Q1. Della utilità del progetto urbano
Le esperienze di questi ultimi anni ci dicono che lo strumento del progetto urbano è sempre meno praticato dalle nostre amministrazioni comunali, soppiantato dal ricorso a singoli interventi, immediatamente cantierabili, non importa se frammentari e slegati da una visione d’insieme della città e del suo futuro. Questo accade soprattutto nelle realtà urbane più complesse, ma in qualche misura si riscontra anche nei centri minori dove tutto dovrebbe apparire più facile.
Si tende a sacrificare il valore aggiunto conseguibile attraverso il progetto urbano (comunque inteso, come strategia d’intervento che traguarda le singole azioni anche disgiunte in una prospettiva coerente e condivisa per un’idea di città al futuro) a favore di un empirismo fattuale che induce a preferire la concretezza del presente (le risorse attivabili, gli interessi da soddisfare, i risultati immediatamente tangibili a ristoro degli investimenti fatti) di fronte alla effettiva utilità e alla significatività urbana dei progetti in campo.
In queste condizioni, i progetti urbani sono ancora attuali? Esistono ragioni robuste per sostenerne la utilità, contro le crescenti derive del “presentismo” che producono vari episodi puntuali spesso contraddittori nell’insieme?
È opportuna premessa necessaria a superare l’ambiguità semantica della distinzione tra Progetto Urbano e Progetto Urbanistico. Parliamo in effetti di Progetti urbanistici (che d’ora in poi sintetizzeranno con la sigla PU) dando per assodato che essi si riferiscono a prassi, in larga parte sperimentali, che tendono ad una “prefigurazione spaziale” in relazione ad intenzioni e azioni di diversa natura, agite da diversi attori (G. Pasqui, Urbanistica oggi, pag. 94, Roma 2017).
Ebbene, la disaffezione delle Pubbliche amministrazioni nei confronti del PU deriva dal più generale distacco nei confronti dell’Urbanistica (il rinnovo degli strumenti ordinati è sceso del 26% dal periodo 2010-14 all’11% del periodo successivo) (dati RdT/INU / 2019), e anche dal recedere da una più generale razionalità che collega l’utilità delle azioni pubbliche al soddisfacimento degli utenti (i cittadini) ed alla responsabilità dei decisori. Questo venir meno della razionalità che ha caratterizzato le prassi urbanistiche della modernità, mi sembra il carattere prevalente di questo momento.
Se pertanto si vuole riflettere sulla utilità dei P.U., si deve riflettere sulle condizioni di contesto nelle quali operiamo e in particolare sulla assenza di una sola e prevalente razionalità ordinatrice (paradigma) alla quale riferire le attività di pianificazione.
Oggi in una fase di cambiamento-mutazione della società e in particolare della Sfera pubblica (C. Bianchetti-Urbanistica e Sfera pubblica, Roma 2008) ritengo che si possa affrontare il tema solo con un atteggiamento ispirato allo sperimentalismo democratico (C.F. Sabel Esperimento di nuova Democrazia, Roma 2013), e in questo si può sintetizzare l’utilità delle prassi di pianificazione che trovano nel PU la loro più significativa ragione di essere.
Nella mutazione della sfera pubblica, nella quale si sviluppa e trova senso il “fare urbanistica” partecipando alla ridefinizione delle componenti e dei perimetri della stessa sfera pubblica, assumono rilievo i contenuti comportamentali di questo modo di fare: porre bene il problema, costruire e legittimare le scelte spaziali come interpretazione del contesto (conferimento di senso alla conoscenza) e soluzione del problema “ben posto”.
Il P.U. va inteso pertanto più come una modalità, (una razionalità comportamentale) che come strumento (una razionalità tecnico normativa).
L’Urbanistica tradizionale, ma anche alcune le sue recenti evoluzioni di carattere riformista, hanno costantemente interpretato questi temi: conoscenza, soluzione, legittimazione, come una amplificazione dirigistica nel Piano dell’intervento pubblico sostenuto da risorse statali, restando comunque prevalentemente nella sfera della regolamentazione edilizia, in una dimensione corrispondente alla forma di governo costituito ed organizzato in una gerarchia di competenze e funzioni.
L’organizzazione dello spazio che ne derivava era quella che, a seconda del maggiore o minore dirigismo da parte del governo, mediava i rapporti tra pubblico e privato (diritti patrimoniali) con una crescente enfasi del diritto urbanistico che è arrivato a sostituire l’utilità del piano.
