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Liberiamo i fiumi.
Rigeneriamo le città e i territori
REPORT WWF 2019
A cura di: Andrea Agapito Ludovici, Bernardino Romano, Stefano Lenzi.
Editore: WWF Italia, Onlus
Anno: 2019 Pagine: 108

Recensione di: Ester ZazzeroPDF




Si tratta della pubblicazione del Rapporto WWF 2019 dedicata al governo delle acque soprattutto in ambito urbano, con l’obiettivo di favorire un adeguato e responsabile adattamento ai cambiamenti climatici.
Il Rapporto dimostra che le Regioni quanto le Amministrazioni locali sono da considerare i principali responsabili della difficile situazione in cui versa il reticolo idrografico superficiale italiano, in cui la tutela dei fiumi appare fondamentale non solo per la conservazione dei valori paesaggistici, ma anche per il mantenimento degli ecosistemi esistenti e per la protezione da rischi di calamità.
Lo scenario degli interventi è assai differenziato da Comune a Comune, e trova coerenza soltanto nella applicazione ricorrente di una pianificazione settoriale. Fa problema anche l’attualità dei piani vigenti. Infatti, soprattutto in Lombardia, in Emilia Romagna e in Toscana è possibile trovare piani comunali aggiornati negli ultimi 8 anni, nei quali sono state integrate le più recenti normative in materia di tutela delle acque e di rischio idrogeologico. Nonostante ciò, è proprio in queste regioni che si continuano a registrare processi di eccessivo consumo del suolo. Questo paradosso è osservabile per il fatto che le amministrazioni si dotano solitamente di una normativa specifica per la gestione e la pianificazione in aree fluviali (come ad esempio la Disciplina del sistema idrografico prevista dal PIT Toscana), e tuttavia i sistemi di monitoraggio in uso continuano a rilevare cambiamenti consistenti degli usi del suolo.
I Piani prevedono solitamente misure per la gestione del rischio di alluvioni, soprattutto nelle aree dove è presente un rischio potenziale ritenuto significativo, motivandole con la necessità di ridurre quanto più possibile le loro conseguenze negative per la salute umana, il territorio, i beni, l’ambiente, il patrimonio culturale, le attività economiche e sociali. A questo scopo prevedono in generale varie azioni per ridurre la pericolosità, con interventi peraltro che abitualmente non hanno carattere strutturale.
Insieme alle carenze dei piani di settore, il Rapporto rileva la debolezza dei quadri strategici di programmazione e pianificazione, sostanzialmente assenti (o ininfluenti) nella filiera delle cogenze in tutti i settori di attività di trasformazione del suolo.
Richiamando l’esperienza di molti Paesi europei che applicano sistemi di pianificazione “gerarchica” articolati su diversi livelli spaziali o amministrativi, in modo che i piani di livello inferiore debbano recepire le indicazioni che provengono dai livelli sovraordinati, il Rapporto lamenta che in Italia questo genere di pianificazione di solito non funziona, nonostante  la presenza di normative nazionali e regionali che in teoria prevedono procedure di raccordo e di armonizzazione tra i diversi piani.

Viene rilevato dallo studio il fatto che da noi le Istituzioni sembrano aver sostanzialmente abbandonato l’idea della pianificazione, per affrontare i rischi ambientali con politiche emergenziali. Ormai da almeno un paio di decenni queste politiche  appaiono basate per lo più su una astratta spartizione di poteri tra Stato e Regioni, dove ai Governatori regionali, in effetti i principali responsabili del fallimento della pianificazione territoriale, vengono conferiti e rinnovati continuamente poteri commissariali. In questo modo diventa possibile gestire ingenti fondi pubblici al di fuori delle logiche di bacino idrografico e aggirando la pianificazione paesaggistica, urbanistica, i vincoli ambientali e idrogeologici esistenti.

Invece dal punto di vista del WWF il rischio idraulico e/o l’adattamento climatico potrebbero rappresentare occasioni importanti per sperimentare nuove pratiche di miglioramento della sicurezza e di ricompattazione urbanistica, accentuando al tempo stesso processi di condivisione e di sensibilizzazione sia delle popolazioni locali che delle rappresentanze politiche, considerati anche i problemi di disponibilità all’investimento di risorse economiche finalizzate. Gli ambiti fluviali potrebbero egregiamente prestarsi a questo genere di sperimentazioni, in quanto manifestano esigenze oggettive e devono rispondere a precise normative e direttive europee, che consentirebbero di agire efficacemente con progetti integrati.

Come è noto, l’Italia si è dotata di una Strategia nazionale Adattamento Climatico (SNAC) e nel 2017 un Piano nazionale di adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), il quale “si propone di dare impulso all’attuazione della SNAC con l’obiettivo generale di offrire uno strumento di supporto alle istituzioni nazionali, regionali e locali per l’individuazione e la scelta delle azioni più efficaci nelle diverse aree climatiche in relazione alle criticità che le connotano maggiormente e per l’integrazione di criteri di adattamento nelle procedure e negli strumenti già esistenti”. Purtroppo però il Piano rinuncia a definire le priorità, limitandosi ad elencare azioni di differente dettaglio e scala, non distinguendo neanche tra quelle già previste per legge e quelle auspicate; tanto meno entra nel merito delle possibili azioni normative necessarie per colmare le eventuali criticità dovute all’emergenza climatica. Il PNACC sostiene che esistono “barriere che possono rendere difficile la implementazione della misura” o “barriere di natura legale o relative alla accettabilità sociale che devono essere prese in considerazione”, ma non è chiaro come intenda contribuire a superare queste difficoltà.

