Q1. Della difficoltà di fare progetto urbano
È da molto tempo che in Italia si sta cercando di promuovere progetti di ammodernamento delle stazioni ferroviarie come progetti urbani, in grado di attivare e catalizzare lo sviluppo dei contesti circostanti. Le esperienze di successo tuttavia sono assai scarse, e molto spesso si è dovuto rinunciare a lavorare sul rapporto tra stazione e città, nonostante le migliori intenzioni professate dagli attori in gioco.
Quali sono a suo avviso le ragioni di queste difficoltà? Sono ragioni insormontabili? A quali condizioni diventa possibile promuovere e realizzare progetti di stazioni in grado di attivare sviluppo urbano?
Q2. Ipotesi per il futuro
In generale, gran parte delle difficoltà di fare progetto urbano dipendono dalla problematica composizione tra le istanze di qualità del contesto da parte delle amministrazioni locali e le logiche stringenti che presiedono all’intervento da parte di Ferrovie dello Stato.
Quali che siano le reciproche attese e convenienze, esistono alcuni indirizzi a cui è possibile attenersi nell’impostare eventuali progetti per le stazioni intese come attivatori dello sviluppo urbano?
Le prime due questioni sollevate sono, a mio parere, strettamente collegate e fanno entrambe riferimento alla grande potenzialità rappresentata da quel serbatoio territoriale che sono le ex aree di movimentazione ferroviaria. D’altra parte, entrambe le domande alludono alla grande difficoltà rappresentata dalla loro trasformazione concreta e condivisa in qualcosa che sia capace, al tempo stesso, di intercettare le necessità della città e quelle legate al traffico ferroviario.
Queste aree (per quanto riguarda la mia esperienza) rappresentano opportunità che per dimensione, posizione, attivazione, e per il ruolo che possono svolgere, non hanno eguali nelle strategie di valorizzazione e riqualificazione urbana. E questo è vero non solo per l’Italia, ma per tutte le città europee. La grande potenzialità contenuta in questi territori è relativa, prima di tutto, al fatto che le grandi aree ferroviarie, collocate in origine ai “bordi” della città, sono oggi diventate quasi tutte centralissime. In secondo luogo, al fatto che il fabbisogno tecnologico richiesto per la movimentazione delle carrozze, la gestione del traffico, per la manutenzione, nel corso degli anni, è progressivamente migliorato. Terzo al fatto che le tecnologie di linea sono anche queste radicalmente cambiate: oggi il trasferimento delle merci e quello delle persone non è più sovrapposto, mentre un tempo lo era e allora queste grandi aree ferroviarie (in cui merci e persone si trovavano a insistere sulla medesima area) rappresentavano anche il luogo in cui questa offerta veniva “spacchettata”.
Evidentemente, proprio per le particolarità cui facevo cenno, qualsiasi trasformazione che interessa queste aree va incontro a un livello molteplice di attese che coincide con un livello molteplice di attori oltre, che a una serie di costi molto elevati. Mi riferisco in particolare alle risorse che risultano necessarie per agire su queste aree. Cito due elementi: in molti casi per rendere disponibili queste porzioni di territorio alla trasformazione si rende necessaria una loro razionalizzazione, che nella maggior parte dei casi implica lo spostamento fisico del tracciato ferroviario (con l’alterazione di quello che con termini tecnici viene definito “piano del ferro”), operazione che ha costi molto molto elevati; secondo, per quanto riguarda le aree che restano (al netto quindi di queste operazioni preliminari di razionalizzazione e di bonifica), si tratta nella stragrande maggioranza dei casi, di suoli che presentano un tasso di inquinamento elevatissimo. Sono infatti luoghi in cui per decine di anni sono stati sversati oli, saponi, materiali tossici di vario genere che, come sappiamo, hanno costi di smaltimento che equivalgono a quelli dei rifiuti speciali. Per dare un ordine di grandezza, nel caso del nuovo auditorium di Firenze, costruito su una ex area ferroviaria, lo smaltimento e conferimento a discarica dei rifiuti ha portato ad un incremento di spesa di circa 9 milioni di euro.
Ma dopo questa breve introduzione “ingegneristica”, proviamo a fare un po' di architettura, o almeno di architettura e urbanistica amministrativa.
