Anche con questo numero EcoWebTown affronta il tema di un progetto urbano possibile dove l’esperienza fatta finora sembra attestare un’apparente impossibilità. Alla conclusione del numero precedente dedicato a Napoli, per la rimozione del degrado ormai insostenibile delle Vele di Scampia, era sembrato necessario rinviare il programma di recupero a un Progetto urbano traguardato al futuro dell’area, ma dai contenuti e dalle forme profondamente rinnovate rispetto a quelle tradizionali.
Non troppo diversamente, anche per l’Area Archeologica Centrale di Roma, dopo più di cento anni di prove controverse e di laceranti discussioni, si è ancora in attesa di un Progetto urbano efficace e fattibile a medio termine, con cui guidare in modo organico e sufficientemente condiviso la tutela e la valorizzazione del più “straordinario patrimonio di documentazione dell’Occidente” ( Manieri Elia), purtroppo sottoposto da tempo a una molteplicità di azioni eterogenee e spesso incongruenti tra loro.
Come a Napoli, anche qui il Progetto urbano possibile non potrà verosimilmente ricalcare le forme e le strategie prefigurate fino ad oggi dalla migliore cultura architettonica e urbanistica (in questo caso anche archeologica) del nostro Paese. Per avere successo, dovrà infatti dimostrarsi capace di misurarsi creativamente con una eccezionale complessità del progetto, dovuta almeno a tre questioni: la radicale diversità dei valori che ispirano le culture, gli atteggiamenti e le stesse attese sociali in gioco; la ottusa separatezza dei poteri che si contendono animosamente il governo dell’area frenandosi a vicenda; infine la crescente imprevedibilità delle conoscenze e dei processi di trasformazione che investiranno nel futuro questo spazio nevralgico, che in ogni caso va considerato (e pianificato) come patrimonio non solo di Roma capitale, ma della intera umanità.
Sembra davvero impossibile far quadrare il cerchio, e combinare in modo accettabile la infervorata diversità delle posizioni in campo. In questa condizione di stallo e talvolta di stanchezza del dibattito, non c’è da stupirsi se prevalgono le tendenze a modificare il meno possibile l’esistente, appiattendosi su una inerzia ormai di lunga durata, dovuta principalmente alla irresolutezza delle istituzioni in carica. Oppure, al contrario, se si tentano improvvisi colpi di mano con gesti clamorosi, come la frettolosa chiusura al traffico veicolare di gran parte di via dei Fori Imperiali decisa dall’ex sindaco Marino, con scarsa consapevolezza degli effetti collaterali generati sul funzionamento della città e soprattutto in assenza di un progetto organico a medio termine, mirato al riassetto complessivo dell’area e della sua accessibilità.
Un’area, ricordiamolo ancora, che rimane tuttora aspramente contesa tra chi la vorrebbe trasformare in un immenso Parco archeologico finalizzato primariamente alla tutela e conservazione dei ruderi, e dedicato alla ricerca scientifica per una migliore conoscenza delle tracce del passato; e chi invece la preferisce pensare come uno straordinario luogo urbano, fluido e stratificato, che continua ad intrecciare la presenza di molteplici popolazioni eterogenee, coinvolgendole in un’esperienza dell’antico davvero unica al mondo. A ben vedere questa diversità di prospettive riflette in qualche modo le due diverse storie che si sovrappongono nell’area, come ha acutamente osservato Manieri Elia: “la storia di un mito, eternato nella sua pietrificazione monumentale”; o invece la storia lunga e accidentata fatta di uomini e di donne che hanno abitato o utilizzato il luogo, segnandolo con le proprie esistenze. Così il senso dell’area diventa l’esito precario di un continuo “confronto oppositivo tra Permanenza e Divenire”, e il progetto sarà chiamato a misurarsi con entrambe queste presenze simboliche, cercando di mantenere la necessaria tensione tra le due dimensioni, anziché radicalizzarne una a scapito dell’altra.
