Dossier: Il progetto urbano per i centri minori. Opinioni a confronto

torna su

Gaetano Fontana
già capo dipartimento MIT
intervista a cura di Anna Laura Palazzo e Romina D’Ascanio
PDF




Q1. Della utilità del progetto urbano

Le esperienze di questi ultimi anni ci dicono che lo strumento del progetto urbano è sempre meno praticato dalle nostre amministrazioni comunali, soppiantato dal ricorso a singoli interventi, immediatamente cantierabili, non importa se frammentari e slegati da una visione d’insieme della città e del suo futuro. Questo accade soprattutto nelle realtà urbane più complesse, ma in qualche misura si riscontra anche nei centri minori dove tutto dovrebbe essere più facile.
Si tende a sacrificare il valore aggiunto portato dal progetto urbano (comunque inteso, come strategia d’intervento che traguarda le singole azioni anche disgiunte in una prospettiva coerente e condivisa per un’idea di città al futuro) a favore di un empirismo fattuale che induce a preferire la concretezza del presente (le risorse attivabili, gli interessi da soddisfare, i risultati immediatamente tangibili a ristoro degli investimenti fatti) senza interrogarsi sulla effettiva utilità e significatività urbana dei progetti in campo.
In queste condizioni, i progetti urbani sono ancora attuali? Esistono ragioni robuste per sostenerne la utilità, contro le crescenti derive del “presentismo” che producono vari episodi puntuali spesso contraddittori nell’insieme? Oppure dobbiamo rassegnarci alla loro rinuncia?

