Doña Juana a Bogotà, con un’estensione di circa 600 ha, è una delle discariche più grandi del mondo. E’ anche il simbolo delle contraddizioni della capitale colombiana. Non solo la discarica produce inquinamento delle acque, dei terreni, dell’atmosfera, ma condiziona la vita di intere favelas che circondano l’impianto. La popolazione delle favelas, soprattutto donne e bambini, vive setacciando la discarica alla ricerca di scarti da riciclare. La discarica rivela le contraddizioni di una metropoli in parte legale e pianificata, ma in grande misura costituita da una sterminata periferia di favelas spontanee e abusive. A Bogotà convivono processi riqualificazione urbana e processi di degrado sociale e ambientale, ricchezza e miseria.
Accanto al conferimento dei rifiuti nella discarica di Doña Juana, gestita fino a ieri da operatori privati e ora da una società pubblica, esiste una diffusa raccolta dei rifiuti da parte di una moltitudine di riciclatori che si guadagnano da vivere rivendendo i materiali selezionati in una rete di centri di raccolta. Recentemente gran parte di questi raccoglitori informali (grazie all’azione dell’associazione ARB guidata da Nora Padilla) ha avuto un riconoscimento pubblico del proprio lavoro, ottenendo dall’amministrazione un regolare salario. Si tratta di una condizione del tutto nuova, osservata con attenzione da altre grandi città del Sud America. L’amministrazione di Bogotà, dopo aver sottratto ai privati il monopolio della raccolta dei rifiuti, intende avviare ora un processo efficiente ed ecologicamente sostenibile: raccolta differenziata dei rifiuti, riciclo, valorizzazione energetica, riduzione delle discariche, contenimento dei consumi. Quale sarà il modello organizzativo della nuova gestione? Quale sarà l’impatto sulla qualità dell’ambiente e la struttura della città? E’ presto per dirlo, ma le prospettive sono di grande interesse. Il pragmatismo e l’impegno politico dell’amministrazione hanno bisogno di un supporto teorico e metodologico. In questa direzione possono essere utili alcune linee di riflessione.
La questione dei rifiuti coincide con quella ambientale. I rifiuti non sono più assimilati e metabolizzati dall’ambiente, dal terreno, dalle acque, dall’atmosfera. Producono un diffuso inquinamento, sono fattori attivi del cambiamento climatico e del surriscaldamento del pianeta, consumano spazio e risorse economiche. Sono un danno ambientale e al tempo stesso economico. La loro gestione incide direttamente sulla qualità del territorio, del paesaggio, della città; e tuttavia continua ad essere una attività settoriale, al di fuori del piano (territoriale urbanistico) e del progetto di architettura.
Il sistema normativo e le modalità di gestione delineano oggi un quadro farraginoso, contraddittorio, disomogeneo, confuso, che aumenta l’inefficienza, l’illegalità, il disordine. La gestione è una macchina imperfetta e oscura di cui sfuggono la struttura e la logistica.
D’altar parte i rifiuti sono stati sempre una risorsa, e il loro riuso, recupero e riciclo fanno parte della storia della città. Quando si compie il loro distacco, il loro allontanamento dalla vita sociale ed economica? Perché il mercato dei rifiuti riciclabili continua ad essere un sottomercato, una economia in parte sommersa, non trasparente, di cui conosciamo ben poco?
I rifiuti per poter trasformarsi pienamente in risorsa economica e ambientale, hanno bisogno di essere al centro di un cambiamento culturale: nelle politiche, nei comportamenti, nella pianificazione, nel progetto. La loro gestione deve entrare in un progetto di territorio e di comunità. Quale che sia la loro provenienza (urbani, industriali, agricoli), pongono la questione della bonifica dei siti inquinati, delle discariche, dei drosscapes. Richiedono bonifica e manutenzione del territorio. Di questo si tratta. Nei confronti della bonifica dei suoli e della gestione dei rifiuti non c’è attenzione da parte delle discipline tradizionali del piano e del progetto di paesaggio e di architettura. La loro drammatica evidenza non ha ancora prodotto una processo di innovazione disciplinare. Mancano le conoscenze, i saperi (dalla biologia alla geologia, dall’ingegneria ambientale all’idraulica, da agraria alla botanica, alle scienze naturali e alla climatologia), e manca anche un aggiornamento circa le tecnologie appropriate e le innovazioni scientifiche.