Nel tempo, con il variare delle strutture della sfera pubblica, la legittimazione ha prevalso sulla “qualità” della soluzione ed ha indebolito di conseguenza anche il nesso tra soluzione e conoscenza nella illusione del postmoderno.
Ne sono derivati segmenti di prassi che, nel tentativo di superare la difficoltà connesse al processo di legittimazione, hanno prodotto diversi modelli di panificazione i quali, dagli anni ‘90 sino ad oggi, hanno modificato il rapporto tra il Piano e la sua diretta incidenza sulle trasformazioni territoriali in termini di efficacia, riducendo la sua utilità rispetto alla domanda sociale, ma mantenendo però il legame forte con l’impianto giuridico che ne aveva costruito e consolidato la “forma” a proprio uso.
I Modelli innovativi che hanno inciso prevalentemente sulle prassi progettuali si possono riconoscere nei tentativi di separazione delle diverse nature del Piano:
- previsiva-regolativa quella formulata nel Congresso INU di Bologna del ‘95 e anticipata nella LR n. 1 della Toscana. Modello che ha avuto la sua prevalente caratterizzazione nella pianificazione strutturale e non tanto nella sua dimensione previsiva, spesso confusa con quella strategica, o nella mitigazione degli effetti conformativi risolta nell’ambiguità dai Masterplan, quanto nella interpretazione più radicalmente conformativa costituita dalla coincidenza della dimensione strutturale con quella delle invarianti strutturali dello Statuto dei luoghi nella LR Toscana e della involuzione delle stesse come basi della pianificazione in generale (PIT) e di quella Paesaggistica in particolare, che ricadano nella trappola della dimensione regolativa (L.R., 297 Artt./PIT, 191 Artt. per un totale di oltre 400 norme a presidio del territorio).
Nella proposta INU del ‘95, veniva in parallelo affrontato il tema della perequazione (peraltro già sistematizzato da esperienze (Pompei), e da riflessioni teoriche (S. Stanghellini), per superare l’impasse delle difficoltà attuative dei Piani
- Negli stessi anni Luigi Mazza nel Documento preliminare per il PRG di Milano riprende la questione del rapporto tra la natura strutturale strategica del Piano sul versante previsivo, riprendendo due significative innovazioni della legislazione urbanistica della Lombardia: Il Piano dei servizi come supporto dei Programmi di intervento che, anticipati nella LR 43, avevano trovato conferma ed enfatizzazione nella azione ministeriale nella diffusione ampiamente sperimentata nei diversi Programmi complessi della Dicoter.
Si è trattato di una stagione relativamente breve, ma che ha prodotto esiti significativi che hanno influenzato molto la evoluzione delle prassi della pianificazione e con essa il ruolo del PU.
In termini molto sintetici, la disciplina ha avviato una necessaria riflessione sulla natura e i limiti del Piano, riflessione ancora oggi in corso con riflessi sia sulla formazione universitaria, sia sui comportamenti degli enti locali. I Programmi Complessi hanno inoltre permeato le legislazioni regionali delle principali innovazioni praticate oggi nel Paese: Programmi Integrati - Progetti territoriali speciali - Perequazione - Accordi PP - Copianificazione. Tutte innovazioni che alimentano la natura del PU.
Questa pluralità di strumenti la cui innovazione (a volte solo di natura nominalistica) ha anche prodotto perplessità (Anarchia urbanistica - G. Campos Venuti) ed ha concorso ad un indebolimento della credibilità-utilità del Piano di tradizione nel sopravvenire di numerosi provvedimenti legislativi di tipo semplificativo-deregolativo, che hanno spostato in questa direzione anche il PU interpretato spesso nella sua connotazione di progetto urbano come una modalità alternativa al Piano tradizionale, per sdoganare volumetrie firmate da Archistar.
In questa mutazione il PU ha sondato differenti contesti non considerando come riferimento esclusivo la concezione urbanocentrica classica ma tentando il paradigma areale-reticolare. Questo è avvenuto come conseguenza della crisi della città intesa come centro e periferie, e al contempo della rendita come motore dei cicli edilizi. Nei territori investiti da diffusi processi di metropolizzazione, alla rendita alimentata dai cicli edilizi regolati dai Piani si è sostituita la “finanziarizzazione” di economie corsare, spesso sostenute dagli stessi soggetti pubblici alla ricerca di cespiti attraverso il conferimento di edificabilità.
Resta comunque centrale l’utilità del PU come campo di sperimentazione (sperimentalismo democratico) di nuove prassi urbanistiche coerenti a contesti in rapidissimo cambiamento e privi di ragioni (razionalità) aggregative.
