Esperienze Parallele

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Il curioso caso dell’area di risulta a Pescara
Andrea MammarellaPDF




Anche sulla città di Pescara – un capoluogo di provincia di quasi 120.000 abitanti del centro-sud d’Italia – è spirato negli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo il vento delle grandi trasformazioni urbane. Lo stesso vento che in tutta Europa, a partire dalla dismissione e dal riutilizzo di scali e stazioni ferroviarie, poneva nella disponibilità delle città ampi territori vergini e centralissimi, là dove l’ingegneria trasportistica dell’800 aveva inserito i terminali delle (allora) nuove reti. Un vento però decisamente passeggero in riva all’Adriatico poiché, oltre l’avvio di una pur importante operazione di trasferimento e conversione delle strutture ferroviarie preesistenti, nessuna trasformazione urbana è riuscita a vedere la luce nei trent’anni successivi.
Un curioso caso di inerzia sistemica, dal momento che – pur provando a pensare tutto il male possibile – davvero non si riesce a capire chi possa aver trovato vantaggio in questa irrisolta e ormai addirittura paradossale vicenda.
Risale addirittura al 1959 la prima delibera (bipartisan) del Consiglio Comunale con cui venne avviata la richiesta al Ministero di eliminare il tratto urbano centrale della linea ferroviaria adriatica, sopraelevandolo su un apposito rilevato permeabile (Fig.1). Una ventina di anni più tardi, accolta l’idea di liberare la città dal tracciato di fine Ottocento (con passaggi a livello e aree di rispetto), si avviarono i lavori che, nel corso degli anni ’80, si conclusero con un lungo impalcato ferroviario di circa 850 metri, sopraelevato di circa otto rispetto alla quota della città. Su questo impalcato– particolare estremamente innovativo per i tempi – furono stati spostati i binari della linea ferroviaria adriatica e posizionate le nuove banchine dei treni (Fig.2). Il progetto di sopraelevazione dei binari – come detto – veniva da lontano, così come l’idea di realizzare una nuova stazione negli ampi volumi ricavati all’interno del nuovo manufatto. Già a partire dal 1962 infatti le Ferrovie dello Stato avevano iniziato a commissionare ai propri architetti, Corrado Cameli prima e Aldo Favini poi, il progetto per una nuova stazione da realizzare sotto l’impalcato ancora in fase di progettazione (Fig.3) (Fig.4). Né il progetto di Cameli, né quello di Favini vennero realizzati e si dovettero attendere altri sedici prima di avere un progetto esecutivo (a firma dell’ufficio tecnico delle FFSS) con l’apertura dei cantieri. Le “opere di completamento e di rifinitura della nuova stazione di Pescara Centrale” furono appaltate dall’allora Ministero dei Trasporti e dall’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato soltanto nel 1984.
Eseguiti anche questi ultimi lavori, il primo febbraio del 1988, venne inaugurato l’edificio della nuova stazione, posizionato al centro del nuovo impalcato e costituito da un manufatto di circa 230 metri di lunghezza, profondo 14 ed alto 22 (Fig.5), caratterizzato da un unico grande atrio a tutta altezza, punteggiato da enormi pilastri in cemento armato a sezione cruciforme variabile e dalle diagonali delle lunghe scale mobili che salgono nel vuoto verso i binari (Fig.6). Lo spostamento di circa 120 metri della linea ferroviaria rispetto al vecchio sedime rese così disponibile una vasta area di circa 12 ettari, risultante dalla dismissione (e conseguente demolizione e smantellamento) dei manufatti tecnici e delle linee ferroviarie precedenti, con le sole eccezioni dell’edificio della stazione del XIX secolo e di due serbatoi dell’acqua utilizzati dalla vecchia struttura ferroviaria.
Da subito, molto prima che fossero terminati i lavori, si accese in città un grande dibattito per il destino di quest’area che a Pescara, città cresciuta e sviluppatasi in gran parte grazie all’economia imprenditoriale edile, in molti temevano divenisse facile preda di operazioni immobiliari dal basso profilo urbanistico e collettivo. Un profilo urbanistico e collettivo che veniva invece a gran voce invocato da una larga parte della comunità che in questo luogo chiedeva (complici anche le immagini delle trasformazioni europee che arrivavano attraverso le riviste e la mai doma ambizione, un po’ spaccona, della città dannunziana) la realizzazione di un grande parco urbano, a metà strada tra New York e Parigi (un po’ Central Park e un po’ La Villette).
