Ricerche ed esplorazioni progettuali

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Atelier Appennini. Fuga dal Paradiso?
Pino Pasquali

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Parole chiave: Appennini, visioni, transumanza di ritorno, territori, contemporaneità

 

Abstract:

Atelier Appennini è un’associazione culturale che si occupa di promuovere la cultura del nostro paese puntando sulla rinascita del territorio degli Appennini. In questo momento in cui le periferie delle grandi città vivono condizioni forse non più recuperabili, Atelier Appennini rimette al centro del dibattito il futuro del nostro territorio e auspica una “transumanza di ritorno” verso le aree interne. Come una “compagnia di giro” ci muoviamo da un po’ di anni su e giù per gli Appennini, cercando di diffondere il nostro pensiero secondo il quale è da questi luoghi che si deve ripartire per innescare una nuova economia, è in questi luoghi che è possibile un nuovo “Programma per l’Italia”, non solo economico ma anche culturale e sociale.

 

Ma qual è il paradiso?

Forse quello che abbiamo rincorso per decenni nelle città che crescevano e prosperavano che hanno creato felicità e benessere? O quei territori che abbiamo abbandonato e continuiamo ad abbandonare perché non vi troviamo più tante luci attraenti?
Per molti anni, e per molti giovani è vero ancora oggi, il paradiso sono le grandi città come New York, Londra, ecc., le città del progresso che sono diventate il modello del nostro futuro globalizzato. Un modello che si è affermato nel mondo attraverso i suoi grattacieli ed una morfologia ad alta densità residenziale a cui noi non ci vogliamo abituare.
Perché nasce Atelier Appennini?
Nel 2006 alla Biennale di Architettura di Venezia dal titolo “Città. Architettura e società”, diretta in quell’anno dal mio amico Ricky Burdett, professore alla London School of Economics di Londra, è stato preso in esame il problema delle grandi metropoli e del loro sviluppo urbano.
Prendendo coscienza delle criticità riguardanti il futuro delle città, ho provato un malessere fisico e psicologico nel vedere, attraverso studi demografici e proiezioni varie, che nel mondo la tendenza era quella della concentrazione della maggior parte della popolazione mondiale in aree urbane che arriveranno nel 2050-2060 a 50 milioni di abitanti.
Ed è questo che sta accadendo oggi in Cina e non solo, in cui la forzatura politica ed economica ha deciso di concentrare grandi masse di persone in poche megalopoli.  Ma come si può vivere in città di tali dimensioni?
Questo è il modo di vivere? Queste sono case? Un filosofo francese definiva queste tipologie non case, ma alloggi, con il carattere di abitazioni “temporanee”. Città cresciute come giustapposizione di edifici senza un disegno, nate da una semplice estrusione del terreno, al fine di ottenere il massimo sfruttamento possibile.
Ed è dunque questo il paradiso?
Forse lo è stato ma adesso è giunto il momento di fuggire. Ripensando a tutto questo da un piccolo borgo immerso nel verde della Toscana, mi sono interrogato più volte sul perché si debba essere costretti a vivere in quelle condizioni di degrado sociale, quando anche nel luogo in cui mi trovavo, vi erano possibilità di creare una sana economia e sul perché costruiamo le città senza più pensare alla dimensione umana, alla qualità della vita e al tipo di relazioni che si innescano in contesti urbani ad alta densità edilizia.
Chi è il nostro vero nemico? È Edoardo Nottola, il personaggio protagonista de “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, lo “speculatore” per antonomasia. Da quegli anni ’60 ad oggi la logica della speculazione ha inciso profondamente sull’aspetto e sulla struttura delle città, senza mai un progetto urbano. Le persone, gli abitanti, sono ammassate dentro alveari in cui non si tiene conto delle problematiche relazionali e delle conseguenti ricadute sociali.  Ma tutto questo ha radici nella storia dell’architettura del secolo scorso, nelle visioni urbanistiche di Hilberseimer, nelle teorie di crescita urbana di Le Corbusier, nei progetti di architetti e urbanisti che disegnavano le città per milioni di abitanti, proponendo progetti che noi oggi abbiamo realizzato, che hanno realizzato non solo i cosiddetti “palazzinari”, ma anche lo stato, realtà in cui la logica è il massimo sfruttamento del terreno magari in luoghi totalmente isolati.
Progetti in cui si è persa l’attenzione alla relazione tra le persone, agli spazi che le favoriscono, che finiscono per diventare quartieri dormitorio, come il Corviale, un chilometro di case in cui il vero problema è il suo contesto.  A Vienna il Karl Marx Hof, insediamento degli anni ‘30, ha le stesse dimensioni del Corviale, ma è collocato all’interno della città, e grazie all’articolazione degli elementi che lo compongono (giardini, servizi), non ti accorgi della sua dimensione imponente.
Le vele di Scampia, il Corviale, il quartiere Zen, come fanno a non generare alienazione e delinquenza?
Queste parti di città, queste periferie, non sono più recuperabili! Sono diventate il campo di caccia elettorale, in cui false promesse di riqualificazione e finanziamenti irrisori tentano di “rammendare” un luogo che non è più città, finendo per concretizzarsi in progetti inconsistenti come i giardinetti con i copertoni colorati sotto i viadotti abbandonati. Un’altra grande idea, molto pubblicizzata dai giornali, è stata quella di consegnare le periferie agli street artists, pensando che il problema del disagio sociale si potesse risolvere intervenendo sulle facciate di palazzi, che tutto sommato avevano una loro dignità.
Da queste operazioni sono nate altre iniziative tra cui quella di investire 500 milioni sul rammendo delle periferie, che detta così sembra la vera soluzione al “problema”.
Ma quando si suddivide questa cifra per le centinaia di periferie sparse in tutta Italia, cosa rimane? 500 giardinetti con i copertoni colorati che oltre ad essere ridicoli sono del tutto insignificanti. 
Per fare un termine di paragone non andando troppo lontano, in Francia quando è sorto il problema delle banlieue a Parigi, il governo francese ha stanziato 5 miliardi di euro solo per una prima risposta.

