Con questo numero si conclude la trilogia dei segni direttori a cui appare opportuno applicare il metodo del progetto urbano. Dopo le infrastrutture ferroviarie (EWT 20) e i fiumi (EWT 21), stavolta sono i grandi segni della storia il tema su cui ci si propone di approfondire la riflessione, al fine di contribuire ad un’agenda complessiva per la riprogettazione delle città, avendo dato per scontati gli approcci green e smart che sono alla radice stessa della rivista Eco-Web-Town.
Nonostante la grande attenzione che il patrimonio storico continua a suscitare nel nostro Paese inguaribilmente conservatore, c’è da restare increduli rispetto alla scarsità dei progetti in corso o in programma. I pochi progetti che prendono vita grazie agli sforzi di qualche soprintendente illuminato o di qualche volenterosa amministrazione comunale, appaiono quasi sempre fuori scala, essendo di solito applicati ad un singolo monumento o ad un piccolo brano di tessuto, e mai diventando occasione di un vero progetto urbano. Per di più, le rare volte che piani lungimiranti prevedono di agire su un sistema coerente di segni, come nel caso delle mura urbane, o di un percorso antico, o di un sistema di insediamenti antichi reciprocamente interconnessi, o infine su un tracciato secolare di grandi infrastrutture viarie e ferroviarie, le attuazioni rimangono inesorabilmente sulla carta, e nessuno si preoccupa di dare seguito alle previsioni del piano ricorrendo a una strategia mirata e fattibile di interventi place based, traguardati rispetto alle logiche del progetto urbano sostenibile.
Non ci riferiamo alle velleità di qualche urbanista illuminato, che vorrebbe giustamente ancorare la costruzione del futuro sulla rivisitazione dei segni del passato. Né si tratta di rivolgersi ingenuamente agli abitanti delle periferie per convincerli a migliorare la loro condizione abitativa mettendo in gioco i segni di permanenza del passato, come produttori di identità e di qualità urbana. No, più concretamente ci preoccupiamo per il sano montare di una domanda sociale di rilancio del patrimonio storico -considerato come occasione privilegiata per forgiare nuove opportunità di sviluppo e di abitabilità delle nostre faticose metropoli-, prendendo sul serio questa domanda che è rimasta finora inevasa per la pigrizia delle istituzioni e la evanescenza delle culture disciplinari.
Ad esempio, nei giorni scorsi è apparso nelle colonne di Repubblica l’appello accorato di un ampio e variegato gruppo di cittadini i quali vorrebbero salvare le mura di Roma, dichiarandosi stufi di assistere impotenti allo spettacolo indecoroso di un’inerzia istituzionale che non è giustificata dalle ristrettezze di bilancio, e che sembra piuttosto dovuta all’incultura amministrativa e alla insufficiente convinzione dei custodi delle memorie. Ancora più recente è la notizia di un progetto per il parco delle mura che coinvolge 8 municipi, proposto dal laboratorio permanente per Roma di ASPESI (associazione nazionale di società di sviluppo immobiliare), con un costo stimato di 95 milioni.
Negli stessi giorni trovava eco sulla stampa locale il disperato appello di alcuni cittadini e studiosi di Padova per la salvezza delle loro mura urbane, minacciate dall’ incredibile edificio di Nuova Pediatria voluto dall’Università e dall’Azienda ospedaliera con il sostanziale sostegno delle amministrazioni pubbliche locali e centrali, e con l’appoggio oscurantista delle classi dirigenti della città. Qui lo stravolgimento del bastione Cornaro del Sanmichele appare purtroppo assai grave, a causa di una scelta arrogante da parte delle istituzioni che è destinata ad infliggere una ferita insanabile ad uno straordinario patrimonio murario ancora relativamente integro, il quale attende invano da troppo tempo un progetto di valorizzazione finora pervicacemente negato (fig. 1).
In sintonia, dunque, con una pressione sociale che fortunatamente sta salendo e con un clima culturale che sta diventando sempre più maturo, la nostra rivista intende riaffermare ancora una volta l’urgenza di un progetto alla scala appropriata per il riscatto di molti segni del passato oggi trascurati e spesso degradati. Andando oltre il recupero materiale dei singoli manufatti, il progetto dovrà farsi carico di far diventare questi segni le matrici morfologiche, funzionali e simboliche di un processo condiviso di rigenerazione del senso dell’esistente, sicché i grandi segni di permanenza possano in generale ritornare a fungere da segni direttori del progetto per la città.
Questa tesi appare scontata ma in realtà è gravida di conseguenze poco studiate, e comunque non può essere messa in opera senza una adeguata consapevolezza della posta in gioco e dei modi attraverso cui può essere declinata legittimamente attraverso il progetto urbano.