Consapevole comunque delle difficili controversie da dipanare, EcoWebTown preferisce sospendere ogni giudizio di merito dando piuttosto la parola ai protagonisti in campo, dai rappresentanti delle istituzioni pubbliche ai più autorevoli esperti delle principali discipline in gioco, architetti, urbanisti, archeologi, storici, restauratori, economisti. Come nel caso di Napoli, si rinvia alle interviste il compito di presentare i diversi punti di vista, ed eventualmente di avanzare soluzioni innovative su temi d’intervento che sono indubbiamente di grande complessità.
Allo scopo tuttavia di circoscrivere il campo delle argomentazioni, e di agevolare la comparabilità tra le specifiche risposte, sono state predisposte da EWT tre questioni di riferimento. La prima, Tra archeologia e urbanistica, attiene al senso primario da attribuire all’area archeologica centrale, spazio della conoscenza scientifica piuttosto che luogo di frequentazione urbana arricchita dal dialogo implicito con le presenze dell’antico. La seconda, In cerca di progetto urbano, rinvia al tema che da qualche tempo costituisce il filo conduttore di EWT: quale dovrebbe diventare la natura e la forma del progetto urbano per farlo diventare utile anche in contesti apparentemente intrattabili, come appunto appare oggi l’area archeologica romana. Infine la terza, Nel frattempo, allude ad alcune misure da intraprendere urgentemente di fronte a situazioni pericolosamente irrisolte, come ad esempio l’uscita della nuova stazione della metropolitana in corso di realizzazione, o la sistemazione degli Auditoria di Adriano recentemente scavati sul bordo di piazza Venezia. Si tratta in particolare di scongiurare il rischio di interventi che possono pregiudicare future soluzioni di assetto morfologico e funzionale complessivo, cominciando intanto a individuare l’estensione dell’area da trattare e i confini da rispettare nelle diverse strategie d’intervento.
Al riguardo va rilevato il paradosso della scarsa efficacia dei molteplici piani regolatori e piani particolareggiati che nel tempo hanno tentato di disciplinarne la trasformazione, come emerge anche dalla sintetica rassegna di piani e progetti elaborata dalla Manicone. Sintomatica ad esempio è la sconcertante schizofrenia tra le previsioni del PRG del ’31 di Piacentini e la concomitante scelta mussoliniana di aprire via dei Fori imperiali secondo un asse perfettamente rettilineo di collegamento tra Colosseo e Piazza Venezia (una strada diritta era peraltro già presente nel Settecento seppure con un tracciato leggermente diverso, l’alberata di olmi tra il piede del Campidoglio e il convento di Santa Francesca Romana; l’indicazione verrà ripresa e sviluppata da Berthault in piena occupazione napoleonica, con la proposta di una suggestiva promenade tra Campidoglio e Colosseo, come ricorda Anna Palazzo ).
La politica, spinta dai suoi scopi autocelebrativi, ha dimostrato in quel frangente una inconsueta (quanto prevaricatoria) lucidità d’intenti nel connettere direttamente i due luoghi simbolici dello Stato fascista, ignorando brutalmente l’urbanistica e l’architettura che nel frattempo erano alla ricerca di soluzioni più aderenti al contesto, rispettose a loro modo delle preesistenze del quartiere alessandrino. Del resto anche la successiva scelta d’insediare lungo via dei Fori imperiali la nuova sede del partito fascista (messa a concorso, ma poi fortunatamente scongiurata per motivi non del tutto chiari) risponde alla stessa logica spregiudicata di concentrazione dei luoghi del potere lungo l’asse teso direttamente tra i due spazi primari nell’immaginario simbolico della città-capitale e della stessa nazione.
Stranamente, come rileva Pallottino, anche il PRG del 2008 sembra risultare poco influente nel dibattito attuale sul destino dell’area, nonostante la maturità delle sue proposte e l’intelligente previsione di uno specifico Ambito di programmazione strategica del Parco Archeologico Monumentale dei Fori e dell’Appia antica, da utilizzare come occasione per riorganizzare l’intera area in chiave metropolitana. Questa previsione sembra tra l’altro cogliere la scala giusta per valorizzare la assoluta eccezionalità di un vuoto smisurato nel cuore dell’area metropolitana (l’osservazione è di Montuori), e invita a pensare le future strategie del Parco sollevando lo sguardo ben oltre i ristretti confini municipali, almeno fino ai Castelli romani.