La questione dei rifiuti e della bonifica delinea una dimensione nuova per il piano e il progetto, apre alla grande scala, la dilata e nello stesso tempo richiede un’ attenzione alla correlazione transcalare. Dal macro al micro, dal territorio delle grandi reti a quello minuto dei contesti locali. Tra le due scale c’è una distanza crescente. Anche in questo risiede la crisi delle discipline del piano e del progetto. Mentre fino alla prima metà del secolo scorso la bonifica era sostanzialmente idraulica e interveniva su terreni naturali per trasformali in terreni agricoli e urbani, oggi l’operazione di bonifica è richiesta da siti industriali inquinati, dismessi e attivi, da discariche di ogni tipo. I processi di produzione e smaltimento dei rifiuti lasciano sul territorio le loro tracce, costruiscono i nuovi paesaggi del drosscape, producono un immenso mosaico di aree degradate e a rischio. La vastità del fenomeno pone complessi e difficili problemi d’intervento. La crescente presenza di wastelands e di browonfields impone ad esempio modalità nuove di manutenzione del territorio, procedure innovative di bonifica in grado di contenere i costi, di arginare e mettere in sicurezza le aree inquinate. Riciclare ma anche preservare, riqualificare ma anche far convivere i territori urbani e produttivi, con quelli contaminati. La ricerca di questo difficile equilibrio è uno degli scenari emergenti della città del XXI secolo.
Il landscape urbanism, ampliando la dimensione dell’intervento progettuale (senza tuttavia trovare le strumentazioni attuative adeguate), ha posto la questione della qualità del territorio nel suo insieme, ma ha affrontato il problema solo a livello di superficie, di disegno di suolo. Non basta. Occorre uno sguardo più profondo, che consideri il suolo in tutto il suo spessore, capace di coglierne la complessità minerale e organica, il suo meccanismo metabolico e la dinamica interna delle sue falde freatiche. Il suolo va considerato nella sua stratificazione e nel suo rapporto con la superficie, con l’irraggiamento, l’atmosfera; come resilienza e come capacità di assorbire calore e anidride carbonica.
William Morris, all’inizio della modernità, assegnava all’architettura la cura della crosta terrestre. Oggi la crosta terreste è fatta di suoli naturali e suoli artificiali, di terreni urbanizzati e di sterminate distese d’asfalto e cemento, di immense superfici di copertura di edifici. Come intervenire su questa crosta aggiuntiva, come renderla partecipe di un progetto di riconversione e di riqualificazione ambientale? Il pianeta funziona come una straordinaria infrastruttura al servizio dell’equilibrio ambientale, un’infrastruttura che riproduce le condizioni che consentono la nostra vita. E’ questa la ragione per cui, da sempre, la natura è presa a modello dall’architettura. Oggi la natura non sembra più sufficiente a riprodurre l’equilibrio ambientale, non è più in grado di metabolizzare gli scarti, i rifiuti, la pressione dei processi insediativi e produttivi. Il mondo è sempre più un ibrido di artificio e di natura. Reti naturali, come i fiumi, sono anche reti infrastrutturali. Le opere infrastrutturali tradizionali, dalle autostrade alle piattaforme logistiche, sono interventi settoriali, corpi estranei al territorio, funzionali alla produzione e distribuzione di beni, ma non alla qualità dell’
Il pianeta è sempre più fragile e ostile, il surriscaldamento ha avviato un cambiamento climatico con effetti negativi sulle condizioni ambientali, i territori sono a rischio e minacciati da catastrofi che con difficoltà potremmo definire semplicemente naturali. Il tempo delle trasformazioni ambientali non è più quello infinitamente lento della geologia. Gli ecosistemi si trasformano velocemente, a volte con grande rapidità. Nel corso del XXI secolo, i mutamenti saranno consistenti e verosimilmente anche catastrofici. Rispetto a questi scenari quale può essere il ruolo del piano e del progetto? Mentre la geoingegneria, accettando il fallimento della politica internazionale nei confronti delle emissioni di gas serra (ovvero i rifiuti dell’energia fossile) e l’inevitabilità di eventi catastrofici, ricerca soluzioni radicali e fantascientifiche, la cultura del progetto sembra essersi bloccata. E’ inerme di fronte alla nuova scala del cambiamento ambientale.
Il progetto non può rinunciare alla politica, non può non contribuire a una trasformazione delle modalità di produzione e di consumo. Non può non essere utopia concreta. Nello stesso tempo deve misurarsi con la nuova scala dei fenomeni, intendendo le città, i suoli, le aree dismesse e inedificate, le reti naturali e quelle artificiali come infrastrutture al servizio dell’equilibrio ambientale, come dispositivi resilienti in grado di riprodurre le condizioni che rendono abitabili i territori. Dobbiamo immaginare territori attraversati da reti infrastrutturali e ambientali insieme. Reti artificiali che si naturalizzano e reti naturali che si rafforzano attraverso la scienza e la tecnologia. Un sistema di grandi reti interconnesse tra loro e con quelle minori dei territori locali. In fondo, la sconnessione tra la scala del tessuto urbano e quella delle reti territoriali, che Françoise Choay individuava come la ragione della crisi dell’urbanistica e dell’urbanità, la ritroviamo ancora più esasperata quando le discipline del piano e del progetto tentano di aprirsi alle tematiche della sostenibilità ambientale.
