparsa – dove la relazione monumento-residenza o emergenza – tessuto si moltiplica fertilmente a più materiali urbani, in una accezione più ampia della capacità dell’architettura, in quanto fenomeno urbano e arte dei rapporti, di produrre scintille di senso, svelando la diffusa e nascosta carica energetica dell’esistente. Penso all’esempio che Aymonino fa dei grattacieli che nelle contaminazioni con il contesto – con un nuovo presente – modificano l’apparente fissità del loro tipo: «vedi le “piazze” alla base di molte grattacieli di New York, i raccordi con il traffico delle due torri di Marina City a Chicago» (p.126).
E’ l’affermazione della necessità di considerare i contesti non un dato, fissato, in una tradizionale analisi urbana, nei propri caratteri tipo-morfologici, ma una complessa entità in divenire che chiede, anche nel conflitto tra i diversi attori, mutamenti necessari perché accolga la vita.
Contaminazioni, quindi, o, come quasi un decennio dopo affermeranno su Casabella Gregotti e Secchi, la necessità di individuare le coordinate teoriche e applicative di una architettura intesa come continua modificazione dell’esistente.
In questa direzione i progetti di Aymonino indagano una concezione più problematica e aperta dell’idea di costruzione di città per parti dove – persa la possibilità di un controllo integrale della forma urbana – sia comunque possibile assicurare, attraverso l’architettura, qualità e coaguli di senso alla molteplicità dei luoghi. E questo avviene attraverso una appropriazione dell’esistente, mosso a partecipare alla realizzazione del presente, continuando il processo interrotto di stratificazioni che costruiscono la città. Non si tratta, quindi, di accostamenti e aggiunte in un gioco puramente volumetrico di confronto con il contesto, ma piuttosto di inglobamenti e innesti, per strappare all’inerzia ciò che esiste, e far scorrere nuova linfa nelle articolazioni della trama dei percorsi e degli spazi aperti, che, pensati nelle tre dimensioni e in sezione, possono conferire, per mezzo di inedite figure complesse prodotte dall’intreccio con le forme ereditate, nuovo senso agli spazi, trasformandoli in luoghi. 
Per quanto preoccupato per l’architettura (come nel suo celebre autoritratto) i suoi lavori mostrano una fiducia – in un certo senso del tutto “moderna” – nella capacità della forma architettonica di riannodare i fili di una narrazione urbana che appariva interrotta. È vero, tuttavia, dobbiamo dirlo oggi, che quel tipo di narrazione, che si supponeva ancora, in qualche modo, lineare e continua, era già in crisi. Era un racconto che si doveva realizzare in un rapporto quasi diretto tra autore e fruitori, in cui, per mezzo del progetto e della sua realizzazione, si affida al controllo del significato dell’oggetto prodotto, dei suoi segni, il compito di assicurare l’accoglimento dei suoi valori.  Produrre, cioè, letteralmente, il con-senso. Ma già la scienza e l’arte – in musica, in letteratura, nella pittura - avevano messo in crisi questa forma di narrazione consequenziale e lineare, sostituita da un nuovo sistema di paradigmi e conseguenti valori, in base ai quali si interpreta e rappresenta il mondo, come un complesso campo di forze, discontinuo, frammentario, caotico e labirintico, indeterminato e mobile, in cui si affiancano e si mescolano, con salti e fratture, un insieme di materiali e mezzi diversi che formano le innumerevoli declinazioni della città infinita che abitiamo. E dove i fruitori sono chiamati ad un ruolo attivo di interpretazione o addirittura di completamento dell’opera, in definitiva, di attribuzione di senso. È, nell’arte del XXI secolo, quella ricerca e sperimentazione che viene presentata da Trione in suo testo recente dal titolo evocativo di L’opera interminabile (2019) in cui sipercorre un ideale museo senza mura incontrando opere/mondo monumentali, cosmogonie che reinventano la nostra realtà anche in quell’opera interminabile che sono le città.
Cosa comporta per l’autore, per chi produce segni o forme, per l’artista o per l’architetto, accettare di operare nella dimensione in perenne divenire di un opera, nella sua necessaria programmatica condizione di apertura?
Penso che si debba riflettere sul rapporto tra significato e senso o, più incisivamente, in inglese, tra meaning e significance. Cosa comporta una loro reciproca definizione per il progetto urbano?
Secondo Wygotskij (2008) il significato di una parola è una potenza che si realizza nel discorso vivo sotto forma di senso. Quindi anche i segni dell’architettura – veicoli di significato – sono destinati ad assumere un senso diverso nel divenire del tempo e nel mutevole rapporto con i diversi attori della vita urbana. Gli strumenti del progetto debbono rapportarsi a questa condizione in cui le costruzioni e, con più evidenza, i diversi contesti spaziali, immersi nella dinamica di molteplici flussi materiali ed immateriali, non sono in realtà immobili, ma, nello stesso tempo, esito e motori di un complesso iter di trasmutazioni, attraverso molteplici decisioni e conflitti. E’ un processo – mosso e condotto da esigenze del mercato e da un riduzionismo funzionalista – in cui la capacità della forma architettonica di offrire risposte strutturali ad una latente e inevasa domanda di qualità estesa dell’abitare è collocata in un ruolo marginale. Mentre è proprio la possibilità di saper immaginare la trasformazione del confuso ammasso dei materiali del presente – tradurre in immagine dotata di valore, in una iniziale, necessaria, ma non definitiva, attribuzione di significati –che ne può mostrare la potenza in quanto possibile forma urbana e consente di  inaugurare un percorso in cui si offre ai diversi attori e fruitori la possibilità di assumere un ruolo nella costruzione del futuro, aprendo la modificazione dei contesti ad una pluralità anche conflittuale di altre visioni.