Ma è proprio l’idea di un grande parco archeologico che sembra non convincere gran parte degli intervistati. Qui è in gioco un rapporto assai complesso tra la città esistente e l’area dei Fori e del Colosseo, e molti autori (in particolare La Regina, Baldi, La Rocca e Montuori) insistono sulla necessità di evitare reciproche segregazioni e separatezze, per sperimentare invece la fecondità di una straordinaria compresenza tra le forme di vita degli abitanti e visitatori, e la accumulazione stratificata delle memorie del passato.
C’è chi, come Desideri, nel rinviare operativamente ad un necessario coordinamento inter-istituzionale magari esercitato dal neoistituito Museo dell’area del Colosseo, (destinato a prendere in carico le relazioni tra sei formidabili centralità archeologiche: Foro Romano, Fori imperiali, Colosseo, Palatino, Circo Massimo, Colle Oppio), riporta i confini dell’area a una grande isola museale di circa 60 ettari, che galleggia in uno spazio urbano articolato e frammentario, ponendo come temi prioritari il progetto dei bordi, degli accessi e degli attraversamenti, al fine di reintegrare quanto più possibile isola e città.
Altri, come l’economista Valentino, individuano un’area ancora più grande a vocazione turistico-archeologica, estesa dal Campidoglio alla Domus aurea, per circa 100 ettari, la quale alterna al proprio interno in modo confuso una varietà di spazi gestiti dallo Stato e altri dal Comune. La prospettiva obbligata è il coordinamento delle rispettive strategie sulla base di un grande progetto unitario di livello urbano-territoriale, condiviso finalmente dalle principali istituzioni centrali e locali, orientato al tempo stesso alla riqualificazione organica dell’esistente e alla promozione di uno sviluppo turistico sostenibile, ricorrendo anche a tecnologie avanzate per la multimedialità, coerenti con il profilo di Roma città del cinema.
Altri infine, come Pignatti, si spingono a immaginare spregiudicatamente un futuro dell’area incardinato sulla tensione tra la cura dell’antico, il turismo sostenibile e l’innesto di nuove attività culturali e creative, espressione a loro volta della contemporaneità. E’ una prospettiva audace, che rinvia alle intuizioni della fertile stagione dell’effimero, ma che intende ricondurle adesso a una strategia meno invasiva, da applicare soprattutto negli spazi residuali, originando così un nuovo layer di usi sovraimposto a quello dell’archeologia e a quello dell’animazione urbana e turistica.
Ma a ben guardare non c’è soltanto da risolvere le relazioni tra area archeologica e città, assunte entrambe come entità già date nella loro diversa fisionomia, funzionalità e modalità di gestione. Come osserva Barbieri, dall’accostamento si può invece far sprigionare una inedita potenzialità di reciproca compenetrazione, dove la posta in gioco diventa la creazione di uno spazio in-between denso di molteplici significati e condiviso da entrambe, fatto di reciproche contaminazioni e di percepibili intrecci di significato.
In definitiva nel rispondere alla prima domanda la maggior parte degli intervistati sembra considerare l’armonizzazione critica tra urbanistica e archeologia come una necessità inderogabile, dando per scontato che è indispensabile intanto liberalizzare la frequentazione dell’area archeologica per le molteplici popolazioni in gioco (cittadini, turisti, visitatori), come del resto accade già normalmente nelle altre aree monumentali di Roma quali piazza del Popolo o piazza del Pantheon (La Regina, Ricci). Senza più sottostare a una malintesa “priorità archeologica”, che molto spesso ha indotto la distruzione dell’esistente prima ancora del suo progetto (Manieri Elia). Ma piuttosto ricorrendo a un’impostazione progettuale critica, aperta alle imprevedibili evoluzioni del futuro, capace di “restituire la percezione della profondità storica dei luoghi ricomponendo un paesaggio evocativo di tutta la storia della città” (La Regina); e capace anche di utilizzare le straordinarie opportunità progettuali che provengono dalla considerevole distanza tra la quota archeologica, destinata soprattutto ai visitatori, e la quota urbana, da restituire alla vita delle molteplici popolazioni affollano lo spazio esistente ( Desideri).
