Abstract:
Siamo certi che la realizzazione dei muraglioni abbia prodotto la frattura tra città e fiume e che Roma abbia perso definitivamente il suo storico legame con il Tevere?
O forse dovremmo ripensare, con maggiore profondità, il trapasso della città tradizionale in una modernità immediatamente difficile e controversa, in cui alla fine saranno proprio i muraglioni ad apparire come uno dei pochi gesti forti e moderni delle politiche urbane della Capitale?
Siamo convinti che la questione sia aperta e che il fiume e i suoi muraglioni possano costituire un grande tema per il progetto urbano.
La costruzione dei muraglioni
L’inondazione del Tevere di fine Dicembre del 1870 fu disastrosa: il livello delle acque salì a 17,40 metri rispetto allo zero dell’idrometro di Ripetta, un innalzamento nettamente superiore, secondo gli storici, alle inondazioni del 1495, del 1660 e del 1805. Il disastro rivelò la mancanza di manutenzione dell’alveo, ricolmo di detriti, di fanghi, di crolli di fabbriche e di ponti romani (Sublicio, Neroniano, Trionfale). L’attenzione ritornò sulla pericolosità dei mulini galleggianti dell’isola tiberina che ostacolavano lo scorrimento delle acque di piena e sugli effetti dannosi prodotti dal rigurgito dall’antico sistema fognario e, in particolare, della Cloaca Massima che inevitabilmente portava all’allagamento del Foro Boario. Fotografie di quei giorni mostrano che le acque erano giunte fino al Corso, al Pantheon, a Piazza del Popolo. A Nord il fiume era tracimato a Ponte Milvio, invadendo il Flaminio e i Prati di Castello. La città vista dal Pincio, secondo le cronache del tempo, sembrava emergere dalle acque di un lago.
Il pericolo di inondazione apparve immediatamente inammissibile per la nuova capitale d’Italia. A stretto giro il Ministro dei Lavori Pubblici istituì una commissione di esperti per trovare un’efficace e definitiva soluzione al problema delle esondazioni. La commissione esaminò tre proposte: quella di Raffaele Canevari, imperniata sulla costruzione, nel tratto urbano, di alti muraglioni; quella di Alessandro Bettocchi, che proponeva di costruire un canale di deviazione del fiume (drizzagno) dalla zona a monte di Ponte Milvio fino all’ospedale di Santo Spirito, per poi proseguire con l’allargamento dell’alveo; quella infine di Carlo Possenti che prevedeva di rettificare e ampliare l’alveo a valle della città.
Prevalse la proposta di Canevari, ma il progetto che includeva la cancellazione dell’Isola Tiberina, trovò forti opposizioni, in particolare da parte del senatore Giuseppe Garibaldi cui dobbiamo il progetto di legge (1875) per la realizzazione di un canale che dalla confluenza dell’Aniene nel Tevere, doveva sorpassare la città per poi proseguire fino a Fiumicino, bonificando dalla malaria i territori attraversati. La portata del Tevere si sarebbe in tal modo ridotta, evitando il rischio di esondazioni nel tratto urbano. Il progetto avrebbe conservato il tessuto edilizio prospiciente il fiume, ma probabilmente avrebbe prodotto una diversa configurazione delle sue sponde. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo di preciso, ma con un occhio a un’esperienza contemporanea, come la deviazione del Fiume Turia (1957) a Valencia, forse potremmo immaginare che l’alveo sarebbe stato occupato da un grande parco urbano attraversato da un Tevere minore.
Contro il progetto di Garibaldi, ritenuto troppo impegnativo e costoso, giocarono ragioni politiche, ma forse ancora di più l’interesse a dare avvio ai muraglioni del progetto di Canevari visto come un’opera fattibile, che avrebbe certo rivoluzionato la spazialità della città, ma offerto all’imprenditoria edile nuove opportunità d’intervento. I lavori dei muraglioni iniziarono nel 1876 e dopo una prima fase di intensa attuazione si conclusero nel 1926.
L’ultimo tratto a essere realizzato fu la riva sotto l’Aventino, dove erano già in corso gli scavi archeologici dell’antico porto romano. Per questa sua specificità i muraglioni furono trattati diversamente: Vincenzo Fasolo, impegnato come progettista per la sistemazione del Lungotevere Aventino, propose qui una lunga serie di archi come memoria degli antichi magazzini portuali.
