Editoriale

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Prove di progetto urbano
Alberto Clementi PDF




Ci sembrava di aver trovato finalmente un caso esemplare, in grado di testimoniare con la forza dei fatti che non avevamo torto ad insistere nel rivedere profondamente l’istituto del progetto urbano, rilanciandone comunque il ruolo centrale nella trasformazione della città esistente.
A Milano, nel programma in corso per la trasformazione urbanistica di sette scali ferroviari e delle loro aree adiacenti, sono all’opera quasi tutti i principi professati da Ecowebtown per affermare una nuova cultura del progetto urbano, a partire in particolare da un rinnovato ruolo dello spazio delle infrastrutture della mobilità. Sono almeno sette i principi da tener presente.
Primo. Il progetto non si esaurisce nella invenzione di un nuovo spazio architettonico, lastazione ferroviaria, che peraltro negli ultimi tempi si è già andata caricando di una complessità crescente fino a diventare spesso un mondo introverso, ricco di funzioni urbane e metropolitane. La stazione è così diventata un catalizzatore delle energie pulsanti che premono nella città contemporanea, e che tendono a rompere gli argini di esperienze già vissute quanto degli spazi che le contengono.
Però adesso per fortuna il progetto si decide finalmente a mettere in gioco le relazioni delle stazioni con le città al loro intorno, mirando a fungere da attivatore delle potenzialità di sviluppo ancora inespresse o almeno da forza rigeneratrice del degrado sociale, fisico e ambientale accumulato localmente. La partita non si gioca più soltanto dentro il perimetro ristretto della stazione, facendola diventare una piccola città nella città. Sfonda i recinti, e invade lo spazio urbano alle sue diverse scale. La frontiera tra stazione e città, da spazio di frizione e di contrasto irrisolto tra due differenti mondi all’opera, si sfrangia e diventa improvvisamente l’incubatore di un nuovo ordine urbano, che fa irrompere nuove funzioni, nuovi assetti morfologici e sociali, nuovi valori simbolici e immaginari urbani.
Perché proprio adesso sembra diventare possibile ciò che era stato tentato invano negli anni addietro, quando più volte si è messo mano inutilmente alle aree intorno alle stazioni con l’intento di “valorizzarle”? Molte sono le ragioni. Ma forse quella più calzante è che si è ridotta in modo significativo la distanza prima incolmabile tra le attese speculative degli investitori e le resistenze provenienti dalla popolazione locale, protesa verso il miglioramento del proprio quadro abitativo anche indipendentemente dall’intervento sullo spazio infrastrutturale. Tanti anni di fallimenti hanno insegnato qualcosa. Non si può più esagerare nel chiedere un ritorno eccessivo di cubature speculative, né d’altra parte si può tenere fuori la partecipazione consapevole degli interessati, in particolare per ridestinare le aree ferroviarie dismesse che erano nate pubbliche, e tali ancora dovrebbero essere responsabilmente considerate. Si è appreso che la dismisura provoca il blocco, e che comunque non è impossibile avvicinare punti di vista fino ad oggi irriducibili.
Milano sembra infatti essere riuscita a trovare il miracoloso punto di equilibrio tra opposte esigenze. Si potrà forse recriminare sull’eccessivo vantaggio riconosciuto a FS-Sistemi urbani e agli investitori privati, oppure sulle possibilità aggiuntive di riqualificazione urbana non esperite sufficientemente dall’amministrazione comunale. Però non c’è dubbio che il montaggio delle convenienze non appare scandaloso, e che comunque esistono margini ulteriori per migliorare il rapporto tra benefici pubblici e ritorni economici per i privati.