Bonaria ironia a parte, furono tante le battaglie, le mobilitazioni e i movimenti (dal Parkuore a quello della Malaerba) che nacquero e si attivarono in quegli anni per scongiurare speculazioni e – se ne parlava già da allora – lo spreco di un’irripetibile opportunità per l’intera città.
Il sentimento popolare fu talmente pressante ed inequivocabile che da subito l’amministrazione comunale non solo si impegnò ad acquistare dalle Ferrovie dello Stato le aree e i manufatti (sottraendoli così all’iniziativa di Metropolis, la società nata nel 1991 proprio per gestire le operazioni immobiliari derivanti dalle dismissioni e riconversioni delle proprietà di Ferrovie), ma  (anche a causa dalle modalità di acquisto a basso costo proprio per la inedificabilità dell’area) aggiunse nel contratto una clausola in cui, a fronte di un prezzo di acquisto calmierato (13 miliardi di lire), si impegnava a non realizzare nel sito, per i dieci anni successivi, attività caratterizzate da un uso diverso da quello pubblico.
Fu così che, nel giugno del 2001, il Comune di Pescara divenne, finalmente e definitivamente, proprietario delle aree ‘di risulta’, approvando – nel novembre dello stesso anno – una Variante del Piano Regolatore Generale in cui, secondo le indicazioni contenute nelle Norme Tecniche di Attuazione, l’intera area veniva “destinata alla creazione di un ‘nuovo luogo urbano’ nella zona di cerniera più centrale della città, alla integrazione formale e morfologica delle varie realtà urbane in esso incluse, alla realizzazione di un quadro organico della mobilità, alla necessità di una articolazione e gerarchizzazione degli spazi pubblici (vie e piazze) da pedonalizzare o attrezzare in un sistema di verde pubblico diffuso”. Le previsioni di quel Piano – in linea, del resto, con le aspettative consolidate nell’opinione pubblica cittadina e nonostante la decadenza del vincolo contrattuale con Metropolis – restano ancora oggi sostanzialmente immutate.
Un avvio, quello del 2001, tutto sommato incoraggiante e chiaramente indirizzato ad avviare una trasformazione urbana di qualità e di alto profilo pubblico – pur nella sua demiurgica asserzione. Eppure…
Risale al lontano 1981 – sette anni ancora prima dell’inaugurazione della nuova stazione – il primo concorso di idee che si proponeva di trovare una sistemazione coerente dell’area rispetto alle aspettative della città ed al ruolo strategico che questa avrebbe dovuto assumere rispetto all’intero territorio comunale e metropolitano. Il progetto vincitore, firmato dall’architetto Alessandro Sonsini, prevedeva la realizzazione di un grande parco verde attraversato dalla morbida curva di una linea di trasporto metropolitano che correva tra un edificio circolare basso collettivo (auditorium) a nord e un’alta torre cilindrica a sud, ispirata al brutalismo hi-tech inglese del periodo, come ad alcune, mai dome, suggestioni wrightiane (Fig.7). Il progetto riscosse diversi apprezzamenti, nonostante e forse a dispetto del milieu culturale dell’allora Facoltà di Architettura, fondato su posizioni decisamente più storicistiche e legate alla cosiddetta tendenza napoletana e milanese. Ma si sa, del resto, che i concorsi di idee, allora come oggi, lanciano il cuore oltre l’ostacolo e sono destinati – nei casi migliori – a costruire patrimoni figurativi collettivi più che corrispondere ed essere corrisposti da dinamiche attuative concrete. Con i disegni si può certo sognare che Pescara sia Malmö o Liverpool – anche se, naturalmente, le trasformazioni reali restano un’altra cosa.
Nei lunghi anni che seguirono se, da un lato, la strategia politica degli amministratori locali (in maniera decisamente trasversale) non riuscì – per opportunità politica o reale convinzione, poco importa – a proporre alla città un modello attuativo diverso da quello del Piano Particolareggiato di esclusiva iniziativa pubblica, dall’altro lato non riuscì neppure a garantire l’investimento pubblico richiesto da qualunque ipotesi di trasformazione che, anno dopo anno, diveniva sempre più improbabile e in contrasto con gli assetti finanziari locali e nazionali degli, oramai passati, anni ottanta.