Dopo la rinuncia alla rimozione dell’Isola Tiberina, il progetto di Canevari, con il contributo dell’ingegnere Angelo Vescovali, assunse una maggiore coerenza ed unitarietà che ne agevolò l’approvazione. La città poteva proteggersi dal fiume attraverso potenti muraglioni alti 18,45 metri con un’inclinazione del 70%, al loro piede un’ampia banchina di 8 metri in grado di funzionare anche come contrafforte. L’insieme realizzava un invaso con una sezione costante di 100 metri alla base e di 110 alla sommità. L’irregolarità sinuosa dell’alveo scomparve per lasciare il posto a un’energica geometrizzazione del corso fluviale.
I muraglioni, realizzati con una massicciata di tufo e pietrame locale, furono rivestiti di spesse lastre di travertino, mentre per la pavimentazione delle banchine vennero utilizzati i sampietrini di selce. L’opera rivela ancora oggi la ricerca di un effetto plastico ed estetico. Il bianco delle pareti in contrasto con il grigio del basamento, la modanatura continua sul coronamento della parete marca l’innesto del parapetto e la successione delle discese sulle banchine in corrispondenza dei ponti conferiscono all’insieme un carattere imponente, ma nello stesso tempo di sobria eleganza. Sia Canevari che Vescovali erano, del resto, ingegneri con forti interessi per l’architettura: il primo fu progettista di importanti complessi civili come il Ministero delle Finanze e l’Istituto di Geofisica (una delle prime architetture in ferro a Roma), il secondo si affermò come progettista di ponti (nel tratto urbano del Tevere ne realizzò ben sei).
Una grande opera infrastrutturale
La realizzazione dei muraglioni si collocava in una fase di intenso sviluppo edilizio della città. Tre piani regolatori si succedettero nello spazio di pochi anni, da quello del 1873 (periodo in cui ferveva il dibattito sulle soluzioni da adottare per la difesa della città dalle inondazioni), a quello del 1883 che includeva il nuovo quartiere Prati, al piano del 1909 che finalmente dava forma e struttura alla città, definendo il complesso quadro delle connessioni tra le due sponde del Tevere, dal Flaminio al Testaccio.
I muraglioni si imposero come l’opera infrastrutturale più impegnativa del periodo, l’unica in fondo ad avere la dimensione di un grande progetto moderno, paragonabile a quanto si stava facendo nelle capitali europee più avanzate. Un’infrastruttura complessa, che riusciva a integrare le opere di difesa con i grandi collettori fognari collocati nel corpo murario, la nuova viabilità e l’innovativo spazio pubblico dei Lungotevere. I muraglioni si sviluppavano per circa 8 Km: dallo Scalo De Pinedo, che replicava le forme del porto di Ripetta, alle nuove banchine di Ripa Grande dove due grandi rampe e una scalinata a forbice ricordavano il precedente porto pontificio. Due chiare citazioni per connotare la scala urbana e il valore culturale dell’opera. Lo scalo De Pinedo, doveva operare come un accosto per il trasporto fluviale a servizio delle attività artigianali del Flaminio, ma presto tale funzione risultò del tutto inutile. L’attuale denominazione fu data solo nel 1925, a ricordo dell’aviatore Francesco De Pinedo che qui ammarò con il suo idrovolante, al termine di una storica transvolata.
I muraglioni vanno visti insieme ai ponti, molti dei quali furono ultimati in vista dell’Esposizione Internazionale del 1911 e della celebrazione del cinquantenario dell’unità d’Italia. Ponti importanti, tutti in muratura tranne il Ponte Risorgimento, il primo a essere realizzato in cemento armato secondo il brevetto Hennebique.
La realizzazione dei muraglioni comportò la scomparsa dei porti di Ripetta e di Ripa Grande e la demolizione di consistenti porzioni di tessuto edilizio prospiciente il fiume. È sufficiente sovrapporre una carta tecnica recente con la pianta di Giovanni Battista Nolli per avere la misura delle distruzioni, Queste sono particolarmente evidenti nei punti dove era maggiore il salto di quota tra il suolo dei Lungotevere e quello del tessuto urbano storico. In via Giulia tra gli edifici scomparsi si ricorda il secentesco Ospizio dei mendicanti, di cui si riuscì a salvare il fontanone dedicato a Paolo V (ricollocato fin dalla fine dell’Ottocento al di là di Ponte Sisto, a Piazza Trilussa); a Tor di Nona furono distrutti il Teatro Apollo, Santa Maria in Posterula e il Palazzo Altoviti; alla Lungara il giardino della Farnesina fu radicalmente ridotto, mentre più a monte, all’altezza dell’attuale Piazza della Rovere, venne abbattuto l’Ospedale dei Pazzarelli. Anche la distruzione del Ghetto (e il suo risanamento) iniziò con gli espropri degli isolati prospicienti il fiume. Le distruzioni furono ben maggiori e consentirono non solo di realizzare i muraglioni, ma su entrambe le sponde, i lunghi e ampi viali dei Lungotevere che includevano sui lati interni una fascia continua di nuove aree edificabili. L’opera infrastrutturale fu pensata fin dall’inizio anche come un formidabile occasione dispositivo per promuovere un mercato immobiliare di qualità.