Non è un caso che questo piccolo miracolo sia accaduto a Milano. C’è la straordinaria continuità dell’azione amministrativa, con tre giunte di diverso colore che si sono succedute nel tempo senza scardinare il programma. C’è soprattutto una matura attitudine alla concertazione tra pubblico e privato, che ha fatto gridare allo scandalo già ai tempi del primo Piano di Governo del Territorio demonizzato dall’urbanistica ortodossa per la sua presunta “beatificazione del mercato” e per la pretesa abdicazione della mano pubblica a favore degli investitori privati. Sono critiche che a loro modo hanno colto nel segno. Resta il fatto che a distanza di pochi anni Milano è diventata la piazza immobiliare più importante e dinamica dell’Europa. Non è infondato ritenere che proprio questa diversa urbanistica, con il suo approccio pragmatico e negoziale, abbia contribuito a far diventare Milano una metropoli internazionale, con i limiti di uno sviluppo urbano forse troppo dipendente dal mercato e dalla rendita fondiaria, ma comunque complessivamente coerente con una visione del futuro della città assunta democraticamente attraverso il Piano.  
L’Accordo di programma per la trasformazione urbanistica delle sette aree ferroviarie dismesse o in dismissione è figlio di questa singolarità del contesto milanese, e del pragmatismo collaborativo che la caratterizza, contro ogni pregiudiziale ideologica.
Secondo. Il progetto urbano, con i suoi tempi inevitabilmente lunghi, non può certo essere concepito (e disegnato) in modo statico e ultimativo.Per essere efficace,deve dimostrarsi al contrario flessibile e adattivo, senza tuttavia perdere mai la propria connotazione iniziale e soprattutto la propria capacità di conferire qualità urbana, che non dovrà essere sacrificata in nome delle congiunture imprevedibili che possono dispiegarsi nel mercato e nelle forme di vita degli abitanti.
In questo senso il progetto urbano non può che essere processuale, senza abdicare dai punti fermi che ne hanno determinato la legittimità iniziale, ma senza peraltro restare ingessato in una prefigurazione di forme fisiche che rischiano di diventare rapidamente inattuali con il mutamento delle condizioni al contorno. Tutto ciò rappresenta una sfida quanto mai impegnativa per l’immaginazione progettuale, e sollecita sia l’architettura che l’urbanistica a ideare nuovi procedimenti e dispositivi di governo della forma e degli assetti funzionali dello spazio urbano. Tenendo per di più conto che il contemporaneo non va considerato soltanto come l’ultima epoca del mondo, ma “la compresenza di tempi diversi nello stesso luogo” (Bodei). E non c’è dubbio che il progetto urbano sia chiamato a interpretare criticamente la propria contemporaneità, rifuggendo dalle forme nostalgiche un passato che non è più dato rivivere, come invece tende purtroppo a riproporre troppo spesso la partecipazione popolare, o come sono portati a fare molti esempi di architettura praticati correntemente, anche nelle esperienze più avanzate per Milano. 
Terzo. Il progetto urbano non si riassume all’interno di un’area delimitata strumentalmente, in funzione ad esempio del titolo di proprietà o delle condizioni di contesto. Piuttosto si declina contemporaneamente a diverse scale di relazioni con l’urbano, all’interno di una visione guida per il futuro che incarna i traguardi perseguiti e che, fungendo da quadro di coerenza, rinvia alle strategie possibili da mettere in opera per raggiungere i risultati convenuti. Anche questa individuazione della scala giusta per l’intervento rappresenta una difficile e innovativa sfida al modo di intendere la forma del progetto, il quale è di conseguenza indotto a sfumare il principio di unitarietà nello spazio e nel tempo per articolarsi in un insieme di dispositivi e linguaggi che operano congiuntamente in differenti registri, comunque da mantenere congruenti tra loro.
Quarto. Il progetto urbano va usato come strumento di conoscenza e di esplorazione della realtà. La sua messa a punto progressiva deve passare attraverso una fase di sperimentazione preliminare delle potenzialità trasformative di un dato contesto. Soltanto dopo il progetto andrà asciugato nei suo contenuti essenziali e fattibili, e infine adattato per acquistare la veste giuridica definitiva. Dunque è necessario –quando possibile- interrogare il contesto con una sperimentazione progettuale relativamente libera e informale, cercando di estrarre criticamente il potenziale trasformativo dell’area, compatibilmente con la sua storia e con le qualità specifiche sedimentate nel contesto. Soltanto dopo diventerà possibile avviare le procedure formalizzate con bandi di gara e altri atti amministrativi, che si troveranno ad agire consapevolmente su un terreno per così dire “arato” dalle esplorazioni progettuali preliminari.