Quale ruolo dei grandi segni?

Corajoud nell’illustrare il suo progetto per il lungofiume di Bordeaux – un’area di quaranta ettari, lunga quattro chilometri e larga circa cento metri – parte da una considerazione fondamentale determinata dalle dimensioni in gioco, che sono, appunto, grandi. Perché quei cento metri consentono di percepire, nella sua interezza, una straordinaria facciata urbana, esito di secoli di trasformazioni e aggiunte. Così il tema del rapporto tra città e fiume non può essere ridotto ad offrire di nuovo alla città, come un bene riconquistato, la vista di un riorganizzato paesaggio fluviale, ma deve, invece, prevedere che da un complesso insieme di luoghi – ad esempio con quinte frammentate di alberi e non con una loro linea continua – nella dimensione vasta e orizzontale ottenuta, si possano aprire intermittenti prospettive sull’esteso fronte architettonico della città. Per un altro progetto – Le Parc del la Cour du Maroc, a Parigi – in un’area impregnata dalla presenza della ferrovia, Corajoud usa una suggestiva espressione poetica che diviene la guida delle strategie di intervento: definisce quel luogo, infatti, una grande lunghezza a cielo aperto. Una lunghezza che si è riverberata nella altrettanto grande pedana/fascia continua in legno che unifica e mette in risonanza le diverse parti.
L’esistente– il con-tessuto – viene, quindi, chiamato a partecipare alla scrittura di un nuovo testo.
La trama del passato si intreccia, così, con l’ordito del presente, come osservava Benjamin a proposito dell’opera del collezionista Fuchs.
Due aspetti, dunque, caratterizzano il ruolo dei grandi segni nella trasformazione dei paesaggi urbani: la loro dimensione – la grandezza e la estensione “continua” delle loro figure e la loro alterità – la appartenenza ad un altro tempo, storico, o perfino geologico.
Quella grandezza e continuità del segno consente di riconoscere e attivare le differenze dei diversi contesti con cui quelle figure si confrontano e debbono costruire un dialogo. Azzardando una metafora musicale quei segni possono rappresentare una sorta di basso continuo, con il compito di accompagnare dall’inizio alla fine una ipotetica e parziale ricomposizione della forma urbana, implicando giuochi contrappuntistici con le altre parti. In altri termini, sempre musicali, si possono intendere come un fondamentale leit-motif in grado di assicurare, nella riconoscibilità del tema, una particolare declinazione dell’idea di unità della morfologia dei luoghi: non affidata alla coerenza consequenziale delle diverse componenti, ma alla possibilità, per la presenza continua di quelle figure, di percepire la relazione tra antinomie e frammenti differenti e abitare, secondo contro- ritmi complessi, diversamente il mondo.
Nella utilizzazione di un basso continuo si può allora – e forse si deve – generare una tensione che crei un intervallo dissonante in rapporto al basso e che attraverso la sua relativa instabilità arricchisca di senso la composizione. E’ questo che può produrre la alterità di questi segni. E corrisponde al senso più profondo di cosa significa contemporaneità: appunto compresenza anche discordante di più tempi. «La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende una distanza; più precisamente essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo». (Agamben, 2008, pos.30).
Re-immettere le figure del fiume o delle antiche mura nel divenire della città, vuol dire molto di più che preservarle, magari, secondo vecchie modalità, incorniciate in verdi e acquietanti fasce di rispetto. Significa, invece, elaborare il dissenso che la loro presenza - la loro inattualità, con il carico della loro energia emotiva e simbolica -  è in grado di esprimere rispetto alla angustia di un presente ristretto ai limitati orizzonti delle convenienze funzionali e soprattutto mercantili.