Lungotevere Boulevard
Mentre in molte città europee (da Parigi, a Vienna, a Milano) i boulevard nascono dall’abbattimento delle mura urbane, non a caso boulevard ha la stessa radice di bolverk che in fiammingo significa bastione, a Roma le mura non vengono abbattute, ma si rinuncia a progettare al suo intorno una infrastruttura viaria e urbana assimilabile ad un boulevard.
I viali alberati dei Lungotevere sono i boulevard di Roma. Non intorno alle mura, ma lungo i muraglioni del fiume. Si tratta di un ribaltamento su cui si è riflettuto assai poco. A dire il vero una relazione forte tra le due opere esiste, le mura Aureliane si sviluppavano per due lunghi tratti sulla sponda sinistra: il primo da Piazzale Flaminio a Ponte Sisto (poco a monte di quest’ultimo le mura passavano sulla sponda destra per poi risalire fino alla Porta Aurelia, ora San Pancrazio; il secondo più a valle tra gli attuali ponti dell’Industria e Sublicio. Le mura, oltre alla funzione difensiva sul lato fiume, svolgevano un ruolo di contenimento delle piene. La costruzione dei muraglioni distrusse quel poco che rimaneva (resti dell’antico recinto aureliano, con evidenti interventi medievali, sono visibili ancora oggi sulla sinistra del fiume all’altezza del campo boario del Mattatoio, non a caso oltre il tratto fluviale contenuto dai muraglioni).
La relazione esiste e rivela come la forma della città sia ancora fortemente legata a queste due infrastrutture, una antica e l’altra moderna. Mura e muraglioni due segni potenti, ma entrambi trascurati e disattesi dal progetto e dalle politiche urbane.
Per molti decenni i viali lungo il Tevere, furono veri boulevard, arterie per la grande viabilità tra il Nord e il Sud della città, ma anche un grande spazio pubblico continuo. La piantumazione di filari di platani, iniziata nel 1883, trasformò presto i Lungotevere in un ambiente confortevole e fresco, dove passeggiare e incontrarsi. Un fiume verde sovrastava i muraglioni facendo tracimare i suoi rami sulle pareti di travertino quasi ad attenuarne l’imponenza (e il suo “sfacciato biancore” come ricordava negli anni ’30 Bruno Braschi direttore del servizio giardini).
Il Lungotevere inaugurava una nuova tipologia urbana capace di comprendere nella medesima sezione il fiume, le banchine, i muraglioni, i parapetti, le alberature, i marciapiedi, la carreggiata stradale, i sottoservizi con il principale collettore della città e il fronte edilizio sul fronte opposto. Quest’ultimo era stato pensato all’inizio come un continuum di edifici porticati alla piemontese. Ne furono realizzati solo alcuni. La struttura imprenditoriale e la domanda immobiliare della città preferirono orientarsi verso soluzioni più segmentate e flessibili. Le destinazioni funzionali individuate dai primi piani regolatori privilegiarono la localizzazione di edifici pubblici rappresentativi, uffici, residenze di qualità per una borghesia affluente. L’elevato valore immobiliare delle aree prossime ai Lungotevere fu poi determinante nella scelta degli interventi più remunerativi e nel coinvolgimento di qualificate figure professionali. Le architetture dei Lungotevere costruirono un contesto urbano variegato, in grado di accogliere linguaggi diversi dall’ecclettismo, al liberty, al razionalismo.
Un contesto nell’insieme moderno, attraente, prossimo ai monumenti della città storica e ai quartieri popolari, ancora lontani da fenomeni di gentrificazione, ma minacciati a più riprese da consistenti operazioni di sventramento (a Piazza Venezia, a via Arenula, a Corso Vittorio Emanuele, a Corso Rinascimento, in ultimo alla Spina di San Pietro). Un Lungotevere poroso, attraversato longitudinalmente e trasversalmente in corrispondenza dei ponti antichi e moderni.