Quinto. Il progetto urbano non rappresenta l’esito di una decisione presa e calata dall’alto dagli organi amministrativi o attraverso imposizioni veicolate dagli esperti, magari troppo sensibili alle razionalità specifiche degli investitori. E’ piuttosto l’espressione di una convergenza multilivello di attori e popolazioni che vengono coinvolti responsabilmente in forma dialogica e negoziale, ricorrendo a strumenti pattizi quali le intese di programma e contratti d’azione prima ancora che accordi definitivi a valenza normativa. Per evitare la dispersione di energie di un processo partecipato da molti protagonisti ai diversi livelli, che finirebbe per indebolire il valore aggiunto portato dal progetto urbano, sarà necessario mantenere ben saldo il riferimento a una visione guida condivisa costruita preliminarmente, che come abbiamo già visto deve fungere da cornice di coerenza tra gli interventi possibili.
Sesto. Il sistema di government del progetto urbano attualmente praticato, incardinato di solito sugli uffici dell’assessorato all’urbanistica in collaborazione con gli altri uffici competenti, funziona solo in pochi casi. Data la varietà di attori e interessi ai diversi livelli che solitamente vengono messi in gioco, va innovata la modalità di costruzione e di governo del progetto urbano, nella prospettiva di una nuova amministrazione per progetti che tarda peraltro a farsi strada nell’ordinamento amministrativo del nostro Paese, a differenza di quanto che avviene per esempio in Francia. Abbiamo già appreso dalle esperienze Pic-Urban su fondi comunitari che i Comuni sono normalmente in difficoltà nel praticare un governo finalizzato alla convergenza multisettoriale delle politiche in un determinato quartiere (place-based policy), anche quando la gestione del programma viene incardinata direttamente nel gabinetto del Sindaco. Facendo tesoro di quelle esperienze, e di altre condotte nel frattempo in particolare per la ricostruzione post-sisma, sembra ormai matura la possibilità di istituire specifiche strutture di missione, appoggiate naturalmente sul Comune ma partecipate anche dagli esponenti pubblici più rilevanti per il montaggio e la gestione del progetto urbano, e se possibile dalle università locali per il livello delle competenze disponibili al loro interno e soprattutto per la loro terzietà. Potrebbero essere sperimentate anche altre formule, fino al coinvolgimento diretto degli attori di sviluppo privati, per mettere alla prova criticamente le possibilità di una copianificazione pubblico-privato che agisca in modo trasparente e verificabile intersoggettivamente. Ma questa è un’innovazione per la quale non siamo ancora maturi, ed è meglio rinviarla al futuro.
Settimo. Nel regime di corruzione diffusa che purtroppo caratterizza alcune città dalle strutture amministrative irrimediabilmente inquinate, si ha l’impressione che le modalità d’intervento siano tarate secondo due canali principali. Gli interventi di grana fine vengono rinviati direttamente agli uffici comunali competenti, che garantiscono modalità autorizzative sufficientemente speditive, offrendo interessatamente certezze per gli investitori e le imprese. I progetti urbani richiedono invece procedimenti di montaggio delle operazioni più complessi e onerosi, in cui il consenso va costruito laboriosamente con il coinvolgimento bilanciato dei partiti o delle parti politiche più impegnate nel governo della città. In questo secondo caso poi non è infrequente l’intervento della magistratura, che fa saltare accordi occulti costruiti faticosamente nel corso degli anni.
Bisogna contrastare decisamente questo stato delle cose, che alla fine porta a disincentivare il progetto urbano a favore di una pioggia di singole iniziative estemporanee. Occorre in particolare bonificare i canali impropri che favoriscono eccessivamente il ricorso a micro interventi, e al tempo stesso deve essere assolutamente migliorata la trasparenza e la correttezza degli atti amministrativi che sostanziano la procedura del progetto urbano. Non è da scartare l’istituzione di una figura di magistrato che possa fungere da garante della regolarità degli atti, una sorta di Anav del progetto urbano mirata a scoraggiare un uso illecito delle risorse mobilitate.