Meno condivisa sembra invece essere la risposta alla questione del progetto urbano, la revisione della sua natura e delle sue forme, per farlo diventare uno strumento adatto a governare la trasformazione di quest’area di enorme complessità. Anzi, per la verità, questo tema appare disertato da molti intervistati, anche architetti, che sembrano trovarsi più a loro agio con l’approfondimento delle varie occasioni d’intervento, magari puntualizzando le proprie risposte alla prima domanda. Peraltro c’è chi, pur riconoscendo la necessità d’innovare, rileva la sostanziale estraneità di questo strumento rispetto all’esperienza romana, come dimostrano i tentativi falliti di applicazione del PRG del 2008 che prevedevano esplicitamente il ricorso al Progetto urbano (Cecchini).
Eppure è largamente percepita l’esigenza di “un progetto urbano unitario, capace di superare le divergenze di opinione tra archeologi, storici dell’arte e architetti”, anche per scongiurare il rischio di abbandonare al loro destino le aree scavate, in assenza di una visione prospettica che sappia interpretare il possibile destino di questo stupefacente palinsesto di storia e natura (La Rocca).
In realtà, per impostare quel complesso Piano di sistemazione che siamo chiamati a produrre attraverso “un impegno corale e scomplessato di scienza urbana e creatività progettuale” (Manieri Elia), diventa sempre più rilevante la questione della forma del Progetto urbano, che non può essere liquidata riproponendo acriticamente soluzioni inefficaci come quelle praticate fino ad oggi da autorevoli architetti, urbanisti e amministratori.
Tra i pochi a raccogliere la sfida, l’assessore Montuori rileva la paradossale semplicità di un Progetto che dovrà essere fatto soltanto di piccole operazioni di ricucitura, perché non è più il tempo dei grandi interventi. Lo stesso mecenatismo può diventare inutile e controproducente se non è ispirato a un progetto complessivo per l’area, come dimostrano del resto le dure prese di posizione di La Regina e di Fuksas contro il futuro centro servizi del Colosseo da ricavare sotto il terrapieno della strada di bordo, promosso da un potente sponsor in grado di sostenere tutte le spese necessarie.
Più riflessivo appare l’approccio di Barbieri, che si domanda quale ruolo possa avere la forma governata dal Progetto urbano in un processo finalmente corale di costruzione delle scelte; giungendo alla conclusione che la forma si presta ad essere utilizzata in modo più pertinente e innovativo soprattutto se diventa uno strumento della conoscenza condivisa, nella prospettiva di una idea guida traguardata al futuro da perseguire flessibilmente, piuttosto che “la modellazione plastica e rigidamente predittiva di una pur affascinante nuova configurazione dell’area”.
Su una linea non troppo dissimile appare anche Ricci, per il quale comunque il progetto dell’area dovrà in generale “passare dalla forma al senso”, assumendo un nuovo contesto più adattivo “che probabilmente non è più la città ma il suo paesaggio”. I riferimenti concettuali più appropriati diventano allora il “progetto come narrazione” ovvero come “azione sociale”, revocando i valori di autorialità a favore di un maggiore coinvolgimento delle popolazioni più interessate.
Ma è soprattutto Desideri a indicare per il Progetto urbano la forma concreta di un Master plan come quadro di coerenza per le possibili iniziative di trasformazione dell’area, con le linee guida da rispettare e le condizioni per l’attuazione da prevedere realisticamente, considerando in particolare un tavolo di concertazione istituzionale affollato e tendenzialmente conflittuale, intorno al quale siedono almeno Regione, Provincia, Comune, varie Sovrintendenze ed Enti Parco. Del resto anche l’Unesco impone un Master plan per la gestione dell’area, iscritta nel patrimonio mondiale. E c’è da chiedersi se e quanto sia possibile coordinare tra loro questi diversi strumenti di governo, ben sapendo che una proliferazione non coordinata rischia di accrescere lo stato di confusione tra gli spazi gestiti dai diversi poteri istituzionali ben percepibile già oggi.
