Progetto Urbano e aree ferroviarie. Tre questioni

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Progetto urbano e aree ferroviarie. Tre questioni
intervista a Mosè Ricci, professore università di Trento, a cura di Claudia Di Girolamo PDF




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Q1. Della difficoltà di fare progetto urbano

È da molto tempo che in Italia si sta cercando di promuovere progetti di ammodernamento delle stazioni ferroviarie come progetti urbani, in grado di attivare e catalizzare lo sviluppo dei contesti circostanti. Le esperienze di successo tuttavia sono assai scarse, e molto spesso si è dovuto rinunciare a lavorare sul rapporto tra stazione e città, nonostante le migliori intenzioni professate dagli attori in gioco.
Quali sono a suo avviso le ragioni di queste difficoltà? Sono ragioni insormontabili? A quali condizioni diventa possibile promuovere e realizzare progetti di stazioni in grado di attivare sviluppo urbano?

Il progetto delle stazioni e delle aree ferroviarie è sempre un progetto urbano. Lo può essere in senso tradizionale come strumento che definisce la forma e il contenuto di un frammento di città -dallo spazio pubblico alla nuova architettura-, o come progetto politico di azione urbana capace di attivare processi socialmente condivisi di urbanizzazione/rigenerazione di spazi aperti o nodali nelle città. Riguardo alla domanda iniziale è importante chiarire alcune questioni.
Cosa si intende oggi per “progetti in grado di attivare sviluppo urbano”? Si tratta di progetti in grado di migliorare lo spazio pubblico e le condizioni di vita nelle città o di operazioni immobiliari di nuova costruzione in aree centrali e più pregiate? In altri termini, come nel caso concreto del fiume verde milanese, le Ferrovie cedono aree ex pubbliche a loro concesse -già fatto strano e confutabile in sé- al fine di realizzare il miglior guadagno economico o per rimettere in gioco superfici e fabbricati utili alla cura e ad un sano sviluppo metabolico della città?  
Chi stabilisce gli obiettivi del progetto urbano nei progetti di Stazione o aree ferroviarie dismesse?
È questo il punto. Il principale motivo della difficoltà del progetto urbano a generare situazioni esemplari e di successo per le aree ferroviarie e di stazione delle città italiane risiede, al di là delle condizioni di contesto, nel fatto che forse si tratta di uno strumento datato.  Troppo legato alle questioni della forma e del disegno della città il progetto urbano funzionava benissimo e ha caratterizzato una posizione della cultura urbanistica italiana consapevole dei valori patrimoniali e culturali fino a quando il paradigma della crescita governava i processi urbani.  Se invece si considera la condizione attuale di crisi economica e ambientale (sovrabbondanza dell’offerta di volumi costruiti a fronte di circa 9 milioni di case vuote in Italia, problemi legati al cambiamento climatico e al surriscaldamento dei suoli, di drenaggio delle acque meteoriche, smaltimento rifiuti, inquinamento da CO2, abbandono degli spazi commerciali e industriali,…) e si prova a ragionare come se l’Italia non dovesse puntare più allo sviluppo edilizio delle aree metropolitane, ma a perseguire le qualità ecologiche delle città (sia in senso ambientale che sociale) è importante pensare a come migliorare l’abitabilità e la bellezza della città che già esiste. Gli obiettivi dello sviluppo urbano diventano ridurre il traffico e l’inquinamento, contenere i consumi di fonti non rinnovabili, godere degli spazi aperti e di relazione, renderli ecologicamente performanti, stabilire un rapporto più equilibrato tra le diverse componenti naturali e urbane, comporre piuttosto che esasperare i conflitti sociali, dare senso agli spazi della città. 
In questo quadro ad essere importante non è tanto la definizione della forma dello spazio fisico della città che già esiste, quanto le sue prestazioni ecologiche, la possibilità di condivisione dei suoi spazi sociali e la sua capacità di continuare a esprimere significati che sviluppino la cultura urbana, cioè il riconoscimento e il senso di appartenenza delle diverse popolazioni che lo abitano. In questa prospettiva è evidente che le aree ferroviarie urbane rappresentino un materiale strategico ai fini della rigenerazione della città esistente. Ed è anche facile capire come lo strumento del progetto urbano sostanzialmente teso a regolare i nuovi assetti spaziali del frammento di città, come fin qui è stato concepito, non sia più adatto a governare una fase di sviluppo sostenibile e non incrementale. Dovrebbe essere un dispositivo progettuale capace di adattarsi alle condizioni di contesto, di dare forma nello spazio urbano ad un processo decisionale socialmente condiviso con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e le prestazioni ecologiche della città esistente. Forse non si tratta solo di concepire il progetto urbano in modo diverso, ma anche di cominciare a chiamarlo in modo diverso: progetto di paesaggio ad esempio. Perché si tratta di un progetto che si occupa della rigenerazione di materiali urbani che già esistono e che già configurano un paesaggio (fisico, sociale, economico) più o meno risolto, ma soprattutto perché il suo punto di vista sul futuro o, secondo Thomas Khun, perché il suo paradigma è essenzialmente culturale e non speculativo.