Riguardando all’esperienza di Milano, gran parte di queste condizioni sembrano essere state rispettate. In particolare un lungimirante accordo tra Comune e Politecnico ha consentito di istruire adeguatamente il processo di partecipazione popolare, e anche di elaborare una visione al futuro della città alla quale ricondurre le progettazioni per le singole aree ferroviarie. Poi è stato organizzato un workshop di progettazione a inviti (tecnicamente una consultazione non competitiva), coinvolgendo progettisti di chiara fama come Boeri, Mad, Mecanoo, Miralles-Tagliabue, Zucchi. Il workshop ha consentito di esplorare creativamente i futuri delle aree, predisponendo così materiali utili per formulare successivi bandi di gara consapevoli e ben calibrati. Ci sono state comunque perplessità sulla legittimità delle procedure di incarico diretto per i partecipanti al workshop, data la natura ambigua (pubblica, parapubblica, privata?) del committente FSSU. Altri dubbi riguardano l’uso effettivo dei materiali elaborati dal politecnico e dal workshop, ma non è questa l’occasione per riflettere più a fondo sull’inevitabile scarto tra prefigurazioni iniziali e risultati del processo d’interazione tra i diversi attori istituzionali, e tra questi e gli attori privati, ciò che in effetti potrebbe costituire il tema di una istruttiva ricerca sui rapporti tra intenzioni ed esiti dei progetti urbani. Ma nonostante le perplessità di diversa natura sollevate, non c’è dubbio che il workshop e la collaborazione con l’università siano da considerare come un contributo rilevante alla costruzione di un progetto urbano di grande respiro a Milano.
Piuttosto in questa esperienza– almeno per come è stata riportata nella rivista- il meccanismo della governance di progetto appare poco innovativo, e probabilmente molti dei problemi che si stanno incontrando nella fase attuativa dipendono anche dalla mancata ridefinizione del sistema di governo che coinvolge operatori a diverse scale. Del resto sul tema del governo di questa complessa strategia, come è logico aspettarsi, si sono appuntate attese, tensioni e interessi politici assai controversi, e quanto mai delicati da trattare democraticamente. Non è un caso che alcuni degli spunti critici più interessanti offerti in particolare dagli articoli di Battisti e Fontana vertono proprio sull’insufficiente considerazione delle istanze pubbliche nella trattativa con FS-Sistemi Urbani sancita dall’Accordo di Programma, fino a mettere in dubbio la spendibilità sul mercato con logiche privatistiche di alcune aree ferroviarie già pubbliche, nel momento in cui hanno perduto la loro strumentalità al funzionamento del sistema di trasporto su ferro.
Più insidiose ancora appaiono le critiche sulla natura degli investimenti privati e la provenienza dei fondi esteri, in gran parte sovrani, che alimentano la gigantesca operazione di trasformazione urbana veicolata dalle sette aree ferroviarie. Sono fresche ad esempio le polemiche innescate dal recente servizio di Rai-Report sulle trasformazioni in corso a Milano, che implicitamente accusa il Comune e le stesse FS di non aver saputo (o voluto?) controllare adeguatamente le provenienze dei fondi esteri, in gran parte in arrivo dai paradisi fiscali che di solito nascondono capitali di origine dubbia.
Milano vola, ma con le ali di cemento. E chi garantisce che questa gigantesca operazione immobiliare non consenta anche il lavaggio di capitali sospetti? Come evitare che la parte privata eserciti un ruolo esorbitante, comprimendo in modo intollerabile gli spazi delle istituzioni pubbliche e della partecipazione democratica? Queste e altri possibili dubbi sulla posta in gioco a Milano appaiono legittimi, e devono essere vagliati attentamente. Tuttavia Ecowebtown, almeno per il momento, non intende approfondire la questione delle scelte politiche che motivano e delimitano il campo del progetto urbano, e che attengono a una sfera di valutazione completamente diversa rispetto ai temi più propriamente disciplinari del progetto urbano.
