L'azione simultanea di tre fattori decisivi: le crisi socio-economiche, l’emergenza ambientale e la rivoluzione digitale sta cambiando così profondamente i nostri stili di vita e il modo in cui immaginiamo e desideriamo le solide forme solide del nostro futuro che tutto il nostro sapere progettuale ci sembra improvvisamente inadeguato sia come strumento interpretativo della condizione attuale, sia come dispositivo in grado di generare nuove prestazioni ambientali, sociali, economiche e nuova bellezza e felicità negli spazi di vita.
Qual è il destino delle discipline del progetto di architettura, città, paesaggio se oggi - e domani sempre di più - il fulcro dello sviluppo urbano non è più la crescita ma la capacità di resilienza e la qualità ambientale? Quando non la costruzione del nuovo, ma l’abitabilità, l’efficienza e la ri-significazione dell’esistente diventano le questioni centrali della produzione edilizia? Quando per esempio con l’epidemia entra drammaticamente in crisi un modello di sviluppo fondato sulla concentrazione e sulla velocità dei flussi in un orizzonte insediativo metropolitano che per i livelli di concentrazione delle PM10 e delle PM2,5 -come sembra che dimostrino molti studi recenti- porta alla più intensa diffusione pandemica e alla malattia? Possiamo cogliere l’occasione per affermare una visione dello sviluppo non più degenerativa -che prende energia e materiali per produrre beni che diventeranno rifiuti-, ma rigenerativa che ricicli energia e materiali e che sia capace di coltivare la natura umana e le sue ricchezze sociali e culturali. In altri termini, è possibile pensare oggi a un nuovo statuto per l’urbanistica e per il progetto urbano?
Richard Sennet parla della necessità di un Open Urbanism per una città aperta, soprattutto dopo la pandemia. Un “urbanesimo aperto” per costruire un ambiente flessibile, non sovradeterminato o del tutto definito a priori, così da conservare i benefici del vivere insieme nelle città ma scongiurarne le minacce più pericolose. Quelle derivanti da virus e malattie, ma anche quelle legate agli effetti dei cambiamenti climatici (cfr.: https://www.che-fare.com/battiston-sennett-strututre-flessibili-urbanesimo-aperto/).
Se la città del futuro è quella che già esiste perché in Italia ci sono almeno 8 milioni di case vuote da riabitare prima di costruirne altre e perché ogni nuovo consumo di suolo ha costi ambientali insostenibili, il ruolo dell’urbanistica è quello di occuparsi l’esistente più che di organizzare la costruzione e il funzionamento del nuovo. Come alle origini, ma in un contesto completamente cambiato (post-moderno, post-pandemico, …) in cui lo spazio abitabile è saturo e il tempo ha almeno 3 velocità – è lungo, quasi fermo, per le questioni che riguardano il mondo materiale che sembra non cambiare mai nelle sue forme sensibili, velocissimo nella rivoluzione digitale e ineluttabile nella cronologia degli avvenimenti di vita- l’urbanistica torna finalmente la disciplina per la cura delle città. Un ruolo che prevede il progetto di rigenerazione dello spazio fisico esistente come competenza scientifica per garantire condizioni dell’abitare sane, comode e felici in città belle e dove si vive bene. Sembra banale ma non lo è. La trasformazione della città esistente nella città del futuro, come obiettivo di qualità condivisa per la vita nello spazio abitabile, è un’operazione complessa che prevede competenze, strategie e dispositivi progettuali di tipo nuovo. Si tratta di una sfida che mette in valore l’esistente con dispositivi concettuali che lavorano sullo slittamento del senso e su nuovi cicli di vita per gli habitat. Una sfida che considera il contesto come progetto, il paesaggio come infrastruttura che produce valore ecologico e il futuro della città come un progetto collettivo e non autoriale.
Insomma, l’urbanistica da scienza dell’espansione urbana diventa scienza della rigenerazione della città esistente. E la scienza come scrive Carlo Rovelli nel suo Sette brevi lezioni di fisica (Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, 2014) è attività innanzitutto visionaria. Il pensiero scientifico si nutre della capacità di vedere le cose in modo diverso da come le vedevamo prima.