Q2. Ipotesi per il futuro


In generale, gran parte delle difficoltà di fare progetto urbano dipendono dalla problematica composizione tra le istanze di qualità del contesto da parte delle amministrazioni locali e le logiche stringenti che presiedono all’intervento da parte di Ferrovie dello Stato.
Quali che siano le reciproche attese e convenienze, esistono alcuni indirizzi a cui è possibile attenersi nell’impostare eventuali progetti per le stazioni intese come attivatori dello sviluppo urbano?

Nella città esistente, come si diceva all’interno della prima risposta, il progetto dovrebbe risolvere almeno tre questioni nodali che riguardano gli aspetti performativi, gli spazi sociali e il “senso” dei nuovi assetti spaziali. Non è facile definire indirizzi di fondo al di là di alcuni requisiti progettuali sempre validi come competenza interdisciplinare, specificità di interpretazione contestuale, condivisione autoriale del processo progettuale e adattabilità nello spazio e nel tempo delle soluzioni proposte. Su questi indirizzi abbiamo lavorato per esempio nel progetto finalista di concorso per la Stazione dell’Alta Velocità a Firenze. Si tratta di un progetto che ha quasi 20 anni, ma credo che la sua storia possa essere ancora oggi utile a spiegare come proprio la distanza tra le istanze di qualità del contesto tutelate dalle amministrazioni locali e le logiche stringenti che presiedono all’intervento da parte di Ferrovie dello Stato possa condurre alla sostanziale inattuabilità del progetto vincitore del concorso internazionale. E non credo che sia stato un male.
Per la realizzazione della Nuova Stazione AV di Firenze la vera questione, che non rientrava negli interessi dei promotori ed era sottovalutata dal bando, era quella ambientale.
La stazione avrebbe dovuto rendere possibile il by pass del centro di Firenze eliminando la fermata “di testa” a Santa Maria Novella. Il programma delle Ferrovie vincolava il progetto alla realizzazione di una struttura sotterranea parzialmente ipogea lunga 500 metri e larga 50: un Camerone di cemento armato che doveva arrivare alla profondità di circa 25 metri sotto il livello del suolo urbano al piano delle banchine con gli spazi di fermata dei treni. Il Camerone costituiva l’involucro all’interno del quale, e a copertura del quale, bisognava realizzare la nuova architettura. La Stazione avrebbe potuto raggiungere un’altezza fuori terra superiore a quella della Cupola del Brunelleschi. Il bando in sintesi richiedeva agli architetti selezionati per la seconda fase non una proposta architettonica costruttiva, non un’idea di progetto urbano, ma il disegno del coperchio e delle aree funzionali di una scatola di cemento già fatta e strutturata nelle sue relazioni urbane essenziali.La proposta del gruppo da me coordinato (con Frei Otto, Aldo Aymonino, Massimo Majowiecki, Studio Eu, Stefan Tischer, Pippo Ciorra, Filippo Spaini e altri, poi premiata al concorso con la menzione d’onore) assumeva una posizione critica con i contenuti del bando, denunciando come il vero problema del progetto fosse invece il fatto che le pareti del Camerone di cemento avrebbero interrotto, con tutto il fronte longitudinale, la principale falda acquifera sotterranea della città di Firenze. Il progetto ingegneristico di canalizzazione prospettato dal bando avrebbe costituito una diga contro lo scorrimento ipogeo del torrente Mugnone già responsabile della grande alluvione del ’66. Le conseguenze ambientali della parziale interruzione della falda e del suo necessario intubamento, attraverso o intorno al camerone sarebbero state poco prevedibili, sia per quanto riguarda i rischi di inaridimento dei terreni a valle sia per quelli di allagamento in caso di piena.Inoltre, dal punto di vista urbano una città storica, tra le più famose del mondo, non ha bisogno di nuove architetture che rappresentino l’epoca più alte della cupola di Brunelleschi, perché il valore di Firenze sono i monumenti che ha già. Lasciare scorrere la falda quindi in parziale opposizione al bando. Non opporsi al flusso, né canalizzare il decorso delle acque sotterranee. Questo è stato il concetto all'origine della nostra proposta. Il progetto puntava ad una nuova ecologia di sistema fondata sulla compresenza e sull'integrazione possibile tra materiali urbani e elementi naturali, all’interno di una strategia di sostenibilità per la nuova grande opera infrastrutturale e lavorava sulle forme di mitigazione del rischio idrogeologico, sulla qualità paesaggistica e ambientale e sulla fattibilità tecnica ed economica degli interventi previsti. All'interno delle prescrizioni dimensionali e dei perimetri di bando e mantenendo inalterate le quote di banchina e il piano del ferro, il progetto prevedeva di contenere l'ingombro degli spazi per la fermata sotterranea dei treni sotto la quota di scorrimento della falda.