Più riduttivamente, EWT vuole soprattutto discutere criticamente i metodi di lavoro adottati, per dare conto dei possibili avanzamenti nella cultura del progetto urbano e la sua efficacia come strumento per montare e sviluppare un programma sostenibile di trasformazione urbana. Da questo punto di vista, che è poi fondamentalmente quello dell’urbanistica e dell’architettura, più ancora della sostenibilità politica delle volumetrie concordate tra Comune e società d’investimento privato, conta la qualità dei risultati a cui si sta puntando, e in definitiva il possibile contributo del progetto al miglioramento complessivo delle condizioni di abitabilità dello spazio urbano e delle sue qualità morfologiche, figurative e di senso, con particolare riferimento alle aree circostanti le stazioni ferroviarie.
C’è ancora molto da discutere al riguardo, perché le immagini prodotte finora a Milano non appaiono convincenti. E’ difficile sfuggire alla sensazione di aver messo in piedi una innovativa macchina di gestione, poderosa e ben oliata nelle sue articolazioni interne, con l’ambizioso proposito di “cambiare il volto alla città in dieci anni” (Maran), ma per dare luogo in realtà a configurazioni dello spazio per ora generalmente banali, anche quando ci si nasconde dietro la fumosa retorica del Green Deal e delle colate di verde offerte alla rigenerazione ambientale di Milano. Tuttavia siamo ancora in una fase intermedia, ed è sicuramente troppo presto per formulare giudizi sulla qualità delle configurazioni prodotte attraverso questo complesso procedimento di costruzione e sviluppo del progetto urbano. Sarà necessario seguire con attenzione l’evolversi della situazione per rendersi conto della qualità effettiva dei risultati che si riusciranno a conseguire.

I materiali presentati da questo n. 20 di EWT testimoniano come anche altri Comuni siano in marcia per utilizzare le aree ferroviarie quali motori d’innesco di un grande progetto di trasformazione della città esistente. Non troppo diversamente da Milano, anche Roma è arrivata nel luglio 2018 alla firma di un Verbale d’intesa con Rete Ferroviaria Italiana (RFI) e FS Sistemi Urbani (FSSU), finalizzato allo “sviluppo del sistema metro-ferroviario e alla rigenerazione urbana delle aree ferroviarie dismesse”. E poco dopo, nel luglio 2019, la Giunta ha elaborato una propria memoria, “Linee Programmatiche per l’Anello Verde dell’ambito strategico del ferro”, qui presentata dall’assessore all’urbanistica, Luca Montuori, che ne è stato l’ispiratore e l’indiscusso protagonista. Roma sembra in notevole ritardo rispetto a Milano, che sta lavorando su questo tema con continuità ormai da più di dieci anni. Ma qui il modo d’intendere il progetto urbano apre interessanti prospettive d’innovazione, nel momento in cui si propone di “sviluppare mix funzionali a supporto di nuove politiche di sviluppo economico, privilegiando l’introduzione  di forme produttive di nuova generazione che rispondano alle prospettive di sviluppo economico e sociale, anche in riferimento  alla memoria approvata dalla Giunta Capitolina che  ha definito il programma per il Piano Strategico di Sviluppo Economico,  specificamente orientato ad una programmazione di interventi per lo sviluppo sistemico del territorio, sui quali far convergere l’operato di tutti gli stakeholder locali, nazionali ed internazionali”( dalla Memoria di Giunta del 2019).
Passare da queste intenzioni ai fatti non sarà affatto facile, dovendosi tener conto della grande inerzia di tradizioni disciplinari che fino ad oggi trovato enormi difficoltà a dialogare e ad integrarsi reciprocamente, nel segno di quelle nuove politiche urbane place-based che dovrebbero diventare lo sfondo irrinunciabile dei futuri progetti.  Né del resto è stata ancora pensata una adeguata macchina di governo, di elaborazione dei progetti e di costruzione del consenso che -come dimostra l’esperienza milanese- non può che essere ad elevata complessità organizzativa, funzionale e politica, in un Comune che oggi non riesce a far fronte neanche alle sue più elementari prestazioni di servizio oppure a spendere i fondi per la manutenzione urbana messi a disposizione per il Giubileo straordinario del 2015.