I progetti urbani sono ancora attuali, ma richiedono capacità di visione sullo sfondo di una robusta attività di programmazione. Per argomentare questa affermazione farò riferimento alla mia esperienza personale, dapprima come giovane funzionario (nel ruolo degli “urbanisti del Genio civile”) presso la Direzione generale del coordinamento territoriale (Dicoter) del Ministero dei Lavori Pubblici, con Michele Martuscelli direttore generale e Maurizio Marcelloni capo-servizio, successivamente come dirigente e poi segretario generale del Comitato per l’edilizia residenziale (CER) e vice capo di gabinetto del Ministro; e, infine, prima direttore della stessa direzione che era stata di Martuscelli e poi capo del Dipartimento per la programmazione ed il coordinamento dello sviluppo del territorio (riuscimmo a mantenere lo stesso acronimo DICOTER), dove sono rimasto sino al passaggio dal secondo governo Prodi al quarto governo Berlusconi (2008). Una lunga esperienza, nel corso della quale è stato possibile provare più volte a introdurre nel nostro Paese una dimensione urbana in progetti che inizialmente erano impostati soltanto alla scala edilizia.
La mia testimonianza riguarda un periodo di trasformazioni importanti per il Paese: dal decentramento alle Regioni con il DPR n. 616 del 1981, alla centralità che la questione della casa assume negli anni Settanta e per i due decenni successivi, dall’esplodere della questione urbana, allo sviluppo delle relazioni con l’Europa, dal processo di conferimento di competenze e funzioni alle Regioni con la riforma Bassanini della fine degli anni Novanta al grande tema della infrastrutturazione del Paese, di competenza del nuovo Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (MIT), in relazione ai corridoi della mobilità internazionali e allo schema di sviluppo dello spazio europeo1.
Agli inizi del mio lavoro, il Ministero era organizzato secondo cinque grandi aree di intervento: l’organizzazione del territorio, l’edilizia residenziale pubblica, la difesa del suolo, l’edilizia statale e le opere marittime. Il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici, massimo organo tecnico consultivo dello Stato, conservava ancora la gran parte delle sue prestigiose competenze anche in materia urbanistica. A livello periferico, la struttura dei Provveditorati si occupava della realizzazione delle opere pubbliche e degli interventi di difesa del suolo.
Delle prime due ho avuto modo di seguirne in prima persona l’attività, i cambiamenti e il loro profondo e continuo intreccio.
La casa è stata una delle questioni centrali dell’azione politico-amministrativa del Governo per cinquant’anni, dall’inizio della storia repubblicana sino ai primi anni ’90. Il settore edilizio è stato, per tutto il tempo della ricostruzione post-bellica, l’elemento portante dello sviluppo economico. Venti milioni d’italiani si spostano e cercano nella città e al Nord un’occasione di promozione sociale ed economica. Il problema della casa e la risposta al fabbisogno abitativo - l’emergenza abitativa - diventano i temi centrali del confronto politico e questioni immancabili del dibattito culturale.
Parallelamente, dagli anni ’60 in poi, un filone culturale riformista pone al centro della riflessione i modi e i contenuti dello sviluppo del paese, la necessità di una sua intensa infrastrutturazione di medio e lungo raggio, il rapporto tra infrastrutture urbane e città, con la città analizzata come organismo complesso, polifunzionale, luogo dell’accumulazione del capitale e della competitività. Di quella trascurata stagione della programmazione, il Progetto ’80 rimane il documento di maggior rilievo. Con esso, per la prima volta in Italia, si introduce, nel dibattito operativo, la cultura del territorio.
Questi due campi d’intervento trovano nel Ministero dei Lavori pubblici collocazione in due diverse strutture amministrative che, nel tempo, fanno registrare, comunque, ovvie e inevitabili connessioni, intrecci e coesistenze funzionali.
La questione casa, nella sua declinazione di edilizia residenziale pubblica, trova la sua collocazione presso il CER al quale, con un insieme di leggi che si susseguono nel giro di pochi anni (dopo la 865 del 1971, la 513 del 1977 e, principalmente, la 457 del Piano decennale del 1978 per la realizzazione di centinaia di migliaia di alloggi pubblici) è affidato il compito di dare una risposta soddisfacente ad un esplosivo fabbisogno abitativo e all’insorgenza di un forte conflitto sociale.
Alla Direzione generale dell’urbanistica con l’occasione trasformata nella Direzione generale del coordinamento territoriale, il DPR n. 616 del 1977 (in attuazione del DPR n. 8 del 1972 e della legge n. 382 del 1975) assegna il compito, di fatto solo virtuale, di individuare le linee fondamentali dell’assetto del territorio, affiancandogli altri due fattori di risposta al fabbisogno abitativo, l’elaborazione e l’applicazione delle norme dell’equo canone e la sanatoria dell’abusivismo.