Il piano delle banchine ferroviarie, con i mezzanini per la distribuzione dei flussi dei viaggiatori, era realizzato all'interno di un sistema di grandi gallerie a struttura idrostatica (Hydrostatic shell form structures), una membrana a doppia curvatura che resiste per forma alle pressioni del terreno. Le due gallerie idrostatiche che coprivano il piano banchina erano messe in comunicazione tra loro da aperture sui fianchi delle volte e, soprattutto, da tre “pozzi” verticali idrostatiche che conducevano i percorsi (viaggiatori, merci, sicurezza) all'area di fermata prevalente dei treni. Queste strutture erano le uniche che intercettano in maniera puntuale il flusso di falda senza ostacolarne lo scorrimento, come isole in un fiume. L'acqua si riorganizzava scorrendo intorno al profilo idrostatico del condotto strutturale in modo da impedire alterazioni significative nel deflusso. I tre pozzi verticali servivano ai percorsi di risalita e discesa, portando la luce del sole in banchina, e funzionando da camini per la ventilazione naturale degli spazi coperti e per l'emissione dei fumi in regime di sicurezza antincendio. Il modello strutturale era fornito da Frei Otto - che lo aveva già sperimentato nel progetto per la stazione ipogea di Stoccarda - e da Massimo Majowiecki.
Dal punto di vista architettonico la nuova stazione AV era concepita come una parte complessa di città, con la distribuzione degli spazi interni assimilabile a quella di una grande stazione di metropolitana. Sopra il livello della falda veniva realizzata la collina del parco urbano che contiene le altre funzioni di stazione AV. Di giorno, la collina costruisce il nuovo paesaggio nella città. Di notte la luce nella stazione inverte i rapporti di scala e trascina la città nel parco. Il volume complessivo della stazione è composto dall'integrazione di tre figure spaziali specializzate dal punto di vista architettonico, strutturale, tecnologico e funzionale: la galleria treni sottofalda; la collina-parco con i servizi di stazione, gli uffici e le attrezzature commerciali; il parco urbano. I tre pozzi verticali mettono in comunicazione lo spazio delle banchine e quello della città.
 Non un nuovo edificio ma un nuovo parco esprimeva nel nostro progetto la sostenibilità del cambiamento a Firenze. Un grande spazio pubblico fruibile dovunque. Un'architettura costruita con la logica della città più che con quella della scatola edilizia. Lo spazio della stazione come impronta di un percorso urbano che scende dolcemente verso la linea ferroviaria, coperto da un'unica superficie verde praticabile, che descrive un nuovo sistema di relazione con le altre aree per la cultura e il tempo libero che si aggregano ai margini della città storica.
All'esterno la stazione è una collina che descrive lo sfondo paesaggistico dell'area dei vecchi Macelli, a completamento del nuovo grande parco previsto per la cultura, la musica e il tempo libero. Dentro la terra la stazione è costruita essenzialmente intorno a un percorso urbano commerciale che accompagna i viaggiatori dal treno alla città. Ma il senso di questo progetto risiede essenzialmente nella volontà di rendere esplicito il fatto che lo sviluppo dei collegamenti alla grande rete ferroviaria internazionale ad alta velocità -forse non necessario- non deve rappresentare un grave rischio ambientale, ma piuttosto un’occasione concreta di rigenerazione del paesaggio urbano.
Questa è stata la nostra proposta per Firenze. La storia poi la sapete tutti, il progetto vincitore di Foster e Arup è stato sviluppato fino a livello di progetto definitivo e poi, oggi, a quella stazione sembra si sia rinunciato, perché i rischi di natura di natura idrogeologica sono troppo elevati per affrontare i costi sociali ed economici della costruzione. Non se ne fa più nulla.