Anni fa, sul finire del secolo scorso, quando questo tema era di grande attualità, era stato lanciato il manifesto per una nuova cultura “ in grado di armonizzare le istanze della tutela e di valorizzazione dei beni storici con quelle più generali di riqualificazione e adattamento al nuovo dell’esistente, riconoscendo che i segni della memoria e della natura sono fattori strategici dell’identità dei luoghi, sia per le loro qualità intrinseche, sia soprattutto per le relazioni che hanno storicamente intrecciato con il contesto insediativo. Ogni azione sul patrimonio delle permanenze va dunque intesa come un intervento sull’ambiente insediativo. E, per converso, ogni modificazione dell’ambiente deve essere valutata nei suoi effetti sui sistemi di permanenza ivi sedimentati” (Il senso delle memorie in architettura e urbanistica, Laterza, 1990).
Oggi ci riconosciamo ancora in quei principi, i quali peraltro raramente hanno trovato un’attuazione soddisfacente. E tuttavia sentiamo di dover riprendere e approfondire la questione, al di là delle rassicuranti parole d’ordine lanciate in quell’occasione. D’accordo con Remo Bodei, ci rendiamo conto che la contemporaneità non dovrebbe essere considerata come l’ultima epoca del mondo, quanto piuttosto la compresenza di tempi diversi nello stesso luogo, accettando la maggiore complessità che proviene da questo nuovo modo di vedere le cose. In questa prospettiva le relazioni tra le tracce sedimentate dell’antico e la creazione di nuovi assetti come forme del nostro tempo diventano più problematiche, e lasciano spazio ad una ricerca meno condizionata dalle certezze della conservazione scientifica e dal restauro convenzionale.
Il bel saggio introduttivo di Pepe Barbieri pubblicato in questo numero di EWT, da lui curato insieme a Rosario Pavia, esplora i nuovi termini della questione dei mutevoli significati dei segni del passato in una città che cambia, e del loro possibile progetto nel contesto attuale. In particolare, i grandi segni dell’antico andrebbero trattati per il loro “essere nel presente e al tempo stesso distanti, irradiati da un altro tempo e connotati da forme originate da processi diversi e lontani da quelli che producono l’affastellata congerie dei paesaggi urbani contemporanei”. Questo riconoscimento aprirebbe la strada a inediti percorsi progettuali, per i quali re-immettere le figure dell’antico nel contemporaneo significa “elaborare il dissenso che la loro presenz è in grado di esprimere rispetto alla angustia di un presente ristretto ai limitati orizzonti delle convenienze funzionali”. Tutto ciò condurrebbe a ridimensionare le acquietanti predisposizioni di parchi e zone di rispetto, formule abitualmente praticate un po’ ovunque quando si vuole dimostrare di nutrire considerazione per i resti del passato. E spingerebbe piuttosto a sperimentare più intense e problematiche relazioni tra il nuovo e l’antico, in cui l’incompiutezza può diventare un valore inedito per un progetto che sappia accettare la propria relatività nel fluire della storia.
Diverso e più operativo è il taglio dell’altro saggio introduttivo scritto da Rosario Pavia. Qui, nel chiedersi se e quanto l’inerzia possa trasformarsi in valore per l’avvenire delle città, l’autore approfondisce puntualmente i temi e i luoghi di un progetto urbano in grado di riscattare le mura di Roma come patrimonio fondativo dell’identità di una città eccezionale, che avrebbe molto da guadagnare nel valorizzare le proprie risorse archeologiche. In questa prospettiva la cintura muraria potrebbe recuperare appieno il proprio il ruolo di spazio pubblico per eccellenza, e diventare al tempo stesso una sorta di “infrastruttura narrativa, grande traccia che tesse il racconto della città, del suo sviluppo, delle sue vicende edilizie ed urbanistiche”.
Gran parte dei contributi raccolti da EWT riguarda appunto il ruolo delle mura antiche nella città contemporanea, segnalando i progetti che a vario titolo ne rilanciano la presenza attiva, a Roma come a Francoforte, Lubiana, Torino, Ferrara, e Milano. Però il ruolo dei segni del passato va oltre il caso eclatante delle mura cittadine. Fontana tematizza il possibile rilancio del grande corridoio adriatico con le sue infrastrutture ottocentesche, mentre Losasso ripropone il sistema dei casali del napoletano. Quilici si sofferma sul tema dell’Appia antica, Ricci evoca le vie del Mediterraneo e Micara la questione delle cittadelle antiche nelle città islamiche.
Sono aperture significative che estendono il tema del possibile ruolo direttore dei segni di permanenza oltre le città, proiettandolo a scale territoriali che finora in Italia non sono mai state assunte in chiave progettuale. Eppure, quasi tutte le trasformazioni in corso nel territorio italiano, come del resto quello europeo, ci dicono che la scala delle conurbazioni va cambiando radicalmente, a fronte di un sistema amministrativo ingessato che appare assolutamente inadatto a governare questa realtà in evoluzione. Forse ancor più del progetto urbano, c’è bisogno di nuovi progetti di territorio che ci aiutino ad individuare le forme di governance più adatte per accompagnare attivamente i mutamenti in corso.