Il passo lento del Lungotevere
Il traffico automobilistico era contenuto e dal 1930, il Lungotevere in sponda sinistra, dalla Bocca della verità a piazzale Flaminio, fu servito da una linea tramviaria, dalla circolare Nera, dismessa solo nel 1959. Per tutto questo tempo i Lungotevere furono davvero dei boulevard in cui i flussi della mobilità tramviaria e automobilistica potevano convivere con il movimento dei pedoni.
Al di sotto dei muraglioni, il fiume, grazie anche alla accessibilità dei Lungotevere offriva una pluralità di attrattive per i romani dei rioni vicini, ma anche provenienti dalla periferia (come racconta Pasolini nei ragazzi di vita). È il fiume dei galleggianti, alcuni rudimentali, altri organizzati come piccoli stabilimenti balneari con spogliatoi, solarium e trampolini. Il più famoso era “il Ciriola”, sotto Castel Sant’Angelo (dove si incontravano i “Poveri ma belli” di Dino Risi e Gregory Peck portava a ballare Audrey Hepburn nel film “Vacanze Romane” di William Wiler.
Sopra chi passeggiava poteva fermarsi e osservare lo spettacolo. Il fiume e i Lungotevere erano accoglienti e sotto i platani, come diceva la canzone Pè Lungotevere del 1932 di Romolo Balzani, le” coppie fileno li baci scrocchieno”.
I Lungotevere cessano di essere boulevard, tra gli anni ’50 e ’60, quando la città si apre a una mobilità tutta incentrata sul traporto automobilistico. I Lungotevere diventano arterie a senso unico e ad alta intensità d traffico. La congestione, il rumore e l’inquinamento trasformano i viali in corridoi a servizio delle auto che scorrono incessantemente e che parcheggiate lungo i marciapiedi scoraggiano chi voglia avvicinarsi ai parapetti o passeggiare. I marciapiedi del resto dopo anni di incuria risultano sconnessi e martoriati dalle radici di platani sofferenti per l’invasione dell’asfalto alla base dei tronchi.
E ’questa nuova condizione a stravolgere i Lungotevere e a farne una barriera nei confronti del fiume con cui aveva dialogato per oltre mezzo secolo.
La relazione visiva con il fiume
È indubbio, l’introduzione dei muraglioni ha cambiato radicalmente la percezione del Tevere, ma a ben vedere non nel senso di una chiusura visiva nei suoi confronti. Nella città preunitaria la visione del fiume era limitata a pochi varchi inseriti nel tessuto compatto e continuo che s’affacciavano direttamente sull’acqua L’analisi della pianta del Nolli ci può essere di aiuto. Le aperture sul fiume sono ampie nei porti di Ripetta, di Ripa Grande e nel porto Leonino, di fronte a San Giovanni dei Fiorentini; trovano spazio negli attracchi per l’approvvigionamento del legname, in prossimità di Piazza del Popolo; si localizzano nelle postazioni dei barcaroli che traghettavano le persone da una sponda all’altra (nella pianta del Nolli, ne contiamo sei). Molto poco se nel 1882, un attento narratore come Carlo del Balzo poteva dire: Roma “non ha nessuna passeggiata sul Tevere. Le case cadono a picco nell’onde e vi si affacciano a ridosso di luridi scalini e rampe”.
Il Lungotevere introduceva una spazialità del tutto nuova: come un nastro scorrevole e in movimento raccontava il nuovo prospetto della città (è così che va letta la sequenza degli edifici realizzati sui suoi bordi). In questo senso il Lungotevere è un boulevard, nel suo spazio si realizzava il progetto di una Roma finalmente moderna.
La scala del Lungotevere non è quella delle grandi capitali europee, eppure è difficile non pensare, come riferimenti, a Parigi e a Londra dove, alcuni decenni prima, si era provveduto alla sistemazione degli argini dei fiumi. Da un lato le rive della Senna con il loro carattere di rappresentatività e di grande spazio pubblico; dall’altro gli argini di Londra che Joseph Bazalgette aveva riorganizzato con un’opera di ingegneria complessa, in cui erano integrate insieme l’arteria stradale, il sistema fognario e le gallerie della metropolitana.