C’è da ribadire che siccome stiamo parlando di aree ormai centralissime, che di punto in bianco si rendono disponibili alla trasformazione, appare evidente che qualsiasi azione si decida di intraprendere bisogna dar conto a una platea di attori, istituzionali e non, che hanno per loro natura interessi conflittuali.
Ognuno di questi attori difende degli interessi legittimi: l’interesse legittimo del capitale di fare impresa, di fare profitto; l’interesse della pubblica amministrazione di tutelare i cittadini attraverso opere di risarcimento e rigenerazione urbana; poi c’è un fronte di attese di carattere ambientale; i modi in cui possiamo pensare la trasformazione di queste aree non sono più infatti quelli tipici degli anni ’60 e ’70 (che “semplicemente” prevedevano la costruzione della città a tappeto), le formule oggi sono sempre estremamente complesse. Bisogna partire da confronti fin dalla scala dell’urbanistica e, se si vuole garantire la qualità, bisogna poter arrivare alla scala dell’edilizia, dell’architettura. Si tratta quindi di strutture procedurali molto complesse da controllare.
C’è poi da tener conto di un ulteriore elemento di complessità rappresentato dalle tempistiche di queste operazioni: stiamo parlando di processi di tale portata che hanno come ordine di grandezza cronologico quello del lustro (che in Italia nella maggior parte dei casi diventano due o tre lustri); si tratta cioè di vicende che, per dirne una, non si concludono quasi mai nel tempo di una sola consiliatura comunale per cui - vista la portata degli interessi, la dimensione delle trasformazioni e vista l’assenza di una regolamentazione urbanistica univoca - è del tutto evidente che ogni amministrazione che si succede vuole legittimamente dire la sua. Ripeto, stiamo parlando di aree che per la loro dimensione e la loro portata sono spesso capaci di influenzare complessivamente il visioning urbano, costruendo una sovrapposizione totale con il visioning politico.
A questo si aggiunge una “tecnicalità” tutta specifica: queste aree devono infatti restare ancorate alla loro originaria funzione che è quella di tipo trasportistico; e l’ingegneria trasportistica (in particolare quella ferroviaria), non è come l’ingegneria strutturale, che consente di ipotizzare soluzioni per (più o meno) qualsiasi cosa; ha le sue regole, i suoi limiti, i suoi vincoli, le sue deadline non oltrepassabili. Insomma tutta le volte che ci siamo trovati di fronte al disegno di queste aree abbiamo dovuto fare i conti con una condizione che è la plastica rappresentazione di quello che vuol dire la complessità del progetto rispetto ai “contesti materiali e immateriali”: materiali in quanto ovviamente contesti fisici, concreti, con le loro caratteristiche particolari, e sono quelli all’interno dei quali noi architetti e urbanisti ci muoviamo con maggiore competenza; immateriali (ma non meno reali) sono quelli rappresentati dalle amministrazioni, dei diversi attori istituzionali con le loro attese in alcuni casi molto conflittuali tra i diversi soggetti in gioco (faccio sempre l’esempio di Tiburtina, in cui ci siamo trovati a confrontarci con 36 attori istituzionali differenti), che il progetto deve essere in grado di mettere in equilibrio.
Questa realtà delle cose sposta l’orizzonte strategico del progetto e anche l’orizzonte operativo dell’attività di progettazione in una direzione che necessariamente deve sempre meno affidarsi alle regole autoreferenziali della disciplina e sempre più imparare a usare la creatività per risolvere i problemi e le sfide che le occasioni mettono di fronte al progettista.
Credo che si parli di progetti di tale complessità che le conoscenze tecniche (assolutamente indispensabili) da sole non possono essere garanzia di risoluzione, di fronte a una situazione in cui al progettista vengono posti una quantità di problemi che sono tutti contemporaneamente presenti sul campo e tutti tra loro conflittuali.