Chissà che non sia proprio in questo aspetto che si possa forse rintracciare un primo vulnus di questo curioso caso di inefficacia e inattività della trasformazione.
In verità, l’ipotesi di coinvolgere attori privati nell’operazione di riqualificazione della ormai acquisita area di risulta era sempre stata vista con sospetto dall’opinione pubblica locale, e mai presa nella dovuta considerazione – pur negli anni in cui nasceva e veniva codificato a livello nazionale il cosiddetto Partenariato Pubblico-Privato. Tra le varie idiosincrasie, va certamente ricordata quella nei confronti di Ferrovie dello Stato, volta ad impedire l’insediamento nelle grandi cubature del suo impalcato ferroviario di attività commerciali di qualsiasi genere. La strategia (e, certo, anche la prospettiva di investimento) sottesa dal progetto statale del 1984 finì così col restare completamente disattesa e, al posto di una grande struttura filtrante che avrebbe dovuto ricongiungere e collegare le due parti della città a monte e a valle della linea ferroviaria (l’idea alla base del progetto di sopraelevazione degli anni ‘60), il nuovo manufatto divenne un muraglione impenetrabile e divisivo, anche più di quanto fossero i vecchi binari. Un’enorme volumetria murata ed esclusa da qualsiasi dinamica urbana, ad eccezione di spazi residuali senza importanza, quando non addirittura detrattori (parcheggi, depositi).
Ma tant’è. Ancora oggi l’ipotesi di un insediamento privato, commerciale, sotto i binari della stazione attiva le fibrillazioni e gli psicodrammi collettivi dell’intera categoria di commercianti del cosiddetto adiacente Centro Commerciale Naturale. Ancora oggi che il commercio locale si sta reindirizzando verso settori merceologici e dinamiche di marketing difficilmente in concorrenza con strutture di media-grande distribuzione, come quelli potenzialmente insediabili all’interno dell’impalcato ferroviario.
In questo caso pescarese – forse un po’ meno curioso di quanto si pensasse all’inizio – l’esclusione delle Ferrovie dello Stato dallo scenario della trasformazione ha certo evitato un confronto difficile, vieppiù conflittuale, con le aspettative delle amministrazioni, ma il timore di giocare una partita faticosa e dagli esiti incerti è stato alla fine esorcizzato attraverso la rinuncia tout court al confronto, lasciando l’attore pubblico unico protagonista del destino dell’area, ma con un arco senza frecce a disposizione per realizzare un proprio progetto urbano che nel corso degli anni si è andato facendo sempre più ideale, quando non addirittura idealista.
Ciò che era valso per Ferrovie, naturalmente e ancor di più, valse per qualunque altra ipotesi di coinvolgimento privato nella trasformazione delle aree di proprietà comunale, nonostante non mancassero i progetti della numerosa comunità di professionisti locali che a questa modalità facevano inevitabilmente e implicitamente riferimento (torri, uffici, strip commerciali, stecche residenziali, parchi tematici…); nonostante gli scenari prefigurati dalla locale Facoltà di Architettura attraverso le ricerche del Dipartimento di Architettura e Urbanistica dell’Università G. D’Annunzio (“Lo spazio delle infrastrutture. Cinque progetti per Pescara” del 1996 e “Da stazione a città” del 2001) (Fig.8) (Fig.9), fino allo studio di fattibilità (pur commissionato dall’amministrazione comunale) della Proger Spa del 2003 (Fig.10), nessuna proposta progettuale fu in grado di attivare processi di reale e diffusa condivisione nella città, fossero essi comuni cittadini o forze imprenditoriali, né riuscirono – evidentemente di conseguenza – ad avviare una procedura attuativa vera e propria delle rispettive strategie di trasformazione.
Si arrivò così al 2004 (già sedici anni erano passati dall’inaugurazione della nuova stazione), quando venne bandito un concorso di progettazione internazionale che provava a mettere il pallino della trasformazione urbana nelle mani del progetto di architettura. I vincoli – e i limiti – di partenza restavano tuttavia immutati. Dalle previsioni di PRG (destinazioni d’uso e cubature) all’indisponibilità ad accettare proposte esterne alla dimensione pubblica, gli strumenti a disposizione dell’invocato progetto internazionale risultarono drasticamente ridimensionati. Fu forse questo uno dei motivi, nonostante l’invocata internazionalità del bando, di un generale disinteresse alla partecipazione alla gara da parte di studi non italiani – e di pochissimi studi non pescaresi.