Tuttavia è proprio a Roma che il progetto urbano potrebbe acquistare la sua pienezza di significato, venendo finalmente inteso per quello che dovrebbe diventare: uno strumento necessario per creare valore aggiunto nella trasformazione della città finalizzando le diverse azioni e i diversi comportamenti degli operatori verso traguardi comuni condivisi, affidati a una visione di futuro che rimane il quadro costante di coerenza al variare aleatorio delle condizioni d’intervento e quindi della forma dei progetti d’intervento. Non dando affatto per scontato che sia il settore immobiliare a dover trascinare la nuova economia urbana sospingendola verso l’affermazione di città globale, ma dimostrando invece che lo sviluppo può passare anche per altre vie, meno dipendenti dalla rendita fondiaria. Che questo avvenga in una città nota per essere stata da sempre il paradiso dei palazzinari non può che far piacere, anche se rimangono fondati dubbi sulla capacità effettiva di Roma di intraprendere un progetto urbano di elevata complessità, imperniato sulle stazioni come attivatori di uno sviluppo integrato del contesto locale.
Ancora più indietro appare la situazione di Torino, che soltanto da poco tempo ha messo mano a una nuova strategia per la valorizzazione delle sette aree ferroviarie dismesse, ancora una volta nella prospettiva di un imminente accordo con FS-Sistemi urbani. Torino sembra di aver cambiato totalmente registro rispetto alla precedente stagione dei suoi progetti urbani, rigidi, disegnati, assertivi e calati dall’alto, che avevano aveva dato seguito al PRG di Gregotti e Cagnardi. Del resto appare ormai esaurito un ciclo trentennale di sviluppo, e la città è costretta a reinventarsi nei suoi orizzonti strategici, non legandoli più all’economia produttiva del passato. Così la discussione sul ruolo delle aree ferroviarie diventa l’occasione per pensare più complessivamente alla costruzione di un nuovo futuro. Ma anziché avviare progetti esplorativi, la città preferisce organizzare una partecipazione a tappeto, con tavoli di lavoro destinati a far emergere le istanze in campo e le potenzialità di sviluppo da cogliere. Così il workshop organizzato nel 2019 è fatto di confronti a tutto campo tra vari attori chiamati ad elaborare una nuova visione della città e in particolare il ruolo che potranno avere le aree ferroviarie concepite come spazi urbani strategici.

E’ forse possibile provare a tirare le prime conclusioni dei ragionamenti fin qui condotti. Il progetto urbano di cui stiamo discutendo non può essere pensato come una realtà compiuta che si adatta ai differenti contesti. Le sue forme, i suoi contenuti, le sue dimensioni e lo stesso grado di complessità praticabile cambiano radicalmente in relazione alle condizioni peculiari del contesto.
A. In particolare, appare decisiva la capacità di decisione, gestione e costruzione del consenso da partedel sistema amministrativo locale. Non si possono intraprendere progetti troppo ambiziosi laddove il governo locale non è sufficientemente strutturato per assumere onerosi compiti aggiuntivi rispetto alle sue mansioni routinarie. Così a Milano, con la sua eccellente struttura amministrativa, può diventare possibile ciò che altrove appare impraticabile. A meno di immaginare una profonda innovazione del modo di impostare e sviluppare i progetti, ricorrendo ad esempio a una struttura istituzionale di missione, magari di carattere regionale,che sia di supporto alle realtà meno attrezzate facendo assistenza tecnica e svolgendo altre prestazioni di servizio, eventualmente con il contributo delle università locali. Ma la questione è assai delicata, anche per non rischiare di limitare l’esercizio dei poteri democratici incardinati sul Comune, e occorre lavorare molto per inventare nuove strutture fondate sul partenariato interistituzionale multilivello, comunque garantiste rispetto al ruolo dei Comuni.