Di fronte a questa situazione, a mio parere, esiste una sola strategia di progetto possibile: quella di utilizzare lo strumento della creatività per risolvere i problemi e non (come spesso avviene quando si fa appello alla fantomatica autorevolezza e autoreferenzialità della disciplina) di praticare stravaganza aumentando i problemi! Sono questi infatti i territori progettuali in cui, con assoluta evidenza, emerge la distanza sempre più evidente che c’è tra queste due modalità. Se in spazi di questa natura (spazi, come dicevamo, non solo fisici) pretendiamo di entrare con tutta l’autorevolezza del significato del segno, delle regole della casa, di sicuro non si va da nessuna parte.
Stravaganza e creatività possono essere oggetto di un facile e rischioso fraintendimento, apparendo come sovrapposte a scale che sono quelle iconiche dell’architettura. Ma certamente in queste situazioni che sono, come dicevamo, la plastica rappresentazione della complessità per la qualità e la quantità di variabili con cui bisogna confrontarsi, risulta immediatamente e chiaramente distinguibile cosa vuol dire creatività e cosa vuol dire stravaganza. A differenza di alcune espressioni dell’architettura che ancora vivono questa dannazione della dimensione iconica che tutt’oggi produce equivoci nella dimensione della stravaganza, in questi territori anche quest’ultima barriera collassa. La stravaganza non ha alcuna autorevolezza, non produce soluzioni, in molti casi non appartiene nemmeno alla sfera del visibile.
Q3. Replicabilità del modello Milano
Milano negli ultimi tempi sta diventando un laboratorio estremamente interessante per una nuova generazione di progetti di ammodernamento degli scali ferroviari come progetti urbani. Al di là della estensione delle aree messe in gioco dai progetti, appaiono interessanti e innovativi alcuni passaggi di metodo sperimentati nell’occasione. In particolare, sono da condividere alcune importanti innovazioni di processo, quali il rapporto istaurato inizialmente tra Comune e Politecnico per impostare lo studio di fattibilità dei progetti urbani. Poi la esplorazione progettuale dei singoli ambiti d’intervento, affidata ad autorevoli architetti incaricati direttamente dal Committente. Infine, la messa a concorso dei progetti con bandi elaborati sulla base delle specifiche risultanze dei progetti esplorativi.
In questi termini, l’esperienza di Milano può diventare un modello anche per altre città? A quali condizioni questa esperienza può essere replicata in altri contesti?
Si parla quindi di replicabilità del modello Milano dal punto di vista amministrativo, di procedura pubblica. Io questa esperienza la ho osservata da lontano e mi sembra una via, una delle vie possibili; quella di costruire e assorbire attraverso workshop il livello partecipativo dell’attesa sociale nei confronti di queste trasformazioni, ricorrendo a riti che si consumano grazie anche alla presenza delle università e di altri attori istituzionali. Non credo tuttavia che questo procedimento scongiuri la necessità di una “battaglia finale”, che è quella che si combatte a suon di voti, di consenso politico e non solo di consenso sociale, in capo ad un’amministrazione che deve mettere il sugello e la propria faccia su queste operazioni. In sostanza, i passaggi con i sistemi delle rappresentanze sono comunque inevitabili. Certo, è talmente alto il livello di complessità (e quindi, come si diceva, tanto urgente la necessità di ricorrere alla creatività nelle operazioni progettuali) che, in una prima consultazione tecnica, ben venga il modello milanese per la realizzazione di un “livello zero” della scrittura amministrativa
Il punto però, a mio parere, è un altro; ed è quello che fa la differenza tra l’Italia e il resto d’Europa. In Europa l’architetto (o il progettista chiunque esso sia) è chiamato a dare figura, espressione creativa, in termini risolutori, a un livello esigenziale chiaramente definito; in Italia si tenta di produrre questo livello esigenziale dal basso, attraverso un danzare, a volte scomposto, di comitati, associazioni, università, persone coinvolte. A mio parere però questi sono procedimenti nei quali è in primo luogo la pubblica amministrazione che deve applicarsi, che deve metterci la faccia, lavorando in termini di preparazione per arrivare a definire un programma prestazionale chiaro; è quello che fa la differenza.