Q2. della fattibilità
Non c’è dubbio che la crisi del progetto urbano sia imputabile ai suoi limiti nella concezione e messa in forma delle previsioni d’intervento, oltre che naturalmente alle condizioni più complessive che ne possono pregiudicare la fattibilità economico-finanziaria, amministrativa e sociale.
Così ad esempio la crisi prolungata del mercato immobiliare frena investimenti pubblici e privati troppo complessi e a elevato rischio per i ritorni dei capitali impiegati. I progetti inoltre richiedono una varietà di strumenti giuridico-amministrativi, anche di natura pattizia, per far fronte alla notevole diversità delle situazioni in gioco, e comunque costringono a prendere notevoli responsabilità con decisioni partecipate. Infine le conflittualità che insorgono in un progetto di maggiore complessità inducono a difficili strategie di costruzione del consenso e di compensazione degli interessi in gioco, che la politica spesso preferisce evitare.
Quali sono a suo avviso le ragioni che più ostacolano oggi il successo dei progetti urbani? E’ possibile fare qualcosa per rimuovere questi impedimenti?
Il PU inteso come il prodotto di una razionalità comportamentale piuttosto che come strumento ha avuto sicuramente una diffusione contenuta nei contesti minori, sia per la prevalenza di una cultura urbanocentrica , strutturata sulla gerarchica centro-periferia e su una originaria natura “urbana” della disciplina, sia per una minore incidenza nei contesti minori delle componenti patrimoniali e con esse dei volani del ciclo di vita delle città nella amplificazione dei rapporti, tra forma ed economie. Tuttavia, oggi, nel prevedere di nuovi modelli insediativi proprio nei Contesti minori, si può trovare una importante occasione di sperimentazione per le prassi proprie dei PU.
Da tempo del resto la disciplina ha superato una interpretazione Cristalleriana del territorio, anche in relazione a processi macro che coinvolgono spostamenti di popolazione, destrutturazione dei sistemi di produzione, amplificazione delle reti di conoscenza con ricadute non del tutto prevedibili sugli impianti insediativi.
I processi di metropolizzazione e di post-metropolizzazione (Beyond Postmetropolis E. Sota, 2011 / Territori Postmetropolitani A. Balducci PRIN 2013) stanno producendo nuove morfologie insediative difficilmente riconducibili a modelli conosciuti (rank size) e tendenzialmente metamorfiche verso una entropia di interi contesti territoriali.
La disciplina consapevole di questa nuova complessità ha proposto diversi impianti interpretativi che nella loro traduzione in politiche territoriali assumono due principali approcci metodologici alla fattibilità.
- Un approccio “fenomenologico” che costruisce politiche adattative ai problemi (locali) in riferimento a indirizzi generali formulati nelle “Agende” e nei “Libri bianchi”, e che assume un ruolo conformativo ed omologante rispetto ad un modello di città europea del tutto teorico. Si tratta di un coacervo di buone pratiche indifferenti nella generalità ai contesti e riferite ad un mondo sostanzialmente “conosciuto” anche nelle sue paventate evoluzioni catastrofiste. Ma questo mondo sta cambiando sotto i nostri occhi mettendo in crisi anche le soluzioni delle Agende e dei Libri Bianchi.
Un approccio quindi che assume una relativa stabilità della sfera pubblica, mentre come da molte parti viene prospettato è proprio quella che è entrata in crisi. È quindi improbabile che, mentre si va configurando una nuova ragione del Mondo (P. Dardot, C. Duval 2013), restino valide le buone pratiche pensate per il mondo che sta cambiando. In queste condizioni è molto difficile anche per l’Urbanistica, che opera nella sfera pubblica, assolvere alle proprie funzioni previsive; più probabilmente essa tenderà a limitarsi a prassi regolative prudenziali, che operano in una logica prevalentemente conservativa.
- l’altro approccio, “sperimentale”, tende viceversa a sondare, attraverso il progetto, nuove prassi consapevoli dei problemi fenomenologici globali ma che, partendo da un’analisi dei contesti in una logica reticolare e al contempo areale, non ricerca però di replicare una improbabile modello spaziale ordinativo derivato da quello urbano centrico.
Rispetto al rapporto tra contesti e prassi di pianificazione che mi sembra il nodo centrale di questo approccio, e per entrare nel merito della fattibilità del PU e delle sue prospettive farò riferimento ad alcune esperienze in corso.
