Parole chiave: rigenerazione urbana, cambiamenti climatici, ricerca progettuale
urban regeneration, climate change, urban design research
Abstract:
Una grande parte degli insediamenti urbani nel mondo sono cresciuti lungo bacini d’acqua. I Fiumi, i delta e gli estuari, le lagune, le coste o i laghi, con la loro multiforme geomorfologia, hanno consentito la crescita di città in siti riparati e difendibili, ricchi di acqua da usare allo stesso tempo come energia, via di comunicazione e fonte di alimentazione. Oggi le città d’acqua costituiscono uno straordinario laboratorio di ricerca progettuale per quanto riguarda gli aspetti legati ai cambiamenti climatici, alla resilienza alle disuguaglianze sociali, in particolare nei paesi del Global South dove tali problematiche stanno assumendo un carattere estremo.
Città, acqua e urbanizzazione
Una grande parte degli insediamenti urbani nel mondo sono cresciuti lungo bacini d’acqua. I fiumi, i delta e gli estuari, le lagune, le coste o i laghi, con la loro multiforme geomorfologia, hanno consentito la crescita di città in siti riparati e difendibili, ricchi di acqua da usare allo stesso tempo come fonte di energia, via di comunicazione e risorsa alimentare. Nel corso del tempo le relazioni tra le città e i fiumi hanno seguito alcuni andamenti che ci appaiono oggi ricorrenti. Il primo andamento lo possiamo individuare nelle condizioni originarie poste dai siti fluviali o costieri alle esigenze dell’uomo di costruire città e luoghi sicuri dove abitare e commerciare. Secondariamente vediamo prevalere, a partire dall’Ottocento, un atteggiamento utilitaristico che trasforma l’acqua in una infrastruttura necessaria per l’avvio dei processi di industrializzazione. I corsi d’acqua diventano uno degli indicatori del degrado e dell’inquinamento urbano e quando non servono vengono sacrificati alle esigenze di una città che, essendo in via di espansione, richiede aree portuali e industriali ampliate a detrimento di fiumi e baie. Inoltre, in tante città, nel corso del Novecento, la ricca rete di canali e fiumi che le attraversava è stata coperta o sostituta da strade mentre la forte e diffusa urbanizzazione ha generato delle situazioni pericolose che emergono nei sempre più frequenti eventi meteorici estremi: a Milano o Alessandria, come a São Paulo o Dhaka. Un terzo aspetto, che ritroviamo in questi ultimi quarant’anni, riguarda le acque come fattori di riqualificazione urbana attraverso il recupero dei grandi bacini portuali e delle banchine dismesse ma centrali, e quindi appetibili anche per un mercato immobiliare in cerca di opportunità. A tale proposito si sono recuperate importanti aree urbane, arricchendo anche la dotazione delle città di spazi pubblici e inoltre si è iniziato a vedere i fiumi riscattati come componenti strutturali di trame, reti, corridoi in grado di rigenerare importanti settori centrali e periferici delle città. Oggi è diventato rilevante l’approccio resiliente alla rigenerazione delle acque urbane.
Il contributo della ricerca progettuale
I progetti qui presentati sono il risultato di alcuni anni di investigazione sulle pratiche di progettazione urbana applicate a città che vivono situazioni particolarmente complicate in termini di rischio idraulico e con una profonda alterazione del rapporto con il sito di fondazione della città. Si tratta in realtà di grandi aree metropolitane non europee, cresciute in contesti geografici molto connotati dall’acqua, quali: delta, reticoli idraulici, litorali. Si tratta di ricerche progettuali prodotte all’interno del CITERlab dell’Università di Ferrara con l’aiuto e la supervisione di gruppi di ricerca delle città interessate da tali ricerche e tesi di laurea. I temi della rigenerazione urbana si declinano in maniera diversa nelle città europee o nelle dense megalopoli del sud del mondo nelle quali emergono sempre più i temi delle disuguaglianze sociali e delle relazioni tra la città dei poveri e quelli dei ricchi, e il loro impatto sulla vita urbana, come anche il recente film Parasite di Bong Joon-ho ha drammaticamente evidenziato.