Di fatto, fino alla fine degli anni Ottanta, l’emergenza abitativa e i modi per risolverla prendono il centro della scena e lasciano sullo sfondo la trama del territorio che con tanta fatica era stata costruita nei primi tentativi di programmazione. Le più avanzate elaborazioni della cultura riformista sono accantonate in favore delle proposte politiche necessarie alla solidarietà nazionale.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, nell’ambito del CER - anche grazie a importanti ricerche su quanto stava avvenendo in Europa (da Berlino a Londra, da Lione a Barcellona) nelle trasformazioni urbane e nelle operazioni di recupero del patrimonio edilizio,  e sulla loro portata urbanistica -, si avvia una riflessione su nuove modalità di affrontare insieme il problema della casa e quello, che ormai appariva con sempre maggiore evidenza, della crescente centralità delle città e della necessità di mettere in campo politiche finalizzate a migliorare la qualità economica, sociale ed ambientale del contesto urbano.
Si elaborano i programmi di trasformazione urbana un cui sono presenti soggetti pubblici e privati che conferiscono proprie risorse a un programma caratterizzato da funzioni e strategie d’intervento a prevalente interesse pubblico in cui l’abitazione rimane la tessera più importante di un mosaico più complessivo.
Sono questi gli anni dei programmi di recupero urbano (PRU)2 e di riqualificazione urbana (PRIU)3, dei programmi integrati, di quelli (peraltro, mai avviati) previsti da un protocollo d’intesa stipulato fra Ministero dei Lavori pubblici e Ferrovie dello Stato (un’ipotesi di progetto urbano che aveva l’obiettivo di sperimentare formule partenariali innovative fra due soggetti pubblici) per l’utilizzo, a fini d’interesse generale e per la realizzazione di quote di edilizia residenziale pubblica prevista dai programmi sperimentali del CER, delle aree di sedime delle infrastrutture ferroviarie che si riteneva possibile dismettere dall’uso originario, consentendo, in questo modo, la riappropriazione delle rendite che nel tempo si erano accumulate in ragione dello sviluppo urbano.
Per la prima volta, con questi programmi (in particolare, quelli di riqualificazione urbana), sarebbero state interessate tutte le funzioni urbane, sia le residenziali che le altre, con contenuti funzionali e tipologici simili a quelli ravvisabili nella strumentazione urbanistica attuativa (trattandosi però di programmi e non di piani, non avevano alcun potere di modifica degli strumenti urbanistici in vigore). Altro elemento decisivo era la previsione dell’apporto di risorse private, sottratte all’appropriazione individualistica dei valori di rendita generati dallo stesso intervento pubblico, da destinare alla contestuale realizzazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico complementari agli interventi principali.
Sono anche gli anni in cui il nostro paese condivide con altri paesi europei un comune orizzonte di politiche innovative e sperimentali. Già alla fine degli anni Ottanta, avevamo avviato un’intensa collaborazione con gli Uffici della Commissione europea per l’elaborazione del programma Urban (Commissario per le politiche regionali era l’inglese Millan). L’avvio del programma coincide, di fatto, con la nuova stagione della riqualificazione urbana.
Con i PRU e gli Urban, la competenza sul governo delle trasformazioni urbane, nell’ambito degli assetti istituzionali del ministero, si trasferisce dal settore dell’edilizia residenziale pubblica a quello delle politiche urbane e territoriali, dal Cer al Coordinamento territoriale. Da allora e per circa quindici anni, Dicoter è l’attore più importante delle politiche urbane e territoriali in Italia. L’attenzione si posta sul governo delle trasformazioni e sui suoi attori: città pubblica e città privata, residenza e funzioni non residenziali, attori dello sviluppo locale sia economico sia sociale.
L’entrata in Europa ci costringe a una più attenta riflessione sul ruolo e l’importanza dell’infrastrutturazione del territorio che per vent’anni era rimasta sullo sfondo. Inizia un serio tentativo e un’approfondita sperimentazione che tenta di far dialogare gli elementi che costituiscono l’armatura del territorio del Paese, le città e le reti. Le città sono considerate come nodi delle reti delle infrastrutture che conformano il territorio.
Con i Programmi di riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio (PRUSST)4 - che rappresentano il tentativo di portare a sintesi quest’approccio, ancora per molti versi restato inesplorato - affrontammo nel 1998 un tema più esteso e complesso, un ‘progetto di territorio’ che metteva in gioco le dotazioni infrastrutturali – opere pubbliche viste come innesco per le iniziative private -, su ambiti intercomunali con una copertura finanziaria privata per almeno il 30% del valore degli interventi. L’ambizione iniziale in termini di risultati attesi e di coordinamento tra soggetti ha progressivamente perduto il suo slancio, anche in ragione di alcune debolezze del sistema di governance. Qui, come per altri programmi, sarebbe stato necessario elaborare opportune messe a punto in corso d’opera, ricorrendo anche a monitoraggi puntuali che purtroppo vennero progressivamente abbandonati.