Il progetto vincitore risultò quello dello Studio Monestiroli di Milano, che prevedeva la realizzazione di un giardino geometrico di alberi di alto fusto, un grande edificio pubblico destinato a Mediateca di circa 90.000 metri cubi, un Padiglione delle Feste di ulteriori 21.000 metri cubi e, interrato nel sottosuolo, un parcheggio per circa 2.500 macchine (Fig.11). Un po’ Central Park di New York, un po’ Bibliothèque de France di Parigi. In realtà, il linguaggio e la strategia del progetto attingevano a piene mani alle forme e alle dinamiche della città storica, da intendersi nella sua accezione addirittura classicista – come dichiarato dagli stessi progettisti nella scelta del motto di concorso che richiamava il tempio greco della dea Aphaia ad Egina. Porticati a doppia e tripla altezza, tipologie templari e basamenti in marmo organizzati attraverso la giustapposizione di geometrie euclidee tutte raccolte all’interno del perimetro di intervento, senza alcun tipo di confronto con la città, né con la grande quinta ferroviaria, e con l’evidente intento di voler rappresentare loro la forma (buona) della città cui si sarebbe dovuta idealmente conformare Pescara. E non viceversa (Fig.12-13). Si trattava ovviamente di un’operazione architettonica e culturale molto distante dal carattere e dalle vocazioni della comunità locale, che avrebbe fatto molta fatica ad intenderle e a farle proprie. Si preferì dunque offrire ai pescaresi l’immagine di un bosco urbano che, come prometteva il generoso render a volo d’uccello pubblicato dai quotidiani locali (Fig.14), avrebbe dovuto nascere dagli ordinati filari di pini di Aleppo piantumati a quinconce ai bordi della nuova agorà di circa 12.000 metri quadrati compresa tra i due grandi edifici collettivi, la quale completava l’offerta di spazi destinati esclusivamente ad attività sociali e culturali.
Ad ogni buon conto, va evidenziato che tutti i progetti presentati in fase di concorso, risentirono oltremodo degli effetti di un bando di gara decisamente vincolante (veniva fissata persino l’impaginazione grafica delle tavole e dei punti di vista dei render…), con un programma funzionale rigido, sostanzialmente mirato ad escludere e impedire deviazioni dalle idee pianificatorie prefissate dagli uffici tecnici comunali, lasciando irrisolti tutti i temi eminentemente urbani che la città, nella sua indiscutibile modernità, avrebbe invece potuto porre all’attenzione (e alla risoluzione) delle migliori energie progettuali possibili. Tutti i contrasti e le incongruenze di una contemporaneità tumultuosa in attesa di nuovi assetti e strategie urbane funzionali alle vocazioni più radicate del territorio, apparvero come anestetizzati attraverso un disegno – e un programma – dal forte carattere ideale che però, oltre la dimensione intellettuale (un po’ d’antan, in verità…) che in pochi si permettevano di mettere in discussione, non riuscì ad accendere fino in fondo quell’entusiasmo produttivo e progettuale collettivo di cui una trasformazione urbana di questa portata avrebbe avuto bisogno. Il fuoco però – è noto – cova sotto la cenere.
Comparve intanto – e finalmente – sullo sfondo il tema delle risorse e degli investitori, non fosse altro che per i dettami normativi che prevedono la redazione – ancorché preliminare – del Piano Economico e Finanziario. A fronte di una cronica (e difficilmente risolvibile) penuria di finanziamento pubblico e data l’esclusione di attività imprenditoriali e commerciali, l’unica contropartita da offrire all’attore privato, cui era comunque e inevitabilmente destinata gran parte della realizzazione del progetto che sarebbe risultato vincitore, venne definita dal bando attraverso la concessione pluriennale di un servizio a pagamento di parcheggi che, nel frattempo, si era rivelata come la sola e continuativa attività insediatasi nell’area.