È una fase richiede appunto nuovi punti di vista sul futuro (i paradigmi di Thomas Khun) e una nuova idea di progetto dello spazio fisico. La società è per ovvii motivi da sempre interessata alle forme dell’abitare, ma sempre di più la qualità del costruito viene percepita come sostenibilità ambientale, economica, e sociale degli interventi. I valori estetici restano fondamentali, ma stanno rapidamente mutando e cresce il consenso tra gli attori sociali e tecnici su tre parametri del progetto di rigenerazione dello spazio fisico tra loro non oppositivi, ma integrabili: prestazione, condivisione sociale e narrazione non propone nuovi concetti urbani o architettonici. Sono criteri che identificano un atteggiamento progettuale anacronistico nel senso di Agamben, anti-grazioso e popolare. Marcano la necessità di rottura con una concezione dello sviluppo urbano essenzialmente fondata sulla costruzione del nuovo. Sono punti di vista sul senso dell’intervento urbanistico all’epoca del lungo presente quando il futuro che sognavamo per le città non arriva mai e probabilmente non è più quello che vogliamo e l’esistente sembra l’ultimo contesto di intervento possibile per vivere meglio: il nuovo patrimonio nelle città. Non può essere cancellato e diventa il contesto delle nostre visioni progettuali. In questo quadro il rapporto tra costruito e natura in città assume un ruolo strategico e non sempre scontato. Charles Waldheim scrive nel 2016 (Landscape as Urbanism, Princeton University Press), che è possibile paragonare le città dopo la modernità al disabitato piranesiano. Un luogo apparentemente informale dove natura e tracce delle epoche precedenti si compongono in un paesaggio denso di significati e persone. Il risultato di questo processo di slittamento dall’estetica del segno a quella del senso conferisce bellezza ad una nuova forma di città-paesaggio, che è l’unica forma sensibile dell’abitare il mondo fisico al tempo del lungo presente, dove gli edifici possono diventare alberi e la natura è l’infrastruttura principale di collegamento tra le persone e la qualità della vita.
Il numero di EWT tratta di questi temi e in particolare del progetto urbano degli ambiti fluviali. In un certo senso si tratta di luoghi estremi per la grande qualità paesaggistica e per la forte esposizione ai rischi antropici e ambientali il progetto della loro presenza nella città è necessariamente flessibile, adattivo e aperto. Nessun luogo come il fiume nella città può diventare un contesto significativo di sperimentazione delle politiche più innovative di rigenerazione ambientale e di valorizzazione della bellezza della città. Considerare lo spazio dei fiumi in città come un’infrastruttura ecologica equivale a istituirlo come spazio ambientale performante, come luogo sociale e come contesto narrativo che esprime qualità estetiche. Si tratta in altri termini di considerarlo l’armatura strategica del progetto di rigenerazione della città esistente.
Per chiarire meglio le questioni proposte sul progetto urbano dell’esistente si possono citare tre progetti di ambiti fluviali nei quali viene sviluppato in particolare uno dei nuovi paradigmi della rigenerazione urbana (prestazione, condivisione sociale e narrazione) con riflessi significativi anche sugli altri.
Il progetto come prestazione è il paradigma della tecnologia abilitante declinato come principio concettuale di estetica operativa. Il progetto di prestazione versus il progetto di funzione significa mettere al centro dell’idea di cambiamento non l’uso ma il risultato innovativo apprezzabile in termini prevalentemente ecologici, ma non solo. In definitiva il principio prestazionale proietta l’urbanistica nella contemporaneità facendola diventare terminale o interfaccia di un sistema di relazioni ambientali, fisiche o immateriali che ne sostanziano l’esistenza. È la ri-contestualizzazione dell’idea di progetto all’interno di uno spazio di intervento nuovo e non necessariamente materiale.