La chiave di lettura utilizzata nella presentazione di questi progetti non è riferita alla soluzione di particolari aree problematiche della città nel suo rapporto con l’acqua (es. waterfront) ma alla necessità di ragionare in termini di strategia, struttura e relazioni (Farinella, 2008). Tale approccio nasce dalla consapevolezza che il progetto urbano, prima di essere una soluzione finalizzata alla riconfigurazione fisico-morfologica di una parte urbana, è una strategia riferita a una visione, che si basa su di un lavoro incentrato sulla qualità delle relazioni che stabiliscono tra la città esistente, le grandi operazione di rigenerazione urbana e la micro-progettualità diffusa che riguarda gli spazi “ordinari” di una città (come strade e marciapiedi, canali, vuoti e infrastrutture). Il lavoro svolto ha posto al centro della sua riflessione il tema del progetto urbano come “progetto di relazioni” ragionando sia sull’intero insieme urbano o metropolitano che su settori e ambiti specifici di progetto. Il “progetto urbano” così inteso ha senso e legittimazione se collocato all’interno di una strategia in grado di prefigurare e orientare il futuro di una città.
In estrema sintesi potremmo dire che il “progetto urbano” si articola attorno a due livelli: il primo relativo al “processo”, con tutte le sue implicazioni socio-economiche, culturali e di governo; e l’altro relativo alla forma della città e quindi al controllo progettuale dello spazio fisico, con tutte le implicazioni legate ai temi dello spazio pubblico, del progettare la città in contesti urbani storici e consolidati, degli spazi infrastrutturali, della presenza in città della natura e degli elementi legati alla geomorfologia dei siti urbani (Farinella, 2018). I casi presentati sono due. Iniziamo con la presentazione di una metropoli fluviale orientale, Dhaka, capitale del Bangladesh, cresciuta non troppo lontana dal mare che, per difendersi dall’innalzamento delle acque fluviali, ha adottato la soluzione estrema di isolarsi dentro un muro di protezione. Il secondo caso è L’Avana, una città costiera dei Caraibi che si sta interrogando sulla sua interfaccia con l’oceano sia per quanto riguarda l’impatto dei frequenti uragani sia per la rigenerazione del suo straordinario patrimonio urbano.
Scenari ed esperienze. Dhaka e L’Avana
In Oriente la tradizione urbana è antica, come lo è il rapporto con l’acqua. La forma degli insediamenti è sempre stata organizzata con modalità in grado di controllare i diversi livelli di piena dei fiumi, predisponendo, allo stesso tempo, dei bacini idrici necessari per avere acqua disponibile anche nei periodi di maggiore siccità. Questo è quanto ci insegnano le villes hydrauliques orientali. I grandi fiumi orientali come il Gange, il Mekong o lo Yangzi, a differenza dei grandi fiumi americani, sono stati luoghi di antico popolamento e le problematiche derivanti oggi dalla intensa urbanizzazione pongono delle questioni che vanno al di là del loro interesse naturale e idrografico (Scherrer, 2004). Fiumi ricchi d’acqua, piogge monsoniche, terreni umidi con una orografia pianeggiante hanno caratterizzato da sempre questi territori generando, nel corso del tempo, una capacità di adattamento degli insediamenti che, se da un lato, aveva nell’acqua una risorsa importante, e non solo per i trasporti, dall’altro, ha sviluppato una capacità di adattamento e di interpretazione “resiliente” delle caratteristiche dei siti dove fondare villaggi e città. Questo lo riscontriamo nella fascia tropicale del subcontinente indiano, così come dell’Indocina e Cina. Si tratta di paesaggi culturali da sempre governati da una sapienza idraulica che oggi è messa in crisi dalla indiscriminata urbanizzazione che ha modificato il delicato rapporto stabilito, nel corso dei secoli, tra il fiume principale e il reticolo di canali e alvei al cui interno erano prosperate le città. È risaputo che i cinesi furono i più grandi ingegneri idraulici della storia dell’umanità. In ogni caso, in Oriente, la competizione fu forte se pensiamo alla cultura Siam e Khmer in Indocina o ai Moghul in India, ed è grazie a loro che l’acqua è diventata sintesi sapiente di tecniche, strutture e patrimonio.
