Esperienze

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Un vuoto tematico
Franco Purini
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L’idea che Mario Cucinella ha messo al centro del suo lavoro come curatore del Padiglione Italia alla 16° Biennale di Architettura di Venezia è senza dubbio buona e necessaria. Essa ha un precedente nelle tesi che Fabrizio Barca ha proposto qualche anno fa su una nuova concezione del territorio italiano, diversa da quella modernista della grande dimensione. Materializzata, questa, in quella grande espansione delle città collocate ai limiti della penisola o nella pianura padana che si è verificata dal secondo dopoguerra a oggi. L’economista torinese spostava l’attenzione dai grandi ai piccoli centri, soprattutto nell’Appennino, che costituiscono per lui, ma anche per me, una realtà insediativa da riscoprire, recuperare e rendere sempre più interattiva. Una realtà, tra l’altro, non eccessivamente contaminata dalle logiche dello sviluppo, ma salvaguardata nella sua identità proprio perché, fino a oggi, considerata lontana e marginale. I primi interpreti di questa linea fortemente innovativa sono stati Giorgio Muratore e Pino Pasquali, che con la loro iniziativa Atelier Appennini hanno affrontato diverse situazioni relative ai centri minori ottenendo risultati di indubbio interesse.
Se considero positiva l’idea di Mario Cucinella trovo però piuttosto discutibile il disegno concettuale che sostiene la mostra da lui organizzata, un’espressione della tendenza architettonica, egemone nell’età della globalizzazione. Tale disegno concettuale è la derivata di un neofunzionalismo il quale, sostenendosi su una visione finalistica e non più, come credo dovrebbe essere, strumentale della tecnica - che è per inciso diventata tecnologia acquisendo un plusvalore al fine di aumentare il potere di chi la possiede e la agisce - ha eliminato dall’architettura gran parte del suo significato, quello legato all’abitare, inteso non in senso riduttivo ma in tutta la sua ampiezza. Un significato che partendo dalle necessità utilitarie e strutturali di un edificio perviene, attraverso i materiali, lo spazio e la luce, prima alla sfera intellettuale e successivamente a quella spirituale. L’abitare è memoria e insieme la continua costruzione della memoria stessa; è anche ricordando Edoardo Persico, “sostanza di cose sperate” che si inverano nella fisicità dei manufatti e nella luce che li modella plasticamente; è infine il luogo di quella essenziale “utopia della realtà” di cui parlava Ernesto Rogers. A tutto ciò il neofunzionalismo, anche quello che Mario Cucinella predilige, si oppone attraverso la nozione di Smart, divenuta ormai da qualche tempo una vera e propria ideologia architettonica performativa, consumistica, mediatica, che include l’installazione, l’involucro, l’effimero, l’atopia al posto dei luoghi, un formalismo generico. Il pensiero Smart nega il lato selvaggio, indomabile, imprevedibile e avventuroso della città dal momento che è attento solo al suo contenuto prestazionale così come, per quanto riguarda l’architettura, è interessato esclusivamente alla sua efficienza, prolungando nell’era digitale la concezione macchinista dell’edificio, nata con il Futurismo.
In sintesi Mario Cucinella sostiene un’ideologia che produce, come si può constatare dai progetti in mostra, un linguaggio che ricorda l’esperanto, un montaggio di frammenti lessicali diversi e casuali che si risolvono in un mosaico visivo il quale, consistendo in un intrattenimento che in conoscenza ed emozione, non riesce a proporre una coerente e operante trasformazione di parti del mondo. Parti viventi le quali, anche se sono sempre identitarie richiedono ciclici rinnovamenti, altrettanti restauri ideali di un patrimonio che non può essere ignorato, ma richiede di essere reso più contemporaneo da una nuova architettura che aggiunga ad esso un nuovo e misterioso contenuto umanistico, permeato dall’arte. Restando invece all’interno del neofunzionalismo l’architettura si fa monodimensionale, afasica, incompleta, soggetta a un discutibile relativismo nonché a una concezione approssimativa del realismo, visto all’interno della sua proiezione nell’immaginario digitale più che assunto nella sua vocazione a esprimere la verità della vita in ogni suo aspetto. L’esito dei progetti presenti nel Padiglione Italia, immersi in un minimalismo elegantemente mondano, è per me di notevole interesse perché senza volerlo rivela il vuoto tematico che l’architettura può produrre quando finisce col dimenticare se stessa, ovvero ciò che ha permesso a Friedrich Holderlin di dire che “poeticamente abita l’uomo”.