Uno dei progetti urbani più interessanti in questo senso è quello del Master Plan per il lungofiume di Anversa di Proap (Joao Nunes, Iñaki Zoilo e Carlos Ribas). Come scrivono gli stessi autori del Piano La rivendicazione del recupero della zona fluviale alla città, così come la relazione sulla variazione del livello delle acque – le oscillazioni normali diarie della marea da quota 0 m fino ai 5 m – hanno giustificato e dato forma al programma per la redazione del progetto. La presentazione del progetto non poteva escludere la necessità di soluzioni tecniche realizzabili per la difesa della città a rischio di inondazioni, riformulando, contemporaneamente, le strutture esistenti e garantendo così un programma finanziario e funzionale equo. Di fronte al programma definito ed agli obiettivi tracciati, la strategia dell’intervento intendeva proteggere la città in quanto struttura civile, ed in quanto riparo per la popolazione locale, permettendo lo sfruttamento di forme di vita più adeguate. Un aspetto essenziale della proposta è consistito nella variazione spaziale della linea di barriera fisica contro l’innalzamento del livello delle acque, facendo sì che tale linea si avvicinasse al fiume o guadagnasse spazio per la città, dando forma ad un paesaggio dinamico, alterabile in funzione di maree e piene eccezionali. Questa linea, derivante dalla forma di ogni sezione tipologica, ha inoltre definito la possibilità di integrazione degli usi, stabilendo, da un lato, aree inondabili adatte ad un utilizzo temporaneo e, dall’altro, piattaforme asciutte, di utilizzo permanente, restituite alla città. Questi spazi hanno reso possibile la determinazione di condizioni per la localizzazione di infrastrutture, attrezzature, edifici o aree di vegetazione.
Il progetto come azione sociale è la questione oggi al centro di molti lavori su spazi (anche temporanei) per l’abitare e sui sistemi per la mobilità collettiva. La condivisione rappresenta non solo e non tanto il modo di far autorizzare un’opera dai suoi fruitori, quanto il coinvolgimento diretto dei fruitori nel processo di progettazione e realizzazione dell’opera. Certamente in questo tipo di progetti il concetto tradizionale di autorialità viene messo in discussione dalla condivisione del processo creativo e il processo attuativo è spesso autogestito e hic et nunc. Il progetto si realizza e anche subito, anticipando in qualche modo i lunghi tempi burocratici delle approvazioni e delle concessioni pubbliche.
A Columbus (Ohio, USA) esiste una struttura di progettazione condivisa che funziona ormai da 10 anni per la predisposizione dei piani di rigenerazione locale in città. Il Neighborhood Design Center è un’unità di progetto condiviso senza fini di lucro nata dalla collaborazione tra la Municipalità di Columbus, l’Ohio State University -una delle più grandi università pubbliche americane con sede proprio nella capitale dello Stato- e le organizzazioni di base dei cittadini, che insieme sviluppano urban regeneration community projects. In pratica l’università fornisce le competenze scientifiche, il Comune di Columbus quelle tecnico-amministrative e gli abitanti condividono le fasi processuali di definizione del programma di progetto. I fondi guadagnati da questa in house clinic per il progetto urbano servono a mantenere l’unità stessa e a finanziare borse di ricerca e stage professionali per gli studenti della Ohio State University. Tra gli altri progetti in corso, The Neighborhood Commercial Revitalization (NCR) è un programma di sovvenzioni finanziato dalla Città di Colombo con lo scopo di stimolare lo sviluppo economico in 7 corridoi commerciali designati in tutta la Città. Per il corridoio di Cleveland Avenue (Franklinton) il progetto redatto in collaborazione con i cittadini tende a trasformare una delle principali arterie di scorrimento urbano in un asse verde ortogonale allo Scioto River con attività commerciali e ricreative. Il fiume viene raggiunto e diventa la testata del nuovo asse naturalistico nel primo punto dove il contatto con lo spazio pubblico della città non viene impedito dalle attrezzature ferroviarie esistenti e può essere effettivamente realizzato
Il progetto è concepito come un Piano di azioni urbane condivise e interpreta lo spirito del tempo che ci porta a superare i processi partecipativi tradizionali, prendendo parte direttamente alle fasi ideative e progettuali dello strumento urbanistico.
La narrazione è un dispositivo interpretativo che stabilisce la necessità delle discipline gestaltiche al tempo della rivoluzione digitale dell’informazione condivisa. Il paradigma del progetto urbano come narrazione esprime la necessità di caricare di senso il contesto dell’esistente, di far scoprire con nuovi occhi e con figure più marcate quello che c’è già. Anche in senso etimologico stretto la narrazione svela significati diversi, racconta la storia della città e di chi la abita attraverso i segni della sua ri-significazione. Un’urbanistica sul quelle che sono le tensioni della città e dei suoi abitanti. Serve a dar valore a quel che c’è e a far sognare attraverso il progetto. Come il fantastico nuovo spazio pubblico a Roma sul lungofiume tra Ponte Garibaldi e Ponte Mazzini, dove l'artista sudafricano William Kentridge ha pulito il muraglione sul Tevere lasciando solo la traccia dell’inquinamento che c’era a comporre un fregio che racconta la storia di Roma. Se i cittadini romani sapranno mantenere l’aria della città pulita il fregio resterà. In caso contrario l'inquinamento annullerà il disegno nel nuovo nero della muraglia. Come poi è successo.