 

Q2. Della fattibilità

Non c’è dubbio che la crisi del progetto urbano sia imputabile ai suoi limiti nella concezione e messa in forma delle previsioni d’intervento, oltre che naturalmente alle condizioni più complessive che ne possono pregiudicare la fattibilità economico-finanziaria, amministrativa e sociale.
Così ad esempio la crisi prolungata del mercato immobiliare frena investimenti pubblici e privati troppo complessi e a elevato rischio per i ritorni dei capitali impiegati. I progetti inoltre richiedono una varietà di strumenti giuridico-amministrativi, anche di natura pattizia, per far fronte alla notevole diversità delle situazioni in gioco, e comunque costringono a prendere notevoli responsabilità con decisioni partecipate. Infine le conflittualità che insorgono in un progetto di maggiore complessità inducono a difficili strategie di costruzione del consenso e di compensazione degli interessi in gioco, che la politica spesso preferisce evitare.
Quali sono a suo avviso le ragioni che più ostacolano oggi il successo dei progetti urbani? È possibile fare qualcosa per rimuovere questi impedimenti?

La mia esperienza presso il Ministero dei LLPP mi ha portato spesso a mettere insieme obiettivi di programmazione e prospettive di sviluppo territoriale. Purtroppo la convergenza tra queste due diverse dimensioni delle politiche sul territorio non ha conosciuto la continuità di cui avrebbe avuto bisogno, anche a causa di particolari vicende politiche e amministrative che hanno segnato il nostro Paese.
Da una decina d’anni a questa parte, la programmazione come, peraltro, altri temi fondamentali come la questione urbana o la politica della casa, sono stati completamente cancellati dall’agenda politica e da quella della pubblica Amministrazione ai diversi livelli. Al di là di ogni alibi, l’abbandono del metodo della programmazione è fondamentalmente una questione di cultura. 
Le concatenazioni e le mutue corrispondenze tra sviluppo economico e programmazione territoriale hanno sempre rappresentato un luogo di amichevole sfida dialettica tra me e Fabrizio Barca. Era il territorio che doveva prevalere sui fattori economici o viceversa? Io insistevo nel dire che il territorio è una realtà di sintesi e non un recapito passivo dei fattori economici. In questo, non sempre ci siamo trovati d’accordo. Sul piano delle disponibilità finanziarie e delle risorse umane e strumentali era un confronto impari: Barca disponeva di una struttura paragonabile a una grande armada, presso il ministero del Tesoro.  Io, potevo contare su una struttura più piccola di pochi vascelli corsari (per continuare nella metafora) che si muovevano con maggiore velocità. Scherzavamo su queste cose, ma il confronto era davvero impari. Sullo sfondo c’erano due prospettive differenti. Barca propendeva per un rapporto Centro-Regioni. Io invece Centro-Comuni, perché ritenevo (e ritengo tuttora) che lo sviluppo locale sia nelle corde del Comune. La Regione, ritenevo, sarebbe stata un’altra sovrastruttura nella quale, priva delle esperienze accumulate dai comuni, più facilmente si sarebbe potuta costituire una classe dirigente di tipo estrattivo, quella stessa tipologia di funzionari che Fabrizio ha sempre combattuto. I nostri due dipartimenti hanno comunque operato sempre insieme.
La DICOTER ha sempre promosso attività di ricerche e di assistenza tecnica sui temi della programmazione territoriale. Dal 2004 al 2006, in particolare, l’attività ha avuto un rilevante impulso in vista del periodo di programmazione europea 2007-20135.
La visione prospettica del territorio era fondata sulla interdipendenza tra corridoi infrastrutturali, piattaforme territoriali strategiche e territori snodo, ricettori a loro volta dei flussi, che nel loro insieme costituiscono il sistema delle ‘chiodature funzionali’ e di auspicata governance multilivello necessaria per conseguire uno sviluppo competitivo e al tempo stesso coeso del nostro Paese.
Disegnavamo le piattaforme intraeuropee e interregionali, e su quelle costruivamo il telaio dell’Italia. Ciò vale anche per le città, per rafforzarne le funzioni di servizio rispetto al territorio, intercettando i flussi, individuando i bisogni e introducendo gli elementi d’innovatività. In questa prospettiva acquista un ruolo specifico il progetto urbano, che dà forma alle visioni programmatiche alla scala locale, e consente di verificarne gli elementi di sostenibilità e compatibilità, sostanziandole con la componente figurativa e le attribuzioni funzionali.
Si lavorava allora sul complesso degli atti dell’amministrazione, un’attività che ci permetteva di interloquire con il Parlamento, e di avviare nuove iniziative. Tutto ciò si è fermato. La stessa esperienza che la pubblica amministrazione ha accumulato in anni e anni di lavoro, ad esempio sull’abusivismo o sulla questione abitativa o sull’organizzazione territoriale o sulla capacità di promuovere coesione sociale oltre che sviluppo da parte delle grandi infrastrutture per la mobilità, oggi è totalmente ignorata o messa da parte.

