Nel 2017 Ettore Spalletti aveva ricevuto la laurea honoris causa nella Facoltà di Architettura di Pescara. Non era solo il riconoscimento – come è uso - dell’eccellenza di una figura di grande rilevanza del mondo della cultura italiana ed internazionale. In questo caso, con la laurea in architettura si è affermato un legame profondo tra la ricerca artistica di Spalletti e la questione centrale con cui si deve sempre misurare un architetto: la necessità, cioè, di ridefinire continuamente la natura e i connotati di uno spazio da apprendere nel movimento e nell’intreccio con il tempo. Proprio questi “materiali” fondamentali nel progetto di architettura appaiono in crisi nel mondo contemporaneo. La tradizionale idea di spazio, quale ambito principale dell’interazione sociale, in cui venivano messi in relazione corpi e azioni, è stata frantumata dall’irrompere sulla scena urbana di un abitante che costruisce il proprio immaginario in un montaggio accelerato e confuso di stimoli e nozioni eterogenee, materiali ed immateriali.
Anche il temposembra divenuto assente nei modi con cui si pensa e si costruisce la città. Si è abbassato l’orizzonte del tempo, con la rinuncia ad una visione di futuro da condividere. Si vive oggi piuttosto nella simultaneità e nell’attualità. Ma l’esperienza dell’attualità è, come dice Perniola, all’opposto dell’esperienza del presente. E’ esperienza della sua mancanza.
E’ con questa emorragia di senso e di valori condivisi che si debbono confrontare criticamente le più consapevoli ricerche dell’arte e architettura. Oggi le innovazioni nel pensiero scientifico e filosofico propongono una visione di universo, macro e micro, instabile, mobile e frammentario: il cosmo come un sistema relazionale di flussi ed energie, non più prevedibile secondo la tradizionale metafora macchinista nelle sue trasformazioni. Occorre interpretare il senso di questa rivoluzione spaziale, coglierne le contraddizioni, ma anche la potenza generatrice che scaturisce da una visione relazionale dei molteplici materiali che agitano il cosmo, nel segno fertile della mescolanza e della contaminazione, dove diviene essenziale un uso strategico del tempo.
La ricerca di Spalletti, da una meditata posizione appartata, si confronta con questa realtà offrendo, nella concretezza poetica delle sue opere, la visione di una alternativa. Sono lavori che invitano ad una sorta di nuovo apprendimento del percepire. Si pone, infatti, in ogni occasione, chi osserva le sue opere di fronte alla necessità di collocarsi ed interrogarsi in una tensione dello spazio generata da accadimenti anche minimi che si producono in ogni lavoro e nella rete di riverberazioni tra i diversi oggetti archetipici – la colonna, i solidi primari, i vasi; tutti leggermente straniati – disposti con cura a reinventare e ridefinire il luogo di una mostra. Così anche una singola pittura su tavola “perde i connotati di un quadro dalla visione frontale e statica per diventare una architettura che si muove nell’ambiente”. Mentre gli strati sovrapposti e attentamente abrasi dei suoi colori – gli azzurri, i rosa, i grigi: nello stesso tempo onirici ed evocatori della natura (gli incarnati, i cieli, i mari) – nel rivelare il succedersi del loro prodursi, nel loro aspetto finale in cui permane sospesa una certa polverosità, fanno leggere il rapporto inestricabile tra spazio e tempo.
Un rapporto con la circolarità del tempo suggerito direttamente dai suoi piccoli “solidi-casa” color pastello. Si trovano, ad esempio, nel suo intervento per la Salle des départs dell’ospedale di Garches del 1996. Sembrano case, ma nello stesso tempo assomigliano a minuscole tombe. A Garches sono immerse nell’azzurro liquido e mutevole del luogo della “dipartita”, dei saluti finali. Dove ci si ferma e si attende, verso la dimora ultima. Sono costruite in modo elementare come la prima forma del riparo: evocano il gesto primordiale delle mani riunite a tetto sopra la testa. A protezione. Così vediamo la prima casa – la prima incertamente disegnata nell’infanzia: quasi un giocattolo – legarsi all’ultima e fornirci l’appiglio di una forma essenziale, nota e necessaria per ritrovarci, in qualche modo, nel deposito confuso e affastellato della contemporaneità.