La concezione duale di città e di non città, sarà prevedibilmente sostituita da quella di un continuum insediativo che modula le sue densità abitative i suoi serbatoi di naturalità, le concentrazioni e le disposizioni produttive, sulla reticolarità delle armature urbane e territoriali (telai infrastrutturali, reti verdi e blu) fortemente caratterizzate dai sistemi ITC (banda larga ~ 5G) dalla loro completezza e maturità.
Città storiche, periferie, centri minori, borghi, agglomerati produttivi, paesaggi abitati, costituiscono i nodi di queste reti nelle quali abitano e lavorano nella Regione mediana del Paese mediamente 150-400.000 persone, con spostamenti nell’ordine di 20-30 minuti.
Riflettendo proprio sulle geografie dell’Italia Mediana (Italia Mediana, una macroregione strategica Piani e paesaggi D. Ludovico, P. Properzi – a cura di - L’Aquila, 2015), intesa come Macroregione, dove questo modello insediativo è stato ripetutamente analizzato, il PU nella sua accezione di progetto di territorio e di paesaggio può essere una prospettiva di lavoro (a legislazione vigente) di particolare interesse, partendo dal considerare il PU per gli insediamenti minori, e in particolare per quelli marginali e caratterizzanti da fenomeni di abbandono, come modalità di intervento, ricomprensiva di una pluralità di tecniche e di prassi, orientate alla definizione di assetti spaziali nel continuum insediativo che caratterizza il contesto di riferimento che deve però avere una dimensione strategica.
I P.U. operano oggi sul crinale tra l’innovazione tecnologica e la crisi del sistema che caratterizza questa fase involutiva della Sfera Pubblica. Non penso che sia matura una analisi della crisi del sistema Paese, mentre è sicuramente più evidente ed analizzata la nuova ragione del mondo che tecnologia e potere (politico - finanziario) stanno determinando nella nostra vita e nelle nostre modalità di uso dei contesti post urbani modificando standard abitativi, uso degli spazi pubblici, mobilità, accessibilità.
Sono diritti di cittadinanza come intersezione tra nuovi diritti fondamentali e diritti patrimoniali che si vanno ridefinendo nella prospettiva confusa dei beni comuni. In queste intersezioni si delineano nuovi modelli di sviluppo, e nuove istituzioni.
Di contro la fattibilità del PU è fortemente condizionata da fattori di incertezza che investono gli operatori immobiliari e con loro il settore del credito, così come il settore edilizio, dalla complessità dei nuovi processi di rigenerazione dei tessuti urbani, dalla accelerazione che le nuove tecnologie vanno imprimendo nei cicli di vita degli insediamenti (telelavoro, mobilità, commercio).
Non sono del tutto d’accordo sul fatto che il PU sia meno praticato dalle Amministrazioni comunali, penso che sia l’intera attività di pianificazione ad essersi ridotta in termini significativi e che viceversa proprio il PU, soprattutto per la sua natura trans-scalare, e come superamento del modello urbanocentrico, rappresenti una prospettiva disciplinare densa di sviluppi.
La VII Rassegna Urbanistica INU di Riva del Garda ne è ampia testimonianza così come le annuali edizioni di Urban Promo e Urban Promo green.
La incapacità dei decisori di valutare e quindi di selezionare i PU nel perseguire una utilità non effimera, corrisponde ad una scarsa praticabilità (eccesso di proceduralizzazione) e ad una ancora alta discrezionalità delle tecniche (conoscenze non condivise) e degli strumenti di valutazione. L’utilità dei PU aumenta in relazione all’aumento della conoscenza dei contesti e della responsabilità dei decisori dl valutare la coerenza dei PU ai Contesti. L’assenza d queste “condizioni” è il principale ostacolo alla fattibilità “tecnica” dei PU.
Resta comunque sullo sfondo l’incertezza che caratterizza la mutazione - regressione della sfera pubblica in cui si collocano le prassi formative dei PU, pur nella consapevolezza del loro ruolo di interazione con una positiva riconfermazione della stessa Sfera Pubblica.
La ridefinizione dei nuovi diritti di cittadinanza, nelle prassi di sperimentalismo democratico che caratterizza i processi formativi dei PU, costituisce la vera prospettiva dei PU.
Il superamento di una concezione prevalentemente “urbana” e la sperimentazione in contesti insediativi che è improprio definire minori su base demografica, è l’elemento più interessante da un punto di vista disciplinare.