 

Q3. Idee per il futuro

EWT ritiene che il rilancio del progetto urbano sia possibile solo a condizione di innovarne profondamente la concezione, i contenuti, e la stessa metodologia di elaborazione. Nelle attuali condizioni di incertezza e di imprevedibilità delle dinamiche urbane, c’è bisogno di progetti processuali, flessibili ed evolutivi, piuttosto che di un disegno rigido e vincolante a medio-lungo termine attraverso cui fissare in modo normativo le forme, gli assetti e le stesse intese pubblico-privato che sostanziano il progetto. La stessa forma del progetto è destinata a cambiare, come convergenza progressiva di una moltitudine di azioni preferibilmente place-based e people-driven, spesso multiscalari ed eterogenee tra loro, ma comunque accomunate dalla coerenza rispetto a una visione di futuro sufficientemente condivisa. Come rendere compatibili gli obiettivi assunti inizialmente (qualità, prestazioni funzionali, equa remuneratività degli investimenti) con i necessari aggiustamenti in corso d’opera diventa il tema centrale del progetto, un tema particolarmente ostico a cui comunque non è possibile sfuggire.
Muovendo dalle esperienze positive fatte per i centri minori, quali sono a suo avviso le innovazioni da apportare al progetto urbano in Italia per migliorarne la efficacia, la fattibilità, e la qualità dei risultati?
  
Nella nostra impostazione c’era un filo rosso che ha richiesto anni di rodaggio e applicazioni molteplici, una modalità che partiva da lontano ma non si sottraeva alle modifiche, che richiedeva creatività nel rendere flessibili, utili e applicabili le nuove procedure. Non è sufficiente l’aspetto compilativo, serve quello ideativo. Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora risale a più di vent’anni fa, stiamo parlando di elementi primordiali; ma se avessimo potuto approfondire nel tempo questi temi, migliorandoli continuamente, probabilmente saremmo diventati più efficaci nella programmazione. I francesi, con i quali ho avuto modo di collaborare a lungo per la realizzazione della tratta Torino-Lione del corridoio 5, utilizzano una struttura di missione (l’office de mission) per molti progetti urbani, consapevoli che una sola amministrazione non possa reggere la complessità di un progetto urbano, e che sarebbe ingenuo riferirlo ad una mera operazione residenziale. Il progetto urbano va ben oltre un’operazione di rifunzionalizzazione urbanistico-edilizia per farsi anche processo di riorganizzazione economica e di riassetto sociale. La Mission, composta da un team di professionisti multidisciplinari responsabile di tutte le questioni urbane e socio-economiche,diventa così l'interlocutore privilegiato di tutti gli attori del territorio. Non solo, fornisce un ruolo d’impulso, coordinamento, interfaccia fisica di elaborazione nella progettazione. Uno strumento che non può essere conformato e ingessato sin dall’inizio, gli si deve permettere di crescere, di essere flessibile, libero da vincoli preordinati. Deve essere in grado di individuare fabbisogni precisi, le risorse necessarie e creare sinergie centro-periferia. Inoltre, per tutelare il più generale interesse pubblico ed evitare quegli scambi ineguali che nelle trasformazioni urbane possono determinare eccessivi vantaggi per il privato, non può essere sottaciuta la capacità della struttura amministrativa, caratterizzata in particolare dalla sua adeguata professionalizzazione. Infine mi sembra ormai inevitabile, nel rispetto del principio di lealtà (che dovrebbe contraddistinguere i rapporti pubblico-privati) dotarsi di una regolamentazione di tipo contrattualistico in grado di disciplinare modalità e forme della collaborazione fra amministrazioni pubbliche e soggetti privati. Questa occorrenza richiede la costruzione partecipata delle procedure e suggerisce un ripensamento del modello continentale di cultura del diritto (civil law, altrimenti noto come “atto amministrativo”) alla luce dei frame contrattuali tipici dei paesi anglosassoni, compatibili con un modello flessibile e consuetudinario di diritto – common law.
Non si tratta tanto della forza del vincolo, quanto della struttura dell’impianto decisionale, che genera diversi obblighi e attese, modulando, fra l’altro, i rapporti interistituzionali su mix variabili tra competenze concorrenti ed esclusive (Stato, Regioni, singole municipalità) e su differenti registri di interazione.
Ecco, a me sembra che queste possano essere possibili innovazioni per la pratica del progetto urbano anche in Italia. Affidarlo a una struttura di missione che si fa carico di interagire con i molteplici soggetti pubblici e privati che il progetto urbano mette in gioco, a livello locale ma talvolta anche regionale e statale. Non è di facile applicazione, date le gelosie con cui gli enti locali difendono le loro competenze nei progetti che ricadono nel loro territorio. Eppure può essere questa la via più opportuna per migliorare radicalmente l’efficacia dei progetti urbani, oggi assai scarsa.