Nonostante il forte impegno dell’amministrazione comunale, il progetto del bosco stentò da subito ad andare in gara d’appalto. Com’era facile immaginare, i margini di compensazione economica per l’importante investimento esecutivo richiesto erano decisamente sottostimati. Solo dopo una serie di aggiustamenti progettuali (l’eliminazione del Padiglione delle Feste) e finanziari (l’ampliamento – spregiudicato e poco pubblicizzato – della concessione della gestione dei parcheggi a tutto il centro cittadino), si riuscì ad andare in gara. L’unica offerta pervenuta però – con la solita curiosa casualità degli eventi di questa cittadina – non trovò mai attuazione: tra cause giudiziarie, ripensamenti e rivolgimenti della scena politica locale, anche il progetto del bosco finì ad ingrossare le fila dei tanti fatti e mai attuati su questa area.
Non mancarono, prima durante e dopo le vicende finora descritte, proposte di intervento anche parziali che, eliminando a monte un pacchetto di tematiche/problematiche faticoso da gestire, chiedevano ai vari progettisti che si avvicendavano in città la produzione di immagini di singoli edifici, strutture autonome e isolate dal contesto urbano, ma anche – a ben vedere – dai caratteri culturali, disponibilità imprenditoriali e condivisioni vocazionali più diffusamente radicati in città (Fig.15).
Più che la realizzazione di una vera e propria trasformazione urbana, la vicenda dell’area di risulta ferroviaria pescarese sembra mostrare un desiderio adolescenziale di costruire un grande edificio che – da solo e di per sé – funga da grande attrattore urbano in grado di accrescere il prestigio della città, la sua qualità di vita, la sua competitività territoriale. Un’idea molto spesso maturata sullo scarso approfondimento e sull’incomprensione dei casi studio internazionali più famosi adocchiati sulle riviste, come quelli di Bilbao, Valencia, Milano… cui pure si sente fare spesso riferimento. Senza rendersi conto cioè degli enormi rivolgimenti economici, culturali e sociali che ne sono stati alla base e che li hanno resi possibili. Proprio in questa dinamica sembra potersi rintracciare la debolezza di fondo di tutte le operazioni supposte, proposte e consumate nell’arco di questi decenni. Quasi a dimostrare – se ce ne fosse bisogno – che le città, prima ancora che attraverso meraviglie formali ad effetto, si trasformano in ragione di specifiche condizioni socio-economiche, di programmi condivisi, di strategie concepite nel DNA della propria comunità.
Certo, rimane la legittima ambizione ad avere nella propria città uno di quei strabilianti manufatti dell’architettura contemporanea capaci di attirare titoli di giornale e servizi televisivi sui canali specializzati. Ci mancherebbe… La questione però sembra rivelarsi un po’ più complessa di quanto appaia agli occhi di amministratori pro tempore e commentatori di social network. Le grandi realizzazioni architettoniche sono la punta dell’iceberg, la ciliegina sulla torta, di un contesto risoluto e intraprendente, sia in termini programmatici che vocazionali. Non certo il contrario.
Rientrano in questa fattispecie le cicliche proposte fatte per la realizzazione di un grande complesso culturale, sul modello del Beaubourg o del Kennedy Center, senza però avere neanche minimamente il tessuto artistico, imprenditoriale e culturale di Parigi o di Washington DC; dell’intramontabile grattacielo in vetro e acciaio di cui però non ci si chiede chi e con quali modalità potrebbe mai realizzare e utilizzare le sue enormi e costose metrature. Oppure un teatro monumentale che, privo di particolari spinte di melomani e shakespeariani locali, sembra trovare le proprie ragioni di essere – così come le altre proposte, del resto – nella ricerca di una monumentalità figurativa e scultorea in grado di inscenare una pura e semplice celebrazione urbana. Una posizione però – come hanno dimostrato gli eventi – assai difficile da sostenere in un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla diffusione orizzontale di progettualità, aspettative e disponibilità ad impegnare risorse.
Nonostante l’ampia eco dell’editoria locale, non si è riusciti a vedere avviata nessuna iniziativa ufficiale (né disegni o immagini) neanche dell’idea, ripetutamente manifestata, di far progettare un grande teatro nell’area di risulta a Mario Botta – ancora una volta un architetto conosciuto e stimato per le sue posizioni storicistiche sul tema della città. Bizzarro destino per un luogo – come pochi in Italia – così pienamente e costitutivamente contemporaneo come Pescara.