E’ stato più volte suggerito che questo lavoro di scomposizione e ricomposizione dei materiali dell’esistente – il suo necessario riciclo e montaggio – può essere avvicinato all’operare del bricoleur nel senso attribuito a questo termine da Levi Strauss (1964). Ma in questo riferimento leggo un certo disincanto, distante dall’intento più profondo che mi sembra debba muovere questi procedimenti per poter produrre il desiderabile re-incantamento del mondo – la ricerca di un senso da condividere - attraverso nuove forme di narrazione. Mi vengono piuttosto in mente, più che i MerzBau di Schwitters, le tavole degli atlanti della Mnemosyne di Warburg, in cui l’accostamento delle varie immagini permette di cogliere le corrispondenze tra le forme e le inattese trame di relazioni tra figure distanti. Il suo approccio non si basava però sulla ricerca di una supposta continuità, ma sulla possibilità di riconoscere in ogni dettaglio il frammento di una entità ancora sconosciuta. Per cui ogni tavola propone – contemporaneamente – le tre fasi di un percorso verso la poiesis in cui si interconnettono mneme (presenza del ricordo), aisthesis (attivazione della sensibilità), e phantasia (proiezione della facoltà immaginativa). Un tragitto forse obbligato da percorrere per abitare poeticamente la città di domani.


Le antiche mura di città: strategie di progetto per un pomerio contemporaneo.

Il grande segno rappresentato dal cerchio superstite, di circa 13 chilometri, delle mura Aureliane era stato individuato nell'ultimo PRG di Roma del 2008 come uno dei cinque ambiti strategici sui quali operare per il futuro della città. Con gli altri quattro – il Tevere, la cintura ferroviaria, il sistema Fori/ Appia Antica/ l’asse Flaminio/Fori/EUR, a cui sarebbe indispensabile aggiungere l’insieme di micro-città inanellate e alimentate dall’altra continua cintura del GRA – offriva una intelaiatura di enorme potenza per l’organizzazione della forma della città futura: una forma complessa e aperta in grado di assumere tendenzialmente come suo campo il bacino dell’intero spazio geografico (dalla corona dei monti al mare) che ne connota i più profondi e sedimentati fattori di identificazione e che avrebbe consentito di creare quell’insieme necessario di reti relazionali, non solo funzionali, ma composte da plurime figure e materiali urbani, capaci di dare un senso, non puramente burocratico, alla  realizzazione, ancora attesa, di una Città Metropolitana.
A questa pregevole impostazione del piano, con una accezione ampia della riorganizzazione del territorio di Roma, fino ad ora non è stato dato seguito.
Con Alessandra Criconia, Anna Rita Emili e Rosario Pavia abbiamo guidato alcuni seminari di laurea presso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia in cui sono state condotte alcune sperimentazioni relative ad alcuni tratti delle Mura Aureliane con lo scopo di articolare e superare un approccio, che rischia di essere riduttivamente declinato, se coincidente soltanto con interventi orientati alla creazione di un parco lineare delle Mura. Una sequenza di giardini serviti da un tracciato pedonale, assicura la possibilità di camminare in continuità lungo le mura e poter sostare e godere della loro vista, una volta che esse siano liberate e protette nei molti tratti in cui indebitamente occupate. Questo è un obiettivo necessario, ma non sufficiente a sviluppare pienamente il potenziale che la formidabile presenza delle mura può e deve esprimere. La energia veicolata dal suo segno deve, anche e soprattutto, essere impiegata a riattivare i possibili diversi processi di modificazione e riqualificazione dei contesti attraversati. E’ possibile, a partire dalle molteplici e variate relazioni con le mura, creare una grande infrastruttura dello spazio pubblico in grado di generare una diversa morfologia di parti consistenti della città, restituendo ai quartieri della prima espansione moderna nuovi luoghi di riferimento e spazi di aggregazione sociale.
Abbiamo, quindi, immaginato che gli interventi possano essere orientati da una idea guida: innalzare la valenza simbolica e d’uso di un generico parco lineare per trasformarlo in una sorta di esteso e plurimo pomerio contemporaneo. Uno spazio complesso, tridimensionale - interpretando con diversi spessori la morfologia dei luoghi -  destinato, attraverso l’attribuzione di una sorta di sacralità laica, quale bene comune affidato alla cura della comunità, ad attivare e irrigare di nuove occasioni e valori l’immobilizzato patrimonio esistente.
Le strategie adottate nelle sperimentazioni progettuali possono essere sintetizzate con alcune parole chiave:

Il montaggio è la modalità dell’apprendimento e della percezione (anche mentale) dello spazio urbano frammentato e complesso della contemporaneità, e un montaggio è necessario per attivare nuove relazioni di senso e di uso tra i diversi campi e tipi di spazi della città.  Il montaggio è ciò che consente, ad esempio, di intervenire nel patrimonio cinematografico considerato un immenso parco archeologico da cui estrarre frammenti filmici – il found footage –e nel recycled cinema (Bertozzi, 2012), per immetterli in un nuovo contesto, generando nuovi significati, inedite esperienze, altre emozioni. E’ un procedimento in cui quei “reperti” possono essere riutilizzati nella loro stato di conservazione, oppure anche modificati e contaminati col presente del nuovo racconto filmico.  In architettura è quanto è stato realizzato da Koolhaas nella Fondazione Prada. Abbandonato qui il suo fuck the contest, l’esistente viene tutto mobilitato e contaminato – costruzioni e vuoti – per una nuova messa in scena in cui ad ogni componente è affidato un ruolo. Si genera così una spazialità polimaterica, senza centro, come nella pittura astratta, dove fondo, intervalli e segni di diversa natura e dimensione – eliminata la cornice – trasmettono i valori dinamici di un intersecato campo di flussi ed energie.
E’ una idea di spazio che a partire dal ‘900 percorre fino ad oggi tutta l’arte. Non è solo la rottura della scatola dell’edificio e la sua scomposizione neoplastica, fino alla scrittura di uno spazio costruito dalla correlazione di superfici-parete (Serra o Barragan), ma anche la comparsa di un immaginario più articolato che opera contemporaneamente sulle superfici-involucro del costruito e sulle superfici frammentate e reticolari degli spazi aperti, naturali e artificiali.
Il primo atto di questo procedimento è, quindi, quello della individuazione del campo e la raccolta – dal deposito archeologico del presente – dei materiali da valutare e selezionare. Così ad esempio, nel tratto delle mura nella zona San Giovanni, il campo del nuovo pomerio si dilata a comprendere da un lato i giardini di via Carlo Felice, dall’altro si spinge fino a via La Spezia, coinvolgendo nel progetto gli spazi aperti delle corti sottoutilizzate dei complessi che qui si affacciano e il recupero della ex filanda. Attraverso la parziale pedonalizzazione di viale Castrense si realizza così un insieme, diversificato e ibridato tra pubblico e privato, di nuovi luoghi di uso pubblico, animati dalla rete di nuove percorrenze, accanto, ma anche attraverso, le mura.
La stratificazione è il riferimento chiave della strategia brillantemente utilizzata da Lambertucci e Grimaldi nel loro intervento per la stazione Metro C di San Giovanni: la discesa ai binari diviene l’occasione per leggere sulle pareti il succedersi dei diversi strati della storia, con i rimandi ai reperti trovati negli scavi, fino a scoprire in fondo l’antica natura geologica del sito.  Analogamente nelle sperimentazioni si è inteso operare rendendo leggibili, in una spazialità tridimensionale percorribile, i diversi strati del pomerio: dai livelli ipogei che mettono di nuovo in luce il livello archeologico delle mura, con collegamenti agli spazi della stazione – in modo da assicurare un percorso museale ipogeo che permetta di sottopassare la convulsa circolazione automobilistica della porta e riutilizzare l’antica Porta Asinaria - fino alle sovrapposizioni in cui si pongono in colloquio tessiture minerali e vegetali, in grado di ospitare attrezzature e destinazioni che aiutino a mantenere la vita e la cura di questi luoghi nell’arco dell’intera giornata.
Le mura urbane, come gli altri grandi segni del territorio, - in particolare quelli a forte andamento lineare: la ferrovia, i maggiori assi viari, il fiume – richiedono l’adozione di una strategia della trasversalità che non sia soltanto il gesto violento della loro rottura e alterazione per le prementi esigenze della mobilità. Smesso il loro ruolo di dispositivo di difesa è possibile pensare, di volta in volta, ad un modo dolce di attraversarle o percorrerle in modo che possano pienamente entrare – con attenzione alla loro alterità e dissonanza – nella rete della mobilità lenta? In alcuni tratti è possibile utilizzare le differenti quote tra interno ed esterno per creare un passaggio ipogeo, in altri dove le mura erano state risarcite con un intervento moderno senza raggiungere l’intera altezza è sembrato possibile creare un leggero ponte connesso al percorso esistente nel corpo delle mura che smonta in uno leggero contenitore destinato, tra l’altro, all’esposizione e illustrazione di materiali della storia di questa parte di città.