“La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.”
Bertrand Russel

Dopo queste considerazioni sulla città e sul modo di vivere oggi, in maniera anche un po’ folle, facendo quello che definisco un “fuori pista”, nasce l’idea di Atelier Appennini che, grazie anche all’entusiasmo ed alla fiducia di Valeria Penna, inizia la sua attività sul territorio nel 2014.
Da allora questo “Carro di Tespi” lo abbiamo portato sugli Appennini con Giorgio Muratore, che fin dall’inizio ha condiviso con noi questo “Progetto”, e insieme ad altri amici e colleghi come Clementina Barucci, Vincenzo Latina, Microscape, Efisio Pitzalis, Franz Prati, Franco Purini, Beniamino Servino, War……
Come le compagnie di giro, che percorrevano le strade con teatri mobili e comunicavano la loro arte, abbiamo girovagato per l’Italia, e continuiamo a farlo, nei teatri, nelle chiese sconsacrate e non, a raccontare alle persone il significato di questo pensiero, ripartendo dalle storie, dalla storia di chi ha progettato le città, come gli uomini capaci di disegnare scenari urbani più sensati dei nostri. Per questo abbiamo deciso di occuparci degli Appennini, colonna vertebrale del nostro paese, di quei numerosi piccoli centri che rappresentano molto della memoria storica dell’Italia e custodiscono le nostre tradizioni e la nostra identità più profonda, luoghi a cui non possiamo rinunciare perché rappresentano anche le nostre radici, come racconta l’immagine di Cesare Cesariano, ripresa in uno dei suoi interventi da Giorgio Muratore, che è diventata il simbolo dei nostri quaderni, in cui la scritta “Radices Montis Apenini Italie” percorre e unisce tutta l’Italia.

Allora qual è veramente il paradiso?
La fuga dal paradiso è una transumanza di ritorno ai luoghi in cui si trova il nostro patrimonio…irripetibile e molto fragile, in cui i giovani possono riappropriarsi di un mondo sano che ha ancora tante opportunità da offrire, e in cui poter fare economia grazie soprattutto alle possibilità offerte oggi dalla tecnologia, che annulla le distanze geografiche.
Mettendo una lente di ingrandimento sui piccoli comuni delle aree interne cerchiamo di ridare valore a quello che già esiste, facendo acquisire maggiore consapevolezza a chi abita questi territori, fornendo loro una visione che li aiuta a riscoprire le proprie bellezze e le proprie eccellenze.

“La vera scoperta non consiste nel trovare nuovi territori ma nel vederli con nuovi occhi.”
Marcel Proust

Nel dialogo con le amministrazioni e gli enti locali il nostro obiettivo è quello di fornire loro strumenti che permettano di individuare nuove prospettive, allo scopo di creare attrazione per le nuove generazioni che vogliono investire sul proprio futuro, e dunque anche su quello dell’intero paese.
Molti progetti affrontati durante i laboratori hanno trovato riscontro reale o hanno innescato una serie di reazioni con ricadute persino sugli scenari della politica locale. 

“Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso, per chiudere verso sud il continente tra due mari. [...] È un così bizzarro groviglio di pareti montuose, a ridosso l’una dell’altra, che spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l’acqua.”
Johann Wolfgang von Goethe