Entriamo ora nel dettaglio di queste dinamiche parlando di Dhaka: una megalopoli di circa 20 milioni di abitanti. La capitale del Bangladesh, come tante città del subcontinente indiano, la possiamo leggere a partire dallo spartiacque segnato dalla colonizzazione inglese. Per quanto riguarda l’architettura il suo interesse e notorietà è legata certamente agli studi urbanistici di Patrick Geddes, ma soprattutto alle architetture di Louis Khan. Prima di addentrarci in questi aspetti credo valga la pena spendere due parole relativamente al sito di fondazione, che se in passato fu una fonte straordinaria di risorse, oggi ne rappresenta il maggior problema. La città è cresciuta per secoli attorno ad una rete di fiumi e canali oggi in gran parte scomparsi a causa dell’urbanizzazione dilagante o perché trasformati in discariche di rifiuti. Si tratta del più grande sistema deltizio del mondo gravitante attorno ai fiumi incentrati sul Gange e il Brahmaputra e sulla parte del Golfo che comprende lo stato indiano del West Bengala e il Bangladesh (Mowla, 2002). La capitale è attorniata da quattro fiumi e il suo clima monsonico e subtropicale vede alternarsi piogge, umidità e alte temperature insieme a fenomeni meteorici estremi come i tifoni. Questa interazione tra localizzazione geografica e clima rende la gestione delle acque uno dei problemi di più difficile governo da parte della città. Inoltre si tratta di una delle metropoli più dense in termini di popolazione del pianeta, con i suoi circa 50.000 abitanti per chilometro quadrato ai quali si aggiungono gli abitanti di altre zone del paese che giornalmente arrivano. L’acqua ha sempre svolto un ruolo strutturale per lo sviluppo della città che nel corso della sua storia ha attivato degli accorgimenti per gestire l’impatto con l’urbanizzazione crescente.
Con il passaggio al controllo britannico, avvenuto agli inizi del Settecento, questa relazione delicata tra città e acqua, si indebolisce sempre più a causa anche della progressiva espansione che l’ha accompagnata nel corso dei suoi ultimi due secoli. Non vi è dubbio che il periodo più ricco della città corrisponda con il periodo Moghul quando la città iniziò a consolidarsi sulle sponde del fiume Buriganga. Il reticolo di corsi d’acqua, che ha visto la città nascere e crescere fin dal periodo che precedette tale colonizzazione, oggi è ancora presente in piccola parte, mentre altri canali sono stati ricoperti da strade urbane. Durante i due secoli dell’impero Moghul la città sviluppò un rapporto molto intenso e diretto con il suo fiume Buriganga. Le sue sponde si riempirono di luoghi pubblici come case del tè e palazzi signorili e si consolidarono dei sobborghi dove risiedevano prevalentemente le popolazioni straniere che vivevano e commerciavano in città (francesi, portoghesi, armeni). La città diviene uno dei poli commerciali dell’impero britannico alla fine del Settecento con il passaggio sotto il controllo della British East India Company.
Con l’avvio della rivoluzione industriale in occidente, anche il ruolo di Dhaka muta. La città si consolida come uno dei centri più importanti del commercio della juta, che ancora oggi per l’80% viene dal delta del Bengala. Gli schemi di evoluzione della città, che Patrick Geddes mise a corredo del suo rapporto sulla pianificazione della città di Dhaka del 1917, evidenziano una città che cresce attorno al suo antico nucleo: una compattezza ancora ben percepibile alla metà del Novecento. L’occupazione urbana del suolo oggi non può più essere riassunta in una forma o in una metafora, perché la sua espansione ha sovrastato il ricco reticolo idrografico nel quale era cresciuta, in molti casi cancellandolo. L’acqua è stata quindi un fattore determinante dello sviluppo della città, e lo è stata nelle sue diverse manifestazioni, tipiche del resto di un territorio deltizio tropicale. Gli abitanti della regione tradizionalmente si occupavano dell’acqua considerandola allo stesso tempo una risorsa ed un rischio, a causa delle inondazioni e, prima delle trasformazioni indotte dalla rivoluzione industriale, hanno sviluppato dei modelli di insediamento in grado di resistere agli effetti dannosi delle acque e allo stesso tempo di sfruttare le opportunità che questa offriva, gestendo l’eccesso di acqua durante le inondazione grazie a bacini che venivano utilizzati nei periodi di magra. Allo stesso tempo si procedeva alla protezione delle fattorie tenute al di sopra dei livelli di inondazione e alla gestione e manutenzione della rete dei canali. Negli anni dello studio di Geddes si assisteva all’ampliamento derivante dal ruolo commerciale che la città aveva assunto sotto la dominazione britannica. Il ricco reticolo di canali della città antica iniziava già a perdere di importanza. Al contrario, Geddes nei suoi studi ne rileva l’importanza e ne propone il potenziamento, in quanto trama di acqua associata a orti, giardini d’acqua e grandi spazi pubblici aperti. In coerenza con il suo approccio regionalista, il biologo scozzese approfondisce questi aspetti non solo limitatamente al centro Moghul ma proiettandoli anche verso quella scala metropolitana che inizia a rappresentare l’orizzonte verso il quale la città appare orientata.