Nella sezione del Lungotevere manca il tunnel della metropolitana, ma forse era troppo per una piccola capitale che all’inizio del XX secolo contava poco più di 400.000 abitanti.
L’architettura del Lungotevere
Sui Lungotevere, nell’ambito definito dai muraglioni, furono localizzati, via via, una pluralità di edifici istituzionali. Sulla sponda sinistra del fiume, a partire dal ponte Palatino, troviamo la sede del Governatorato, ora palazzo dell’Anagrafe (di Ignazio Guidi, Vincenzo Fasolo, Cesare Valle, inaugurato nel 1939); poi muovendoci verso Nord: la nuova imponente Sinagoga (di Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, 1901-1904); quasi all’incrocio con via Arenula, il Ministero di Grazia e Giustizia (di Pio Piacentini, 1913-20); all’altezza di Ponte Umberto I, il Palazzo Primoli-Museo Napoleonico (ristrutturato, dopo la realizzazione dei muraglioni, da Raffaele Ojetti,1901); a Tor di Nona il complesso di edifici residenziali e per uffici di piazza Nicosia (di Marcello Piacentini, 1940-42), e il Palazzo dello Icp (di Alberto Calza Bini,1927); superato il Ponte Cavour, l’Ara Pacis (sistemazione di Vittorio Ballio Morpurgo, 1938); di poco più avanti, rispetto allo Scalo De Pinedo, il Ministero della Marina (di Giulio Magni, 1912-28). Passando sulla sponda opposta, quasi all’altezza dell’Isola Tiberina, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ora Ministero della Salute (di Cesare Valle, 1939); più a monte, intorno a Castel Sant’Angelo, la Casa Madre dei Mutilati (di Marcello Piacentini,1928-37), l’ampliamento dell’Ospedale di Santo Spirito (Gaspare e Luigi Lenzi, 1926) e il Palazzo di Giustizia (di Guglielmo Calderini, 1889-1911).
Accanto ai grandi interventi pubblici, molti edifici privati di prestigio, villini e palazzi progettati dai professionisti più affermati del periodo: da Cesare Bazzani, ad Armando Brasini, al razionalista Giuseppe Capponi
Mentre lungo i muraglioni si dispiega un repertorio di architetture eclettiche e monumentali, più a Nord, oltre il Ponte Risorgimento (dove è ubicato il monumentale complesso residenziale di Giulio Gra) iniziamo a trovare interventi più aperti al moderno come la palazzina Furmenik di Mario de Renzi o il piccolo edificio razionalista, sede di un circolo sportivo, di Ernesto Bruno La Padula.
I Lungotevere raccontano l’architettura della città, e la narrazione, a ben vedere, si articola per grandi stanze: a Sud il porto fluviale, quasi al centro il tratto dei muraglioni, poi l’ambito Flaminio-Mazzini e ancora più a Nord, il grande episodio del Foro Italico e del Villaggio Olimpico.
Progetti
Il piano regolatore del 1962 e la sua Variante del 67 non espressero nessun programma di riqualificazione del tratto urbano del Tevere, ma confermarono la vocazione sportiva dell’ambito Nord, uno dei poli più importanti delle Olimpiadi del 1960 (non casualmente tale vocazione è stata ripresa recentemente in occasione del fallimentare tentativo di candidare Roma per le Olimpiadi del 2024). L’attenzione era rivolta all’espansione, alle nuove aree direzionali orientali (SDO), al completamento edilizio delle aree urbanizzate, ai piani di zona per l’edilizia popolare.
I Lungotevere furono confermati come arterie per l’intenso traffico automobilistico, come direttrice di attraversamento della città da Nord a Sud, (in occasione delle Olimpiadi i Lungotevere furono resi più scorrevoli con l’introduzione di numerosi sottopassi). Una scelta duratura, dal momento che persiste ancora oggi.
Il tema ambientale e urbanistico del Tevere in relazione alla città fu del tutto accantonato e ripreso con scarsa efficacia, come vedremo, solo con il nuovo piano regolatore approvato nel 2008.
Al di fuori del progetto per la sistemazione dell’Ara Pacis, voluto con determinazione dal sindaco Rutelli, che affidò direttamente l’incarico a Richard Meier (l’opera fu realizzata nel 2006) non ci sono stati interventi di rilievo sui Lungotevere. Ci furono, tuttavia, una serie di proposte progettuali che meritano di essere ricordate.