Le accelerazioni indotte sulla concezione stessa della città ampiamente studiate sia sulla frammentazione delle morfologie che sulle loro ricomposizioni sui nuovi telai infrastrutturali (Infrastrutturale verdi e blu, telecomunicazioni), le nuove forme dell’abitare e la smaterialializzazione dei flussi nel crescere degli individualismi stanno riconformando il territorio intorno ad un capitalismo del controllo che amplifica i timori, e modifica le vite delle persone.
I PU sono consapevoli di un panorama incerto e al contempo metamorfico, ma restano l’unica prospettiva per una disciplina che deve pre-vedre assetti spaziali futuri coerenti a nuove forme di razionalità, partendo da una conoscenza condivisa dei contesti come garanzia di democrazia.
È su questa dimensione strategica che deve orientarsi il PU, con una dimensione variabile, proprio perché strategica, ma che deve tener conto di una razionalità relazionale e di una massa critica sufficiente a sostenere il processo di natura socioeconomica che si intende avviare.
Q3. Idee per il futuro
Infine, sulla qualità dei risultati mi sembra centrale il nesso tra nuove tecnologie (soprattutto della comunicazione) e conformazione dei processi decisionali in condizioni di democrazia sostanziale.
EWT ritiene che il rilancio del progetto urbano sia possibile solo a condizione di innovarne profondamente la concezione, i contenuti, e la stessa metodologia di elaborazione. Nelle attuali condizioni di incertezza e di imprevedibilità delle dinamiche urbane, c’è bisogno di progetti processuali, flessibili ed evolutivi, piuttosto che di un disegno rigido e vincolante a medio-lungo termine attraverso cui fissare in modo normativo le forme, gli assetti e le stesse intese pubblico-privato che sostanziano il progetto. La stessa forma del progetto è destinata a cambiare, come convergenza progressiva di una moltitudine di azioni preferibilmente place-based e people-driven, spesso multiscalari ed eterogenee tra loro, ma comunque accomunate dalla coerenza rispetto a una visione di futuro sufficientemente condivisa. Come rendere compatibili gli obiettivi assunti inizialmente (qualità, prestazioni funzionali, equa remuneratività degli investimenti) con i necessari aggiustamenti in corso d’opera diventa il tema centrale del progetto, un tema particolarmente ostico a cui comunque non è possibile sfuggire.
Muovendo dalle esperienze positive fatte per i centri minori, quali sono a suo avviso le innovazioni da apportare al progetto urbano in Italia per migliorarne la efficacia, la fattibilità, e la qualità dei risultati?
Le prassi del PU si collocano oggi, in Italia, prevalentemente in una dimensione sperimentale ancora riferita ad un sistema istituzionale (per quanto in crisi) e che va interpretata come interscambio tra pianificazione di tradizione (conformativa e regolativa) e strategie di sviluppo. In questa zona grigia, il PU raccorda soggetti promotori-decisori ed utenti.
Porre la questione di un bilancio, per quanto provvisorio, e trarre da questo indicazioni per migliorare efficacia, fattibilità, qualità dei risultati è forse prematuro.
Quello che viceversa è possibile fare, è indagare le condizioni in cui queste prassi pervengono ad una reale fattibilità e avviare processi diffusivi dei loro risultati.
- La prima condizione coincide non tanto con la presenza di un capitale sociale consapevole del proprio ruolo nel contesto, quanto con la attivazione dello stesso nella consapevolezza che si tratta di un processo ciclico, in cui la prassi di formazione (promozione –sviluppo) del PU ridanno anche corpo e senso ad un capitale sociale esistente, anche se logoro.
La recente esperienza della SNAI, ma in genere il tema dei territori dell’abbandono (le aree dell’Appennino) e quelle del degrado (le aree post metropolitane dell’abusivismo) in cui è più evidente l’assenza d un governo dei processi entropici del mezzogiorno, hanno posto spesso l’attenzione sull’assenza di una classe dirigente attribuendo , in una concezione “nittiana” e “gramsciana”, attribuendo ad essa la responsabilità dell’insuccesso delle politiche di intervento centrali e promuovendo quindi la ricostruzione e l’innesto di una classe dirigente capace di avviare le nuove politiche.
Considero per due ordini di motivi errate queste posizioni e lo scarso successo della SNAI, solo in parte giustificato dalla scarsità delle risorse disponibili e dalla frammentazione delle stesse nel passaggio alle regioni, lo conferma.