B. E’ importante anche poter contare sulla disponibilità di una cittadinanza attiva o comunque sulla maturità della popolazione locale nel misurarsi con il contesto d‘azione portato dal progetto. Ormai i progetti non possono neanche essere pensati senza il coinvolgimento tempestivo a vario titolo di quanti ne subiranno gli effetti, e la partecipazione consapevole è diventata una condizione imprescindibile per portare a buon fine il progetto. Tutto ciò vale al di là del ricorso a tecniche formalizzate di ascolto della popolazione, o ai dossier pubblici di derivazione francese. E’ indispensabile che gli abitanti del quartiere interessato dal progetto avvertano la trasformazione incipiente come un valore da costruire e da condividere, per i benefici tangibili che è in grado di apportare e anche per il contributo al consolidamento di un sentimento di appartenenza al luogo che li veda come protagonisti.
C. E’ comunque necessario far leva su una progettualità in grado di misurarsi tecnicamente con la variabilità nel tempo delle condizioni di contesto, senza perdere le valenze di senso e di qualità degli esiti fisici che vanno considerate irrinunciabili nelle trasformazioni innescate dal progetto. Abbandonata l’idea ormai anacronistica di una città modellata da un disegno iniziale cogente, che peraltro continua a piacere molto a gran parte degli architetti più tradizionalisti come dimostra anche l’articolo di Mei in questo numero di EWT, resta comunque il problema della forma del progetto, ben sapendo che questa -come afferma Infussi- “condizionerà l’interazione sociale, tenderà a selezionare i destinatari, contribuirà a definire il campo dei temi rilevanti e orientare la costruzione dell’orizzonte possibile”. Lo stesso Infussi avanza la proposta condivisibile di “un progetto urbano che esplori il futuro senza avere l’arroganza di predirlo, e che istituisca con i successivi momenti di progettazione un rapporto dialogico non meramente esecutivo. Un progetto che si orienta verso una forma diagrammatica e non deterministica, spostando l’oggetto del masterplan verso le prestazioni dello spazio, piuttosto che sulle sue configurazioni”. Sicché in definitiva il masterplan sarà chiamato a individuare gli elementi irrinunciabili della trasformazione, gli indirizzi da seguire nella progettazione, quali da assumere come predeterminati e quali da rinviare alla interazione con gli attori in gioco.
Non sono molte le competenze tecniche su cui contare oggi per impostare dispositivi di guida degli atti di progettazione necessari per un progetto urbano processuale e adattabile. L’invenzione del nuovo progetto urbano suscita infatti inedite domande di ricerca e induce la formazione di nuove professionalità, rivolgendosi alle università quanto agli ordini professionali degli architetti e degli ingegneri. 

Questo numero di EWT presenta le esperienze di Milano, Roma e Torino riguardandole sotto diversi profili e aprendole al confronto di opinioni con autorevoli interlocutori del mondo dell’urbanistica e dell’architettura. Sono riportati esemplificativamente anche i materiali didattici di alcune facoltà di architettura che stanno lavorando sul tema del progetto delle aree ferroviarie come progetto urbano, beneficiando di una maggiore libertà propositiva in assenza di vincoli cogenti del contesto.
In questa occasione si inaugura anche una sezione della rivista che d’ora in poi verrà dedicata al delicato rapporto una nuova rubrica dal titolo programmatico “La città artistica” nella quale si vorrebbe mettere in evidenza “se, quando e in che modo i fenomeni che caratterizzano oggi le città, da quelle piccole e medie alle metropoli e alle megalopoli, possano essere visti in una operante dimensione estetica” (Purini). Ovvero “cosa possiamo scoprire per mezzo dell’arte delle molteplici rivoluzioni in corso che stanno cambiando, ancora una volta, i paradigmi dello spazio e del tempo” all’interno della città (Barbieri). Saranno proprio Purini e Barbieri a sovraintendere allo sviluppo di questa sezione, che potrà contare sull’apporto dei giovani architetti Monica Manicone, Luca Porqueddu, Pietro Zampetti.