Tra queste il Museo della scienza tra via Giulia e il Lungotevere, che Maurizio Sacripanti elaborò in via preliminare nel 1981-4 su invito di Carlo Aymonino, allora assessore al Centro Storico. L’opera, se fosse stata realizzata avrebbe risolto il vuoto tra Via della Moretta e il Lungotevere Tebaldi e introdotto nel tessuto storico un complesso ipermoderno, assolutamente innovativo, capace di rompere l’assialità del fronte costruito del Lungotevere. Purtroppo le cose sono andate diversamente e il vuoto, prodotto dalle demolizioni del 1939 dei palazzi cinquecenteschi Lais e Ruggia e dell’isolato di San Filippino, rimase a lungo senza soluzione. Nel 2011 ci fu il tentativo da parte dell’amministrazione comunale di mettere a confronto le proposte di sette gruppi di progettazione (Aldo Aymonino, David Chipperfield, Stefano Cordeschi, Roger Diener, Paolo Portoghesi, Giuseppe Rebecchini). La consultazione non approdò a nulla, e il Comune, nonostante la forte opposizione pubblica, decise di confermare per l’area la destinazione a parcheggio interrato. L’opera è stata realizzata e oggi emerge in superficie di un piano, rendendo ancora più difficile la riqualificazione del sito.
Un’altra occasione di riflessione fu la mostra La nave di pietra all’isola Tiberina, promossa dalla Regione Lazio nel 1983. La mostra riportò l’attenzione nei confronti dell’isola e del suo contesto, affidando alla forza evocativa dell’architettura il compito di riallacciare un rapporto tra passato e presente. Un tratto comune ai numerosi progetti, tra cui quelli di Portoghesi, di Purini-Thermes, di Anselmi, fu l’evidente intenzione di densificare, ricostruire, occupare spazio, in un luogo dove invece occorreva intervenire con operazioni di minore impatto. In qualche modo, tuttavia, l’architettura disegnata e autoreferenziale della mostra esprimeva, un processo reale: quello della separazione tra progetto di architettura e piano urbanistico, registrando l’assenza a Roma di una strategia politica e urbana.
Non mancarono proposte d’intervento tese a riorganizzare la mobilità sui Lungotevere. Nel 1993 Giulio Fioravanti, molto attivo nel periodo della Giunta Rutelli, elaborò l’ipotesi di intervenire nel terrapieno dei Lungotevere per collocarvi le gallerie di una nuova arteria automobilistica a scorrimento veloce. La proposta fu ripresa dall’ Acer (Associazione Costruttori Edili di Roma) che nel 2002 propose di situare sotto i Lungotevere 9.000 posti auto tra Ponte Risorgimento e Ponte Sublicio. Altri progetti proposero di ubicare nel sottosuolo del Lungotevere in sponda sinistra una metropolitana leggera (Agenzia Kronos, Giuseppe Caputi). Tutti questi tentativi si infransero alla prova dei fatti quando in occasione del Giubileo del 2000 il progetto di realizzare il sottopasso di Castel Sant’Angelo per trasformare il Lungotevere in un’ampia area pedonale connessa a San Pietro, fu fortemente ridimensionato per i vincoli archeologici e i timori di cedimenti geotecnici. L’opera fu realizzata più a valle, in corrispondenza di Ponte Vittorio Emanuele II. Non a caso, per l’inaugurazione dell’intervento (1999), fu coniato il termine “sottopassino”.
Il “Forum Tevere”, organizzato nel 2003, dall’Università degli studi di Roma La Sapienza insieme all’ACER e patrocinata dal Comune, è stato uno degli ultimi tentativi di porre il Tevere al centro delle politiche urbane. Il momento sembrava favorevole: da un lato era in fase avanzata la redazione del nuovo piano regolatore, che indicava il fiume come ambito di programmazione strategica; dall’altro lato l’obiettivo di promuovere progetti urbani a partecipazione pubblico privato e in project financing induceva imprese e progettisti a verificare la fattibilità economica e amministrativa degli interventi. I progetti furono molti ed alcuni ben strutturati, ma a distanza di circa 20 anni nessun progetto è stato avviato. Colpa della crisi finanziaria, del debito pubblico, ma anche dell’inerzia e incapacità delle diverse giunte comunali che si sono succedute.
Nel 2008 viene approvato il nuovo Piano Regolatore. Il suo punto di forza avrebbe dovuto essere l’attuazione di cinque progetti strategici, tra cui quello del Tevere prima ricordato.