Nella nuova Copenaghen, dove il paradigma ecologico guida i cambiamenti urbani, le infrastrutture tradizionali sembrano aprirsi a nuovi cicli di vita e assumere diversi ruoli nella città. Adattamento e riciclo sono le parole che descrivono meglio le modalità della loro rigenerazione. I vecchi silos portuali che diventano condomini (Frøsilo, MVRDV), la centrale elettrica che è anche una collina e una pista da sci (Copenhill, Big + Topotek1 + altri), la strada trasformata in un parco urbano (Superkilen, Big + Topotek1 + altri), sono solo gli esempi più conosciuti della possibilità innovativa di sposare infrastrutture e spazi sociali e trasformarli in un paesaggio, in un luogo bello, felice e popolare. In questa strategia il porto è il più grande e il più prezioso spazio pubblico della città, una grande piazza d’acqua come nella vecchia tradizione mediterranea. Si insinua come un fiume di acqua pulita nella città, per questo se ne può parlare in questa sede. Le banchine sono come spiagge dove è possibile abbronzarsi e nuotare in acque limpide. E ci saranno isole. Un Parkipelago di piccole isole dove puoi andare per essere isolato (come dice la parola) per prendere il sole, incontrare amici o semplicemente andare da qualche parte mentre il tempo passa. Con il progetto Parkipelago un nuovo tipo di spazio urbano irrompe nel porto di Copenaghen. L'intenzione è di rinnovare le orgogliose tradizioni della vita portuale danese rafforzando la coesione sociale e la consapevolezza della vita marittima dentro e intorno al porto. Gli utenti determinano i diversi usi delle isole. Le attività e le funzioni di ciascuna isola sono flessibili, a seconda della sua posizione nel porto e dei diversi periodi dell'anno. Un parco di isole galleggianti crea infinite possibilità per attività divertenti ed esplorazioni quotidiane.
Copenaghen Islands esprime il concetto di focalizzare l'attenzione dei cittadini sulla qualità dell'ambiente portuale, sul cambiamento climatico globale e sull'innalzamento del livello delle acque. Queste sono alcune delle sfide più difficili che l'urbanistica deve affrontare per tornare a curare la città esistente. Il parco galleggiante riporta la natura selvaggia e l'avventura nel bacino del porto. Le isole offrono uno spazio verde generoso e in continua evoluzione nel centro della città. In superficie con le piante endemiche, gli alberi, i cespugli, le erbe e sott’acqua nei punti di ancoraggio forniscono un habitat per uccelli e insetti, alghe, pesci e molluschi.
Parkipelago è aperto e libero per essere utilizzato da diportisti, pescatori, kayakisti, osservatori di stelle, nuotatori e amanti. Le sue isole definiscono uno spazio per la fantasia e i sogni. Puoi andare dall'una all'altra come in un'odissea minimale per provare esperienze diverse o semplicemente immaginare di farlo mentre le guardi dalla terraferma, o anche raccontare di averlo fatto. Copenaghen Islands suggerisce un’urbanistica fatta di prestazione, di coesione sociale e di narrazione che resiste al clima, è flessibile nelle destinazioni e utilizza solo fonti sostenibili e materiali riciclabili ... come l’immaginazione.
Il progetto di Copenaghen Islands ha ricevuto il Taipei International Design Awards per lo spazio pubblico e il premio per i social design, è stato finalista al premio di design Beazley al London Design Museum ed è stato appena annunciato come finalista al Danish Design Prize. Copenaghen Islands è un'iniziativa no profit avviata dall'architetto australiano Marshall Blecher e Magnus Maarbjerg dello studio di design danese "Fokstrot", è supportato da københavns kommune, da og havn e den enjois havneliv
Chi: FOKSTROT / Marshall Blecher
Cosa: Concept, Progetto, Produzione
Dove: Porto di Copenhagen
Quando: In realizzazione
www.copenhagenislands.com
Fotografie aeree di Airflix (airflix.com)
Visualizzazioni di MIR (www.mir.no)