E comunque rimane sostanzialmente aperta la questione dei contenuti e della forma innovativa del Progetto urbano, come dispositivo per l’attuazione collegato a un piano di sistemazione dell’area – o Master plan- che dovrebbe definire consensualmente lo scenario di riferimento per il futuro, pur nelle condizioni di incertezza che appaiono ineliminabili soprattutto in presenza di conoscenze che evolvono continuamente a seguito delle esplorazioni archeologiche e più in generale per le dinamiche aleatorie che investono processi d’uso e sistemi di governo urbano.
Nei numeri precedenti di EWT si era provato a ripensare il Progetto urbano all’interno di una prospettiva oggi più realistica di progetti declinati al minuscolo, come un insieme convergente d’interventi di dimensioni ridotte, se possibile costruiti dal basso, piuttosto che un mega progetto unitario per grandi opere e interi pezzi di città. Muovendo da questa ipotesi, il Progetto Urbano veniva ridefinito allora come strategia flessibile di guida alla trasformazione, sorretta da una visione d’insieme a medio termine, condivisa ma non coercitiva, che dona il senso complessivo da perseguire. Poi una varietà congiunturale d’interventi a diversa scala, congruenti con la visione e declinati secondo le mutevoli circostanze e i vincoli del contesto.
Appare ora possibile tentare un avanzamento metodologico di quelle proposte, provando a delineare la forma possibile del Master plan e del Progetto urbano da applicare all’Area Archeologica Centrale di Roma.
Innanzi tutto il Piano di sistemazione generale (o Master plan). Questo strumento dovrebbe articolarsi in un insieme di dispositivi tra loro interdipendenti. Intanto, la codificazione e puntualizzazione del regime delle tutele differenziate che operano a livello locale, in applicazione delle normative esistenti, del PRG, del Piano Paesaggistico Regionale, degli altri piani comunque sovraordinati e degli strumenti di programmazione come il PUM, Piano decennale per la mobilità urbana. Poi la individuazione delle misure necessarie per ridurre i rischi per il futuro, che funge da quadro irrevocabile delle prescrizioni a cui dovrà attenersi qualsiasi intervento sull’area. Ancora, un sistema semplificato di regole per la gestione ordinaria dell’esistente con cui agevolare il respiro fisiologico di questo spazio composito e la sua manutenzione continua, considerando anche la gamma dei possibili eventi da ospitare, purché compatibili con la corretta conservazione del senso. Poi la prefigurazione, aggiornabile continuamente, delle strategie della trasformazione sostenibile, selezionando in particolare le aree di criticità come priorità d’intervento da condividere con gli attori istituzionali rilevanti. Da ultimo, le disposizioni per l’attuazione, corredate da adeguate verifiche preventive di fattibilità degli interventi.
Il presupposto irrinunciabile è che questi diversi dispositivi siano accomunati dal riferimento alla Visione prospettica che s’intende perseguire nel medio termine, tutelando e valorizzando le potenzialità iscritte nello spazio esistente, espressione a loro volta delle stratificazioni provenienti dalle lunghe durate del tempo quanto delle risorse per lo sviluppo disponibili localmente.
Come elaborati qualificanti del Master plan, insieme alla Visione, c’è uno Schema di assetto insediativo-ambientale con le Linee guida per gli interventi, e soprattutto un’Agenda dei progetti-cardine da aggiornare periodicamente, come contributo specifico all’Agenda strategica di Roma capitale, congruente a sua voltacon l’Agenda urbana regionale e nazionale.
La Visione guida dovrà risultare aperta e flessibile, e tuttavia abbastanza stabile e ben delineata per fungere da quadro di coerenza rispetto a cui riportare costantemente il confronto dialogico che sostanzia le eventuali intese inter-istituzionali da intraprendere nell’immediato quanto nel prossimo futuro. Va da sé che il dialogo ipotizzato confida nell’argomentazione ragionevole e fondata su adeguate conoscenze come modo per giungere a una decisione condivisa, sapendo che questo metodo può essere praticato soltanto se si accettano preliminarmente alcune regole procedurali, indipendentemente dall’affermazione impositiva delle singole competenze istituzionali (Rawls,1971). A queste condizioni diventerà possibile praticare il metodo dei processi decisionali inclusivi, ovvero scelte pubbliche prese con il coinvolgimento dei cittadini e dei soggetti direttamente interessati, e senza trascurare l’opinione pubblica internazionale.