Ulteriori ambiti di attuazione individuati dallo studio rinviano alla gestione integrata di azioni su area vasta capaci di cogliere le opportunità offerte in particolare dalla necessità di delocalizzare insediamenti situati in aree a rischio, oppure di promuovere il drenaggio urbano sostenibile, realizzare progetti integrati per la mitigazione del rischio e per la riqualificazione ambientale, adeguare i sistemi di distribuzione e depurazione delle acque, per richiamare solo alcune delle principali questioni in gioco. In numerose città europee, come dimostrato dalle “best practices” dei “Casi studio” analizzati nella Parte terza del Rapporto, questi processi virtuosi sono stati già avviati, e disponiamo ormai di numersoi esempi di gestione e governo delle acque in ambito urbano integrati nella pianificazione ordinaria, che mostrano auspicabili e fattibili scenari di sostenibilità.

Invece le nostre istituzioni di governo hanno imboccato un percorso esattamente contrario, caratterizzato dall’ulteriore frammentazione delle competenze, dallo spacchettamento delle emergenze legate al ciclo delle acque (come siccità, alluvioni, dissesto idrogeologico), dalla mancanza di una visione unitaria alla scala del bacino idrografico, e infine dalla rinuncia a promuovere politiche integrate. Prevalgono piuttosto le logiche spartitorie tra Stato e Regioni, che impediscono di affrontare efficacemente i problemi sul tappeto.

La recente “approvazione del piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale”  (DPCM 20 febbraio 2019) è l’ulteriore conferma dell’approccio disintegrato e controproducente portato avanti sul nostro territorio. Il Piano, infatti, prevede una moltitudine di piani stralcio, sotto-piani d’azione, programmi d’intervento, tutti promossi e realizzati da soggetti rigorosamente diversi (Ministero dell’Ambiente, Dipartimento Protezione civile, Ministero delle Infrastrutture, Ministero delle politiche agricole, regioni, Autorità di bacino distrettuali, Regioni, Province autonome, Comuni ….), spesso con procedure emergenziali (non sempre giustificate), in gran parte in deroga “ad ogni disposizione vigente” e con macchinose procedure di collaborazione, che assomigliano più ad “alibi” normativi che a meccanismi per garantire maggiore efficienza ed efficacia! Il governo delle acque, fondamentale per le politiche di adattamento ai cambiamenti climatici, appare troppo frammentato ad esempio tra piani per il dissesto idrogeologico a livello di bacino idrografico, piani di dissesto dei piccoli comuni, piani di dissesto idrogeologico in aree montane, piani per la siccità con la realizzazione di invasi in agricoltura, e infine piani di manutenzione del territorio.

In conclusione il Rapporto WWF appare ben curato sotto l’aspetto delle criticità da affrontare per migliorare il governo del sistema delle acque e per razionalizzarne l’uso, salvaguardando queste risorse che stanno diventando ogni giorno più preziose non solo in Italia. Ma per risolvere criticità che sembrano diventate ormai intrattabili il Rapporto rinvia ancora una volta alla cogenza di un piano sovraordinato, che dovrebbe imporre a cascata le sue previsioni a tutti i piani di livello sottostante. La gestione di un simile strumento risolutivo sarebbe affidata contestualmente ad un’autorità unica, come l’Autorità di Bacino già istituita per legge, la quale dovrebbe essere abilitata ad imporre il proprio potere di contrasto ai rischi a qualunque altro soggetto istituzionale.
E’ senza dubbio una via seducente, e fa bene il WWF a stimolare la politica a prendere adeguate responsabilità di protezione dai rischi e di tutela efficace dei sistemi d’acqua. Questa soluzione però semplifica eccessivamente l’irriducibile poliarchismo del territorio italiano, dove nessun potere verticale sembra oggi in grado d’imporsi a tutti gli altri poteri in gioco, alla luce anche del discutibile dettato costituzionale che rinvia all’accordo tra Stato e Regioni anche in materie concorrenti quale è appunto il sistema delle acque nella sua globalità.
Resta semmai aperta la via dei patti e degli accordi tra i diversi attori secondo la prospettiva dei contratti fluviali o di paesaggio, fatte salve le tutele differenziate da imporre con provvedimenti di legge limitati a particolari categorie di beni come il sistema delle acque nelle sue declinazioni ambientali e paesaggistiche più importanti. Rinviando comunque alcuni temi specifici come la difesa delle acque e delle falde ( dagli inquinamenti agli usi impropri) e il loro uso diversificato in rapporto alle esigenze produttive, agricole, industriali, potabili; o come la difesa del suolo idrogeologicamente instabile in corrispondenza di tratti particolari dei corsi d’acqua, a Progetti integrati di territorio ( o di città)costruiti volta per volta nel partenariato con le principali istituzioni pubbliche e con gli attori dello sviluppo locale, e soprattutto con la partecipazione attiva della cittadinanza e delle associazioni ambientaliste che si dimostrano disponibili a contribuire fattivamente agli obiettivi di miglioramento ambientale e di protezione dai rischi enunciati dalle istituzioni di governo regionale e comunale.
E’ una via lastricata di incertezze, che per avere successo richiede una mobilitazione intensa, sia in verticale che in orizzontale, dei molteplici interessi in gioco nella tutela e valorizzazione dei corsi d’acqua. Ma è una via obbligata per restituire un valore primario al fiume, sottraendolo all’esercizio dei soggetti che a vario titolo tendono ad impadronirsi di questo bene comune troppo spesso trascurato nel sentire comune come nelle politiche istituzionali.

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