 

Q3. Replicabilità del modello Milano

Milano negli ultimi tempi sta diventando un laboratorio estremamente interessante per una nuova generazione di progetti di ammodernamento degli scali ferroviari come progetti urbani. Al di là della estensione delle aree messe in gioco dai progetti, appaiono interessanti e innovativi alcuni passaggi di metodo sperimentati nell’occasione. In particolare, sono da condividere alcune importanti innovazioni di processo, quali il rapporto istaurato inizialmente tra Comune e Politecnico per impostare lo studio di fattibilità dei progetti urbani. Poi la esplorazione progettuale dei singoli ambiti d’intervento, affidata ad autorevoli architetti incaricati direttamente dal Committente. Infine, la messa a concorso dei progetti con bandi elaborati sulla base delle specifiche risultanze dei progetti esplorativi.
In questi termini, l’esperienza di Milano può diventare un modello anche per altre città? A quali condizioni questa esperienza può essere replicata in altri contesti?

La crisi economica e del lavoro sta progressivamente svuotando molti spazi delle città dell’occidente, e realizza nuove figure metropolitane. Probabilmente non è altro che il detonatore di un cambiamento più profondo che sta modificando desideri, stili di vita e attese di futuro dei nuovi cittadini digitali. Il progresso delle tecnologie dell’informazione condivisa provoca già conseguenze importanti sullo spazio fisico costruito.
La prima è che lo spazio fisico costruito è sempre più vuoto. Il caso Detroit è estremo, ma non è unico come sembra. Non lo è negli Stati Uniti, ma nemmeno in Europa. Si potrebbe dire che Detroit sia una città sentinella, un HACCP, un punto sensibile di misura del rischio di sparizione delle metropoli del Novecento. Altri segnali vengono da tutta la rust belt e dalle città del Sud degli USA, moltissimi dall’Europa. In Italia il boom edilizio degli ultimi 15 anni ha lasciato sul territorio parecchi cadaveri. Tra il 1999 e il 2012 (dati CRESME 2012) sono stati realizzati circa 300milioni di mc/anno di nuove costruzioni, il trend è calato un po’ negli anni a seguire. Su questi la percentuale di abusivismo è irrilevante. Con un gioco dove tutti credevano di vincere -i proprietari che mettevano al sicuro i loro risparmi, le imprese che lavoravano, le Amministrazioni che sopravvivevano con gli oneri di urbanizzazione, la politica che era continuamente premiata dal ritmo del ciclo edilizio- veniva perpetrata un’invasione cruenta e senza precedenti dei paesaggi italiani. I risultati sono evidenti a chiunque. Dal crollo del mercato immobiliare del 2007 i territori investiti dalla crisi economica e ambientale soffrono i disastri dell’abbandono e della dismissione spesso anche per le opere più recenti. 
In Italia ci sono almeno 6 milioni di case vuote su più di 10 milioni di immobili “sfitti”. 20 milioni di mq di aree ferroviarie dismesse o in dismissione. Almeno 5000 km di linee ferroviarie non in uso. 20.000 Km di strade in abbandono di cui 2.600 inutilizzati. Non si conta il numero degli esercizi commerciali e dei capannoni industriali abbandonati. Le nuove infrastrutture, cardine dello sviluppo secondo il governo, spesso restano inutilizzate a gravare sullo sviluppo e i costi della loro insensatezza sono pagati da tutti. Gioia Tauro, Stazione Tiburtina, Bre-Be-Mi, Expo Milano, sono solo gli esempi più evidenti di una politica che spreca sempre due volte, intestardendosi sulla costruzione di nuovi feticci della modernità passata e