Queste sperimentazioni non tentano di dare forma conclusa a parti di città, (parti senza un tutto nelle parole di Pessoa) piuttosto mostrano un canovaccio aperto di possibilità: attribuiscono senso ad un campo di spazi e di flussi perché si tramutino in luoghi. Ma è una attribuzione continuamente mutevole perché occorre comprendere la relazione tra luogo e aver luogo. In questo senso è utile un riferimento alla concezione giapponese dello spazio vuoto – del MA – che coincide con l’idea di intervallo, pausa, ma soprattutto è il prodotto della combinazione di un vuoto con uno sfasamento, la cui funzione è quella di arricchire semanticamente il vuoto. Indica il rapporto tra il luogo e chi lo percepisce. E’ uno spazio che si apprende per mezzo dell’esperienza del corpo nello spazio attraverso il movimento e quindi il tempo. E’ perciò fondamentale che i progetti ammettano programmaticamente una loro strategica incompletezza o indeterminazione per aprire nel tempo ad altre interpretazioni anche conflittuali. Sono progetti che, per mezzo della percolazione e disseminazione di una rete di vuoti e dispositivi diversi, introducono nel neutro accostamento (fino al loro cozzare), dei frammenti della città contemporanea – negli interstizi muti dello spazio senza sintassi del Campo Marzio piranesiano – ponti di relazioni e affinità tra parti diverse che annunciano, mostrandola, un’altra speranza di futuro.



Riferimenti bibliografici

Agamben G.(2008), Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Milano.
Aymonino C.(1975), Il significato delle città, Laterza, Bari.
Bertozzi M.(2012), Recycled cinema, Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio,Venezia,.
Corajoud M.(2010), Tutto è patrimonio, in Andriani C. (a cura) Il Patrimonio e l’abitare, Donzelli, Roma,
Forster K.W.(2002), Mazzucco K., Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della memoria, Bruno Mondadori, Milano.
Lévi-Strauss C. (1964), Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano.
Trione V. (2019), L’opera interminabile, Einaudi Torino.
Vygotskij L.V.(2008), Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Laterza, Bari.




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