Un progetto ambizioso di ampio respiro che avrebbe richiesto ingenti risorse, il coordinamento con una pluralità di soggetti tra cui l’Autorità di bacino e la Regione Lazio, e soprattutto numerosi interventi concreti, opere e infrastrutture da realizzare in tempi ragionevoli per sostenere il disegno complessivo. Alcuni progetti elaborati dall’ufficio Città storica con la consulenza di Mario Manieri Elia e Carlo Gasparrini avevano il pregio di essere operativi, e nello stesso tempo ben radicati nella storia della città. Le trasversali Aventino e Gianicolo si proponevano di legare il Tevere agli affacci belvedere collocati in alto, nei punti da cui si poteva cogliere il rapporto tra fiume città. Le trasversali intercettavano, come reti culturali e ambientali, uno straordinario patrimonio storico e naturalistico per confluire poi con un aggetto sull’invaso moderno del fiume. La proposta di proiettarsi sul fiume non era nuova, era stata avanzata anche in alcuni progetti presentati al “Forum Tevere” tra cui il minimalista Lungotevere Boulevard (Rosario e Andrea Pavia, con Raffaella Massacesi, Danilo e Romani e Kristin Jones), che ampliava i marciapiedi del Lungotevere con un lungo ballatoio oltre i parapetti dei muraglioni, sagomandolo come uno scafo di imbarcazione, in modo da non ostacolare, ma far fluire l’eventuale piena.
In questo stesso periodo Italo Insolera e Domitilla Morandi riproponevano l’introduzione del tram sul Lungotevere sinistro, con una sostanziale rimodellazione della sezione della carreggiata, aumentando lo spazio dei marciapiedi e introducendo una pista ciclabile. La linea tramviaria si connetteva con quelle esistenti, collegando Ponte Sublicio con Piazzale Flaminio; sul Lungotevere opposto veniva reintrodotto il doppio senso di marcia.
Il progetto riproponeva, in buona sostanza, il modello di Boulevard della prima metà del secolo scorso. Una scelta apparentemente tradizionale, ma in realtà coraggiosa, che avrebbe comportato un ripensamento profondo del sistema della mobilità urbana e restituito al progetto uno dei pochi spazi moderni della città.
Negli anni successivi furono realizzati due nuovi ponti: nel 2011 fu inaugurato il Ponte della Musica (progetto di Buro Happold Ltd con Davood Liaghat e Kit Powel Williams Architects), e nel 2013 il Ponte della Scienza (progetto di Gianluca Andreoletti, Massimiliano Pintore, Stefano Tonucci). Il primo a Nord, per connettere l’Auditorium e il museo Maxxi con il Foro italico; il secondo, pedonale, più a valle nel cuore dell’area dell’ex porto fluviale.
Entrambi i ponti erano la premessa per avviare progetti urbani di rilievo: da un lato un grande sistema per lo spettacolo, l’arte e la musica, dall’altro la riqualificazione di un’area tra l’Ostiense e la Portuense caratterizzata da importanti presenze di archeologia industriale. In entrambi i progetti il Tevere avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale come rete ecologica e parco urbano. Ad oggi, niente è stato fatto e i due ponti sembrano avamposti in attesa, deboli segnali di un futuro incerto.
Nel tratto di fiume contenuto dai muraglioni (che alla fine resta l’unico tratto direttamente accessibile e visibile dal piano stradale; a Nord le sponde sono state del tutto privatizzate dai concessionari di circoli sportivi), non abbiamo avuto né opere, né progetti. Il Tevere è scomparso dalle politiche urbane, la sua centralità di ambito di programmazione strategica è stata di fatto accantonata.
Rispetto al silenzio dell’amministrazione comunale e alla scarsa operatività della Regione e dell’Autorità di bacino, possiamo solo ricordare l’intensa e inascoltata attività delle università, la crescente domanda da parte di Associazioni culturali e Comitati di base per l’istituzione di un Parco fluviale regionale. La domanda di rendere vivibile il tratto urbano del fiume è sfociata prepotentemente il 27 ottobre del 2019 con la straordinaria festa popolare del Tevere Day.