lasciando deperire il più grande patrimonio storico-paesaggistico, culturale e turistico del mondo, per il quale non sono previsti né dispositivi di valorizzazione né investimenti strategici. In Spagna tra Madrid e Toledo c’è una specie di nuova città per 300mila abitanti completamente realizzata fino ai cestini dell’immondizia e ai lampioni e completamente vuota e invenduta. Il Padiglione Olandese alla Biennale di Venezia del 2010 era una sala vuota con la minaccia dei plastici sospesi al soffitto di tutti gli edifici vuoti del Ramstadt che gravano sulla testa del visitatore. Alla Biennale del 2012 sempre il Padiglione Olandese si chiamava Reset e quello Tedesco Reduce, Reuse, Recycle.
Nel 2013, sempre in Biennale, è il Portogallo che solleva drammaticamente lo stesso tema della ri-significazione dei materiali urbani in disuso.
Sicuramente la contrazione del lavoro cui parlano Brynjolfsson & McAfee in “La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante”, ha un ruolo fondamentale nello svuotamento di alcune città occidentali; ma forse è soprattutto il progressivo trasferimento nello spazio immateriale della rete di funzioni e di luoghi che fino ad ora avevano bisogno di spazi fisici per realizzarsi a provocare l’abbandono dello spazio costruito in maniera sempre più diffusa e profonda.
Non c’è bisogno di nuove costruzioni per realizzare la città del futuro, ma di nuovi spazi sociali e nuovi dispositivi ambientali che migliorino le condizioni di vita, la bellezza e la felicità di quella che già esiste, conferendo nuovi significati e garantendo nuovi cicli di vita ai materiali urbani ereditati.
In questo quadro Milano sembra assomigliare sempre di più a una piccola metropoli del Far East. O più semplicemente è una città italiana che si apre ai grandi mercati internazionali rendendo appetibili i suoi spazi abitativi alla finanza, soprattutto asiatica (è successo anche con le sue squadre di calcio). Con i grattacieli sempre più alti e verdi che sostituiscono progressivamente i materiali urbani preesistenti e cancellano le mille narrazioni e i significati che la città meneghina riesce a fatica a trasmettere. Avevo una grande aspettativa nel progetto del Fiume verde per le aree degli scali ferroviari. Il processo di definizione del progetto urbano con il coinvolgimento dell’Università, dei cittadini, degli ottimi architetti selezionati per la fase esplorativa e poi con il concorso di progettazione mi sembrava esemplare. Credevo rappresentasse il segnale di una forte e significativa inversione di tendenza. La stessa scelta del gruppo vincitore - Koolhaas-Oma, Laboratorio Permanente, Rahm, Vogt, Micelli e altri - rappresentava un segnale molto promettente e di alto profilo culturale. Ma il progetto premiato, al di là dell’enfasi paesaggistica con cui viene presentato, ad un primo esame sembra molto tradizionale. Con una sorta di lungo Jardin des Tuileries ad organizzare nuovi isolati urbani al centro della città con un’elevatissima rendita generata presunta…Il raffinato progetto urbano messo in piedi da Ferrovie-Università e Amministrazione Cittadina con lo slogan del Fiume Verde nell’ipotesi di progetto rischia di apparire un pretesto utile per catalizzare il consenso su un’operazione urbana ambigua…E tutta la vicenda sembra aprire la strada a nuove occupazioni di suolo, nuove costruzioni e lascia spazio a un dubbio fin qui imprevisto: a Milano il Green Deal produce Brick Deals? È questo il modello da seguire e replicare in altri contesti? Anche no…