Con questa consapevolezza intermedia, si arriva infine all’ultimo capitolo in ordine di tempo di questa saga trentennale. Nel 2018 è stato adottato (ma non approvato) dal Consiglio Comunale un nuovo Progetto di fattibilità tecnica e finanziaria (il vecchio Progetto Preliminare) per il cosiddetto Parco Centrale, redatto dagli uffici tecnici comunali.
Più che un progetto architettonico, la proposta aveva inteso occuparsi – come prevede, del resto, la norma – di definire e fissare le funzioni e le esigenze che la città attendeva di vedere realizzate nell’area. Le stesse ormai comunque depositate nell’immaginario collettivo e calibrate rispetto al contesto fisico e sociale della città (Fig.16). Certamente allora verde pubblico (variamente attrezzabile), parcheggi in struttura (numericamente fissati in base a ragionevoli rapporti di costi e ricavi), ma anche una nuova infrastruttura di attraversamento (ciclo-pedonale e carrabile incastonata nel sistema di mobilità urbana e a servizio della stazione) e una stazione per autobus urbani ed extraurbani in trincea che consentisse una continuità ininterrotta di spazi pubblici pedonali dall’atrio della stazione ferroviaria fino al mare (Fig.17). La volontà di rendere operativo il progetto – vale a dire di rendere appetibile ed efficace la gara di concessione lavori attraverso cui si intendeva affidare la progettazione definitiva, la realizzazione e la gestione delle strutture – portò in questa fase ad escludere dal programma progettuale il grande edificio collettivo di cui, pur prevedendo un’area ad esso dedicata, venne rimandata la realizzazione a future occasioni e a più concrete possibilità attuative.
Restavano in gran parte però le problematiche di sempre, legate alla indisponibilità ad accogliere proposte esterne alla sfera pianificatoria pubblica, la conseguente necessità di reperire risorse attraverso la sola (illusoriamente salvifica) attività concedibile alla gestione privata (i parcheggi) ovvero l’agognato (e costituzionalmente salvifico) finanziamento pubblico la cui entità però riusciva difficilmente a garantire, pur nelle migliori ipotesi, il compimento di una piena e compiuta trasformazione urbana.
Si aggiunga inoltre la paradossale condizione in cui la complessità delle opere (sia esecutiva che gestionale) richieste dal programma di progetto portava inevitabilmente a prevedere il coinvolgimento di raggruppamenti di attori ampiamente eterogeneo e specializzato, che però è difficile immaginare che si attivi per appalti di queste entità (poche decine di milioni di euro).
Così, viste le incertezze attuative, le ataviche debolezze del programma, il difficile appeal che uno schema planimetrico funzionale avrebbe potuto sperare di ottenere presso l’opinione pubblica locale (altro che rendering e architetture scintillanti..!) e – conseguentemente – la scarsa convinzione degli stessi amministratori propositori (ormai ispirati a una sempre maggiore diffidenza ad affrontare un tema annoso e irrisolvibile come questo), ha portato allo stallo e probabilmente all’archiviazione anche di questo ennesimo tentativo.
Il curioso caso delle aree di risulta ferroviarie di Pescara resta tutt’altro che risolto. Le esperienze dei lunghi anni trascorsi non sembrano aver stratificato particolari consapevolezze e insegnamenti, visto il perdurare immutato dei toni e del livello del dibattito locale. Davvero ancora troppo pochi sono gli elementi nuovi che lascino presagire nuove modalità operative e, magari, la soluzione del curioso caso.
L’unica strategia da adottare per provare – se possibile – a venire a capo di questa annosa vicenda resta – a mio avviso – tutta nella necessità di un approccio specialistico e professionalizzato (e magari anche innovativo), nella convinzione che il progetto di architettura di qualità sia l’unico strumento capace, non tanto di disegnare oggetti accattivanti, bensì di comporre le criticità e le aspirazioni, le contraddizioni e i desideri di una comunità capace e desiderosa di migliorarsi.
Unica certezza da tenere salda alla fine di questo excursus tra le alee e le inconcludenze del curioso caso (in cui nessuno ha trovato vantaggio) resta sempre e comunque quella che ad ogni effetto corrisponde una causa – anche e soprattutto nelle trasformazioni urbane.

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