Piazza Tevere
Piazza Tevere è una piazza di Roma che, dal punto di vista formale e toponomastico, non esiste ancora. Nasce come piazza da un’intuizione di Kristin Jones, artista americana che circa venti anni fa, seppe riconoscere, con occhi nuovi, nelle forme curvilinee del fiume un tratto regolare, un rettangolo perfetto tra i ponti Sisto e Mazzini, assimilabile per dimensioni al Circo Massimo. Per molti anni l’artista ha dedicato a questo spazio una serie di installazioni site specific, tra cui il magnifico corteo di lupe capitoline (“She Wolves”, 2005) disegnate sul muraglione destro del Tevere attraverso la tecnica della rimozione dello sporco accumulato sulle pareti (utilizzando stencil e getti d’acqua). Le figure che emergono sul bianco delle superfici di travertino, sono opere effimere, fatte di smog e materia organica, destinate a sparire quando il bianco sarà di nuovo ricoperto dallo sporco.
Questa stessa tecnica verrà utilizzata nel 2015 da William Kentridge per realizzare il fregio “Triumphs and Laments”, che si sviluppa per 500 metri sulla stessa parete utilizzata dall’artista americana. Le grandi figure del fregio misurano, nella loro sequenza, lo spazio tra i due ponti; raccontano sconfitte e vittorie, avanzamenti e regressioni, storie antiche e recenti, individuali e collettive.
Con Kentridge Piazza Tevere si afferma definitivamente nella città e nel mondo. Il fregio sta ora scomparendo. La sparizione era prevista, incorporata nel progetto dell’opera. Quando lo sporco e la patina organica copriranno di nuovo il muraglione, le figure si dissolveranno. Oggi, mentre scriviamo, nel tempo sospeso della pandemia, questa sparizione rischia di svolgersi in solitudine, in uno spazio vuoto, senza testimoni, nel silenzio.
Nelle piazze vere ci sono architetture e monumenti; qui solo figure effimere destinate a dissolversi, geometrie essenziali che inquadrano superfici di travertino e banchine in pietra, l’acqua in movimento e le nuvole che passano. Elementi artificiali e naturali immersi in una rappresentazione del tempo che scorre. L’arte di Kristin Jones e di William Kentridge ha riscattato la marginalità di uno spazio fluviale prima in abbandono, ha animato le pareti inerti dei muraglioni, facendo emergere la domanda di una vera piazza pubblica, di un grande progetto di riqualificazione del fiume
Occorre non solo tornare a riflettere sul significato profondo di questa opera, ma avviare un dibattito sul dopo Jones e Kentridge. Su come intervenire con un nuovo progetto artistico sullo spazio individuato e misurato dalle figure di “She Wolves” e “Triumphs and Laments”.
Kristin Jones e William Kentridge hanno fatto scoprire un luogo, una piazza da abitare. Piazza Tevere, oggi vuota come la vicina Piazza Navona, aspira a diventare una piazza reale e pone con urgenza una riflessione sul ruolo dello spazio pubblico domani, dopo il tempo della pandemia. A Piazza Tevere, grazie alla potenza creativa dell’arte abbiamo riscoperto non solo un luogo, ma anche la modernità e la potenzialità progettuale di un’opera di ingegneria a lungo disconosciuta.
Ripartire
Piazza Tevere è uno spazio simbolico. Forse è da qui che dovremmo ripartire per ripensare le diverse stanze del Tevere serrate dai muraglioni; per riqualificare i Lungotevere, riportandoli alla loro dimensione di boulevard (come sosteneva Italo Insolera); per riorganizzare gli spazi del Foro Italico e del Porto Fluviale (due grandi episodi urbani in modo diverso incredibilmente dimenticati); e riconnettere il tutto con un grande parco fluviale che attraversi il territorio metropolitano fino alla foce.
Il Tevere è il segno identitario di Roma, la sua forza sta nella sua geografia, nella sua memoria, ma anche nella sua capacità di configurare lo spazio. Tra i grandi segni che strutturano l’immagine della città, dalle mura, all’anello ferroviario, al Grande Raccordo Anulare (tutti circolari), il Tevere introduce un segno dinamico, che attraversa tutti gli anelli e proietta la città verso il territorio e il mare. A ben vedere sono tutte reti infrastrutturali e ambientali insieme. Tutte queste reti, tranne il Grande Raccordo Anulare (e questo depone male) sono stati riconosciute come ambiti di programmazione strategica.
Il discorso va ripreso, ma questa volta con un’avvertenza: i progetti strategici non possono essere programmi delineati solo come narrazioni, non possono ridursi a indicazioni progettuali generiche, ma debbono essere sostenuti progressivamente da interventi attuativi, da opere pubbliche strategiche capaci di attrarre investimenti e avviare progetti integrati. In fondo i muraglioni del Tevere ci insegnano anche questo.
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