 

 

Note

1 Con la riforma Bassanini (lg. n.59/97 e D.lgs. n. 300/99) di riforma generale della pubblica amministrazione, Il Ministero dei lavori pubblici e il Ministero dei trasporti, sono stati soppressi e fusi nel Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. La nuova organizzazione ministeriale ha trovato applicazione nel 2001 con l’insediamento del secondo governo Berlusconi.
2 I PRU si rivolgono specificatamente alla riqualificazione di insediamenti di edilizia residenziale pubblica, in quanto la provenienza dei finanziamenti è quella dei fondi ex GESCAL, istituiti dalla legge del 14 febbraio del 1963 e destinati ad alloggi per lavoratori. Essi puntano all’inserimento nell’area oggetto dell’intervento di diversi usi e funzioni (residenze, servizi, attrezzature collettive, infrastrutture, ecc.) e alla creazione di sinergie tra soggetti pubblici e privati, sia riguardo al finanziamento per la realizzazione degli interventi pubblici, che per quanto attiene l’iniziativa propositiva e progettuale. Le tipologie di intervento previste vanno dal recupero alla nuova edificazione. Le amministrazioni comunali sono chiamate a svolgere un ruolo di stimolo, promozione e coordinamento.
3 Ai sensi del D. M.LL.PP. 21 dicembre 1994, “Programmi di riqualificazione urbana a valere sui finanziamenti di cui all’art. 2, comma 2, della l. 17 febbraio 1992, n. 179, e successive modificazioni ed integrazioni”, detti programmi sono destinati a Comuni con popolazione superiore ai 300.000 abitanti e aree metropolitane, comuni capoluogo di provincia, e insistono su dimensione urbana e di quartiere, ambiti di edilizia residenziale pubblica, aree contigue e prossime. Essi interessano una pluralità di operatori e i finanziatori degli interventi e sono stati tra i primi a prevedere la partecipazione del privato in operazioni di riqualificazione di ambiti urbani, attraverso lo strumento programmatorio ed attuativo dell'Accordo di programma.
4 I PRUSST, promossi dal Decreto Ministeriale del 8 ottobre 1998, perseguono due obiettivi fondamentali:
- la realizzazione, l'adeguamento e il completamento di attrezzature, sia a rete che puntuali, di livello territoriale e urbano in grado di promuovere e di orientare occasioni di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e sociale, con riguardo ai valori di tutela ambientale, alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e architettonico, e garantendo l'aumento di benessere della collettività;
- la realizzazione di un sistema integrato di attività volte all'ampliamento e alla realizzazione di insediamenti industriali, commerciali e artigianali, alla promozione turistico-ricettiva e alla riqualificazione di zone urbane centrali e periferiche interessate da fenomeni di degrado.
5 Dicoter (a cura di), Italia Europa. Reti e territori al futuro. Materiali per una visione, Roma, 2007; Dicoter (a cura di), Italia Europa. 2007-2013 Il territorio come infrastruttura di contesto, Roma, 2007.