Oggi Dhaka costituisce una delle realtà metropolitane tra le più problematiche del mondo. La sua crisi la possiamo riassumere nei seguenti fattori: elevato inquinamento atmosferico, congestione del traffico, sistema fognario precario, presenza diffusa di insediamenti informali e intasamento della rete di canali su cui la città è cresciuta. L’acqua costituisce certamente uno dei problemi più rilevanti per il funzionamento della città e la criticità maggiore la riscontriamo innanzitutto nella qualità ecologica molto bassa. Le cause sono molteplici: lo scarico di acque industriali e agricole non trattate, le acque reflue urbane e di scarico non depurate, i forti deflussi temporaleschi, l’abbandono di rifiuti solidi che intasano l’alveo dei canali lungo i quali vive una gran parte della popolazione. Le acque, inoltre, vengono frequentemente usate per gli usi domestici o per irrigare i campi ancora presenti nell’area metropolitana. Questa è la condizione del reticolo fluviale incentrato sul Buriganga, lungo il quale vivono milioni di persone con evidenti implicazioni in termini di salute pubblica. Per quanto riguarda l’organizzazione metropolitana, la colmatura dei fiumi con i rifiuti sta alterando uno dei caratteri urbani prevalenti di questa antica città d’acqua.
La ricerca progettuale presentata ha come obiettivo la graduale trasformazione di una metropoli densa in un’area urbana resiliente, in grado di resistere agli stress cronici e ricorrenti che la riguardano quotidianamente, cercando di migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti. Dopo un anno di intenso lavoro condotto in collaborazione con istituzioni di ricerca e di pianificazione della città si è optato per una strategia orientata verso la realizzazione di una rete integrata di spazi verdi e di acqua incentrata sul riuso e risanamento del reticolo idrografico esistente e sul recupero delle numerose aree dismesse o abbandonate, che ancora oggi si riscontrano nelle parti centrali dell’area metropolitana, e sul potenziamento del verde. La ricostruzione della rete dei canali costituisce una soluzione necessaria per poter garantire il funzionamento di bacini in grado di ospitare il deflusso delle acque verso nuove aree di laminazione. La strategia progettuale da un lato propone la rigenerazione della trama minore dei canali, attraverso il loro ridisegno e la loro manutenzione, in quanto corsi d’acqua e non depositi di immondizie; dall’altro l’inserimento nella rete recuperata di spazi verdi e blu, di grandi aree oggi inutilizzate o abbandonate da trasformarsi in parchi con la funzione di bacini di laminazione delle acque fluviali in caso di piena. Rilevante a questo proposito appare il recupero dell’area del vecchio aeroporto interno alla città, sul cui sito si prevede la costruzione del Tejgaon Airport Park. Si tratta di un'area strategica per una riqualificazione della parte centrale della città, posta in contiguità con il parco che ospita il Parlamento di Dhaka realizzato da Louis I. Khan. La loro connessione darebbe vita ad un sistema intrecciato di verde e acque dall’altro valore simbolico e pubblico. Il piano strutturale della città, elaborato nella prospettiva del 2035 appare estremamente consapevole dei problemi della città e dell’importanza strutturale delle sue acque, nei termini della gestione ambientale (approvvigionamento idrico, rifiuti, inquinamenti) e della riqualificazione della città. La volontà di conservare i corpi idrici è dichiarata, ma il riferimento all’importanza delle reti verdi e blu appare generico e la sostenibilità per realizzarsi ha bisogno di azioni localizzate e di pratiche come quelle proposte da questa ricerca progettuale (Mei e Raham, 2019).