Le forme che questa procedura può assumere, poi, sono molteplici. L’esperienza di Bolzano, ad esempio, è andata in una direzione diversa, ma neanche tanto. Per avviare il piano di trasformazione è stata, infatti, costituita una società mista Regione-Provincia (la Reale di Bolzano - ARBO), finanziata da Comune e Provincia, che ha elaborato un documento base per la progettazione di prima approssimazione, in cui venivano spiegati i limiti esigenziali in termini di problemi da risolvere, di servizi da istituire, di cubature ipotizzabili, e così via. In una seconda fase è stato poi presentato un bando per un concorso a due gradi (il primo per la selezione di dieci progettisti; il secondo in cui si chiedeva ai progettisti selezionati di produrre un’idea progettuale); infine è stato conferito al vincitore l’incarico di redazione del masterplan generale.
La cosa rilevante nell’esperienza di Bolzano (che è tipica delle aree centroeuropee e molto più rara in Italia) è che l’incarico conferito attraverso il bando prevedeva la produzione di un progetto esecutivo per l’urbanistica e una scala preliminare per quanto riguarda la progettazione architettonica delle opere pubbliche. È importante tenere conto che i numeri dell’operazione Bolzano sono numeri da capogiro: parliamo di circa un miliardo di euro di investimenti, di cui circa 250 milioni per l’infrastrutturazione e le opere pubbliche e circa 750 milioni sono per stima di opere private. Le opere private, però, sono pensate proprio come leva che produca finanza per la realizzazione delle opere pubbliche. In questo caso, infatti, le opere pubbliche sono così pregiudiziali che non rischiano di restare inattuate. Per accedere allo scrigno per le opere private è infatti indispensabile realizzare le modifiche infrastrutturali, modificare il percorso del treno, realizzare nuove parti di ferrovia e il nuovo ponte sull’Isarco. Sono conditio sine qua non.
Ovviamente, nonostante gli estremi di grande chiarezza, rimane un processo di una complessità straordinaria sia per attori coinvolti (basti pensare alla presenza di Ferrovie dello Stato, convitato di pietra, che ha disposto il conferimento delle aree) che per dimensioni: stiamo infatti parlando di un’area di 35 ettari, di cui 5 restano ad uso del traffico ferroviario, tutto il resto diventa città. Evidentemente si tratta di un’operazione enorme. I 250 milioni di euro, cui facevo cenno sopra, sono quindi legati ai 5 ettari di opere pubbliche e infrastrutture; i 750 milioni viceversa, sono spalmanti e disegnati sui 30 ettari residui. E se sui 30 ettari di nuova città vale il piano urbanistico attuativo, sui 5 ettari di opere pubbliche no: lì vale proprio il progetto preliminare. Il quale progetto preliminare (indipendentemente da chi vincerà poi la gara di concessione) si trasformerà per il nostro studio in un incarico di progettazione definitiva ed esecutiva.
A mio parere anche questo rappresenta un modello molto valido. Ma è importante sottolineare che comunque, da quando è stato avviato questo processo, noi siamo stati chiamati per tre volte a presentarci in consiglio comunale; stiamo parlando quindi di un lasso di tempo in cui a Bolzano si sono succedute tre amministrazioni (tra l’altro di colore politico molto diverso); fortunatamente nessuna delle tre ha messo in discussione la validità dell’operazione.
Quello che mi interessa dire, in sostanza, è che io non credo che esistano formule precodificate; ci sono una serie di modelli virtuosi che possono essere ripresi e riproposti a seconda dei contesti in cui si sviluppano. Certo la formula più comoda è senz’altro quella utilizzata in Marocco, dove c’è una monarchia non costituzionale in cui i processi decisionali sono molto semplici: decide il re. Il re che finanzia, organizza, gestisce, attraverso un apparato efficientissimo (l’amministrazione marocchina funziona sul modello francese); per organizzare la trasformazione della stazione di Casablanca e del territorio urbano circostante ci è voluto decisamente meno tempo che per la stazione Tiburtina. In quel mondo si tocca con mano il fatto di essere guidati da altre modalità procedurali ed è evidente che in termini di rapidità, efficienza delle trasformazioni tutto è più semplice. D’altronde in Italia la più gloriosa operazione di infrastrutturazione è quella avvenuta sotto il regime fascista, non è un caso. In dittatura tutto è più semplice; come dice Lucio Caracciolo, ahimè, c’è una funzione inversa che lega rapidità ed efficienza con il livello di democrazia.