Il PU non trae la sua efficacia da una definizione in legge dei suoi contenuti e del suo iter formativo o dalla sua capacità conformativa dei diritti patrimoniali ma dalla sua interazione con il capitale sociale di quel contesto. Il contenuto innovativo del PU va quindi indirizzato e interpretato in una prospettiva “olivettiana” con specifico riferimento a quella area del Paese in cui la “regressione” urbanistica è più avanzata.
- la seconda condizione coincide con la solidità del rapporto tra conoscenza e progetto. Questa solidità non va intesa come la automatica derivazione dal progetto di un sistema di conoscenza territoriale (spesso gestito in chiave esperta e settoriale) tradotta in norme.
Le esperienze di alcuni Piani paesaggistici, ma soprattutto la posizione élitaria intorno allo schema patrimonialista dei beni comuni ha tentato di affermare una nuova sacralità del potere trasformando diritti fondamentali in beni, sostituendoli ai beni pubblici e privati ed alle responsabilità che ne derivano ai soggetti pubblici, per avviare un nuovo diritto gestito dalla élite degli esperti, in nome di un popolo che rivendica una natura ereditaria del patrimonio dei beni comuni.
Uno scenario di questo genere riduce ogni efficacia ai PU che vengono bloccati all’interno di una gabbia di invarianti strutturali definite tali in una statuizione dei luoghi presentata come erede dei regolamenti di polizia del ‘600 e ancor prima del “buon governo” del Lorenzetti. In questo modo non si mette in condizione il corpo sociale di conoscere e di dare senso ai contesti nei quali vive, né si costituisce il sistema di parametri che deve presiedere alla verifica di efficacia dei PU.
L’alternativa che si propone si riferisce alla interpretazione che A. Carandini (La forza del Contesto, A. Carandini - 2017) dà del Contesto come matrice conoscitiva in quanto sistema complesso di relazioni spaziali e temporali interdisciplinari. La costruzione e l’utilizzazione di una conoscenza contestuale nei processi decisionali appare direttamente collegata alla efficacia del PU; la sua costruzione deriva dalla stratificazione della pluralità delle conoscenze istituzionali, in genere disperse nei settori della Pubblica amministrazione, spesso bloccate alla loro fase costitutiva, delle conoscenze identitarie proprio delle società locali e viene verificata e arricchita dalle conoscenze intenzionali prodotte dai promotori dei progetti di trasformazione.
Il nodo centrale è comunque quello di conferire a questa conoscenza in continuo perfezionamento il carattere della terzietà rispetto a utenti, produttori e decisori e utilizzarla in tutti i processi di valutazione e quindi nella ricostruzione del nesso tra conoscenze e progetto. In questo la potenza dei sistemi informatici e la garanzia di parità di condizioni di accesso e di sicurezza d’uso, che hanno introdotto il block chain, costituisce un significativo avanzamento.
Il PU, soprattutto il Progetto di paesaggio nel rapporto con il sistema delle conoscenze così costituito, si pone al contempo come verifica-falsificazione quindi di possibile implementazione dello stesso, ma in termini proiettivi conferisce anche un nuovo senso al contesto soprattutto in quei contesti in condizioni di degrado e in cui sono in atto fenomeni di entropia territoriale.
Ritengo che queste condizioni conferiscano al PU quella efficienza che nella pianificazione tradizionale veniva fatta derivare dalle conformità alle norme e nella pianificazione più aggiornata dalla compatibilità-sostenibilità in riferimento agli std quantitativi e prestazionali.
Infine, il tema della qualità dei risultati va collocato in relazione al fine ultimo delle prassi urbanistiche, questione che assume particolare significato nella mutazione - regressione della sfera pubblica che sta particolarmente accelerando nelle sue componenti, e in particolare nella mutazione del suo liquido amniotico, costituito dalle forme liberali della democrazia.
Una parte della cultura disciplinare si sta ritrovando intorno al tema storico della sinistra e ancora spendibile della giustizia sociale, affidando all’urbanistica un compito che economia e politica non sono riuscite a conseguire con ben altri strumenti e in tempi migliori. Il traslato qualità-giustizia appare peraltro non sempre facilmente declinabile, in relazione alle metamorfosi adattative del capitalismo ed alle derive tecnologiche che hanno modificato il senso diffuso della qualità di vita.
Sono i nuovi diritti di cittadinanza che si vanno prefigurando tra controllo - individualismo - conflittualità che definiscano gli spazi, non più come mediazione dei diritti patrimoniali (strade, piazze, lotti), ma come superamento del modello urbanocentrico con la proposizione soprattutto nei contesti insediativi minori di nuovi modelli di vita.