L’altra città oggetto di ricerche progettuali è L’Avana e, in questo caso, il lavoro ha riguardato la fascia di contatto tra tessuto urbano, il fronte mare e un fiume. La città è un manifesto dell’urbanistica coloniale, certamente spagnola ma anche nordamericana, con tutti gli influssi arrivati con la cultura urbanistica francese di inizio Novecento (J.C.N. Forestier) e di matrice funzionalista (J.L.Sert). Stiamo parlando di una città policentrica, cresciuta attorno ad un nucleo originario fondato dagli spagnoli in un ideale contesto geografico, ben accessibile e facilmente difendibile (Weiss, 1968). Nel 1982 la città “spagnola” venne dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco per la qualità urbana del suo centro antico e delle sue mura. Si è trattato di un importante riconoscimento che ha contribuito alla sua conoscenza, ma il limite di questa individuazione è che riguarda una parte importante, ma ristretta, della città e dunque quartieri come Centro Habana o Vedado non vedono riconosciuta la loro importanza storica. Il Vedado è l ’esito di un ’ambizione: costruire una città moderna, in un continente nuovo in grado di competere con quanto si stava facendo, in termini di modernizzazione, nelle città europee e nordamericane. L ’evoluzione e la formazione di una città al di fuori delle mura de L’Avana vecchia avviene attraverso la densificazione dei principali percorsi che arrivavano dalla campagna. Queste strade, ancora oggi denominate calzadas, costituiscono le prime e principali arterie commerciali della città e per tale ragione furono costruite, come già ricordato, con i portici che ombreggiavano e incanalavano la brezza. Il quartiere è stato progettato nel 1861, è quindi coetaneo del Plan Cerdà di Barcellona e della Parigi di Haussmann. La crescita della città sul fronte aperto del mare avverrà nel tempo e sarà suggellata dalla costruzione, all’inizio del Novecento, dell ’avenida costiera denominata Malecón. Furono i nordamericani ad avviarne la costruzione nel 1901, quando la città era un protettorato statunitense.
L’Avana costituisce un esempio concreto della applicazione di pratiche e teorie urbanistiche. Percorrendola è possibile ritrovare numerosi influssi ed esperienze generate dalla cultura urbana europea, nordamericana e islamica. Un intreccio che spazia dall ’uso delle griglie ortogonali di antica ascendenza greco-romana, all ’importazione del patio di matrice islamica usato dagli spagnoli per l ’architettura, per giungere all ’introduzione del grattacielo da parte degli statunitensi. Il paradosso della città o la sua fortuna (difficile prendere posizione) è che la rivoluzione castrista ne ha congelato le trasformazioni avviate negli anni del dittatore Fulgencio Batista, che l’avrebbero trasformata in una Miami o in una Rio de Janeiro, con quartieri di alti palazzi al posto del tessuto diffuso di architetture Art Nouveau, Art Deco e “funzionaliste” che ancora oggi connotano i quartieri Vedado e Miramar. La struttura morfologica delle manzanas ha mantenuto intatta la sua geometria regolare così come i tanti edifici che oggi, pur versando in evidenti condizioni di degrado, mantengono i loro vari caratteri tipologici. I due quartieri sono separati dal Rio Almendares e il Vedado è il quartiere che ospita, in condivisione con Centro Habana, il Malecón con il suo fronte di palazzi storici. Tale spazio è forse quello che più identifica la città, ma oggi ha assunto il carattere di un'autostrada urbana separata dal mare da un muro e da un largo marciapiede divenuto luogo di passeggio lungo il fronte oceanico. In nessun punto del Malecón è possibile ritrovare attraversamenti pedonali e questo costituisce uno dei primi problemi di rigenerazione urbana, che associa il recupero monumentale del fronte urbano con l’uso pubblico del percorso più habanero della città. Il lavoro svolto nel 2017 da un gruppo di docenti e studenti delle università di Ferrara e della scuola politecnica de L’Avana ha avviato una riflessione sul carattere di questa strada proponendo la riduzione della sezione stradale automobilistica, la previsione di un tram, l’allargamento dei marciapiedi (Farinella et al., 2018).
Il tema dell’acqua e della sua invasività nella città è al centro del progetto che interessa il quartiere del Vedado. L’intervento ha riguardato innanzitutto il fronte urbano del Malecón e la sua fruizioni pubblica, prevedendo percorsi ciclo-pedonali e una mobilità pubblica, oggi pressoché assente. Il Malecón viene ripensato come una infrastruttura paesaggistica e urbana allo stesso tempo con l’obiettivo di restituire alla città un percorso parzialmente liberato dalla presenza invasiva delle auto. L’altro problema riguarda le inondazioni marine che interessano i barrios prospicienti, con l’intensità dei fenomeni meteorici tipici di un ambiente tropicale. Il quartiere presenta numerosi vuoti che possono essere pensati come spazi pubblici e come bacini in grado di contenere le acque in eccesso,le quali, in occasione delle piogge abbondanti, non riescono a defluire nelle fognature. Tale situazione pone diffusi problemi di allagamento soprattutto dei piani bassi delle abitazioni, mentre una riorganizzazione resiliente degli isolati vuoti o comunque scarsamente edificati consentirebbe la costruzione di un reticolo di spazi pubblici in grado di contenere le acque in eccesso. La presenza di tali vuoti residuali e spazi verdi ha consentito la messa a punto di azioni finalizzate all’aumento della permeabilità del suolo, alla realizzazione di spazi pubblici strutturati come vasche di raccolta delle acque, allo studio di un modello di hotel diffundido con strutture a basso impatto ambientale su pilotis che possono anche accogliere le persone che in caso di allagamento dei piani terra devono lasciare provvisoriamente le loro abitazioni (Ciampolini, 2017).