La Visione sarà sostanziata operativamente dal sistema degli Obiettivi di qualità insediativa da perseguire all’interno dell’area, complementari con gli Obiettivi di qualità paesaggistica che scaturiscono in particolare dalla interpretazione del contesto archeologico in quanto incontro tra storia e natura, come è stato ben ricordato da Federico Desideri in questo numero di EWT. E soprattutto, dovrà essere validata attraverso un adeguato processo di condivisione politica, sociale e tecnica, indispensabile per sottrarre la sistemazione dell’area all’asfitticità di un approccio eccessivamente orientato all’archeologia, all’architettura e all’urbanistica, o, peggio ancora, alle attese interessate delle istituzioni o degli investitori in cerca di ritorno d’immagine.
Il Progetto urbano a sua volta dovrà essere inquadrato dal Master Plan, ma senza discenderne in modo troppo lineare. Potrà infatti comprendere uno o più dei progetti cardine individuati dall’Agenda Strategica, ma soprattutto tenderà a configurarsi come un insieme congiunturale d’interventi a diversa grana (piccoli, intermedi, grandi), a diversa scala (locali, di parte di città, di livello urbano) e con diversi promotori (pubblici, privati, terzo settore), tutti accomunati dalla volontà di convergere rispetto agli obiettivi enunciati dal Master Plan.
Per fare un esempio: il Progetto urbano della nuova stazione della metropolitana “Fori” potrà essere associato flessibilmente a una varietà di interventi dentro e fuori il recinto dell’Area Archeologica Centrale, come esito di un processo aperto di mobilitazione di molteplici attori pubblici e privati che decidono di investire sulle trasformazioni innescate dal nuovo nodo della mobilità su ferro, tenendo conto anche delle connessioni da istituire con gli spazi pubblici e con i percorsi pedonali della città circostante. Naturalmente questa scia di interventi a diversa grana complementari al nodo infrastrutturale dovrà rispettare la visione del Master plan, e in alcuni casi sarà necessario stipulare patti aggiuntivi con la cabina di regia che regge i destini dell’Area, oltre che naturalmente con il Comune di Roma. In questo modo dovrebbe diventare più agevole armonizzare la inevitabile rigidità delle previsioni di breve e medio termine formulate dal Master plan con la aleatorietà delle propensioni all’intervento disponibili localmente, su un’area da ridefinire volta per volta in funzione degli obiettivi perseguiti.
Nel concludere questo editoriale per un numero di EcoWebTown particolarmente denso di suggestioni su un tema apparentemente intrattabile, il Progetto urbano per l’Area Archeologica Centrale di Roma, appare indispensabile soffermarsi ancora una volta sulla intrinseca problematicità di qualsiasi confronto progettuale con l’Antico. Come afferma Purini, le rovine appaiono “oggi molto più enigmatiche” di quanto non lo fossero già nel passato, e dunque vanno evitate quelle culture del progetto troppo assertive e performative, eccessivamente ispirate ai valori di una razionalità tecnologica che tende a snaturare il senso dell’Antico, “riproponendolo come la premessa di un linguaggio del costruire sostanzialmente privo di una sua scrittura tettonica coerente, a suo modo casuale”.
Sono riflessioni da tenere ben presenti se si vuole affrontare in particolare la questione di via dei Fori Imperiali, consapevolmente elusa da EWT per la difficoltà di immaginare oggi assetti diversi, sufficientemente condivisi nell’incontro altamente conflittuale tra le diverse culture e visioni in gioco. Ben sapendo, come afferma acutamente Purini nel suo articolo introduttivo al numero, che in un’area archeologica “ciò che non può essere rivisto nella sua perduta finitezza … può però volta per volta suscitare forme mai esistite …. immerse in una condizione vitale che non potrà essere riprodotta ma solo desiderata”.