Il Rio Almendares inizia con la fine del Malecón e costituisce oggi per la città un problema e un “margine vulnerabile” a causa del degrado e dell’abbandono. Il problema non è tanto di natura morfologica o di qualità urbana, in quanto il fiume non è mai stato pensato come parte urbana e come fronte urbano ma di qualità ambientale associata anche al carattere residuale che esso ha assunto nella struttura della città. Il fiume come spesso si riscontra in queste situazioni ha comunque delle enormi potenzialità se considerato come corridoio naturale interno alla città. Le sue sponde e il suo alveo, seppur degradati e inquinati potrebbero, con opportuni interventi, trasformarsi in una infrastruttura verde e blu in grado di connettere parti diverse di città, comprese tra la sua foce e le aree interne. Così facendo si allargherebbe lo spazio di possibile esondazione del fiume, prevedendo aree pubbliche aventi anche il ruolo di bacini di laminazione delle acque fluviali. Certo si tratta da un lato di risanare ecologicamente l’ecosistema fluviale e dall’altro di ripensare i bordi urbani lavorando sugli spazi pubblici e sui bordi costruiti. Questo è l’obiettivo del progetto qui presentato (Bruni, 2018) che è incentrato sul rapporto tra indirizzi e strategie per la rigenerazione urbana e ambientale del fiume e individuazione di situazioni di criticità, su cui intervenire con microprogetti di rigenerazione urbana lungo l’intero corso del fiume. Si tratta di spazi marginali con attività miste e informali e questo suo carattere destrutturato lo rende un luogo di sperimentazione sociale, culturale e ambientale, dunque un’occasione per costruire delle relazioni fisiche tra la città e il fiume e tra due quartieri di grande qualità ma cresciuti, in tempi diversi, come parti separate.
Inoltre, vista l’estensione attuale dell’area metropolitana, le opportunità di rigenerazione non si limitano al tratto costiero dei due quartieri ma a tutta l’area urbana gravitante su di un corso d’acqua che ha le caratteristiche per divenire un potenziale corridoio verde. Il progetto proposto propone la trasformazione del rio in un parco fluviale lineare per l’intero ambito metropolitano. Questo consentirebbe di favorire processi di riconnessione dei tessuti urbani dei diversi municipi che compongono la città metropolitana, lavorando sulla costruzione di una rete di percorsi ciclo-pedonali e di spazi pubblici in grado di creare nuove interconnessioni. In questo modo le aree centrali, più attrattive, che coincidono con lo sbocco a mare del rio, vengono messe in comunicazione con le aree umide della parte a monte del fiume. La ricerca di un equilibrio tra città e territorio, tra urbanizzazione e ambiente è alla base di tante esperienze di progettazione urbana che oggi cercano di far dialogare gli elementi che compongono un sito. Non si può non notare però l’emersione sempre più intensa di una retorica ecologica, che sta riempiendo le pagine dei giornali più importanti. Vengono propagandate soluzioni che non trovano, ahimè, riscontro nella complessità della città e dei processi che le riguardano. Vengono enfatizzati progetti urbani che sostituiscono foreste urbane a vere foreste, e dopo aver edificato i deserti del Golfo Persico, puntando sull’attrattività della acqua del mare mentre si ripropongono le medesime bolle “tecno-ecologiche” addirittura su Marte, per sfuggire ai cambiamenti climatici e al Covid 19. In realtà, restando sulla terra, il mondo urbano è molto più complicato e problematico e dovremmo continuare a lavorare sulle città esistenti cercando di migliorarle per quello che sono e lavorando sui meccanismi che le regolano, tralasciando alla cronaca e alle spiagge queste suggestioni tecno-ecologiste per ricchi. I portoghesi quando fondarono Paraty nel Cinquecento sulla costa a sud di Rio de Janeiro erano consapevoli di essere in una laguna soggetta alle mutevolezze dell’acqua e infatti costruirono una città dove le strade sono concave e quindi trasformabili durante le maree in canali, un progetto resiliente senza alcun dubbio.
Riferimenti bibliografici
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