Eppure è proprio da questa nozione di infrastruttura ambientale che dobbiamo partire, non solo per rendere il territorio più abitabile, ma anche per restituirgli una struttura, una leggibilità. Un sistema di reti infrastrutturali ambientali di grande dimensione che danno forma e continuità ai territori e alle metropoli e sistemi di reti minori alla scala delle comunità, dei cluster locali. Probabilmente è proprio dall’equilibrio tra queste diverse scale d’intervento che potrà svilupparsi il progetto per una nuova modernità.
Oggi è più chiaro, la diffusione urbana si è realizzata in grandi concentrazioni e in forme decentrate e molecolari. L’organizzazione per comunità, per cluster urbani, può essere sviluppata sia nei territori della dispersione, sia nel sistema denso delle metropoli. Il modello dell’energia decentrata, per cui le comunità e i territori producono energia privilegiando le fonti rinnovabili, esemplifica una modalità di intervento urbanistico per ambiti molecolari, dove è possibile ridurre i consumi, gli scarti, i costi di trasporto e di distribuzione. Le politiche per un’agricoltura a Km zero si inserisce in questo discorso, e si lega a un ripensamento a livello locale del sistema distributivo dei mercati di quartiere. Il modello in fondo è quello di Geddes e di Abercrombie: una città metropoli organica, molecolare, in cui i parchi entrano nei quartieri e ne definiscono i contorni, connettendoli tra loro e alle grandi reti della città. Anche nell’Europa continentale del Nord ci si è ispirati a questo orientamento: a Colonia e a Copenaghen, nei piani di Schwarz e di Rasmussen, il verde entra nella città come parco e come agricoltura. Allora non era ancora percepita la questione ambientale, ma quelle reti del verde si ponevano già come infrastrutture per la città del futuro.
Il verde e l’agricoltura come infrastrutture ambientali che aumentano la resilienza e la salute della città e ne riciclano gli scarti organici come compost fertilizzante. E’ questa capacità di assorbire i rifiuti organici trattati che chiarisce ancora di più il ruolo di infrastruttura ambientale del terreno. La città e il territorio per poter sopravvivere hanno bisogno di riorganizzarsi attraverso sistemi interrelati di infrastrutture ambientali alle diverse scale. In questa prospettiva il tema dei rifiuti costituisce, a suo modo, un nuovo paradigma la cui centralità e del tutto sottaciuta.
In che misura i rifiuti sottendono un cambiamento di paradigma? La questione ambientale ha posto negli ultimi anni l’urgente richiesta di ridurre il consumo di energia fossile, di acqua, di suolo, di scarti, ricercando soluzioni alternative e sostenibili. Una strategia in questa direzione non è facile ( come dimostrano l’inefficacia degli accordi internazionali sull’ambiente e il dominio del big oil ), ma implica un profondo cambiamento culturale, sia nei comportamenti delle persone e delle comunità, sia nelle politiche di intervento, nella dimensione locale come in quella territoriale e globale. Il tema dei rifiuti rende evidente questo intreccio e l’esigenza di cambiare concettualmente e operativamente le modalità d’intervento. La gestione dei rifiuti, ora separata dalla pianificazione e dall’architettura, deve essere riportata nei piani territoriali e urbani, e realizzarsi attraverso progetti e opere di qualità. l ciclo dei rifiuti, da processo oscuro, deve trasformarsi in filiera visibile, integrata nella città, nel territorio, nel paesaggio; da danno ecologico, a servizio per il riequilibrio ambientale. In questo senso la gestione dei rifiuti è anch’essa una infrastruttura ambientale, la sue filiere hanno la funzione di ridurre i rifiuti da trasferire in discarica ( e in prospettiva di eliminarli), trasformandoli in risorse attraverso il riuso e il riciclo.
Le filiere dei rifiuti sono complesse e si articolano per tipologia di prodotto, i loro impianti, oggi opere settoriali e misconosciute, dovranno divenire macchine ecologicamente efficienti, opere d’ingegneria, ma anche di architettura. Espressioni come zero rifiuti, dalla culla alla culla, sono obiettivi che richiedono un cambio di paradigma, nella progettazione e nella produzione di manufatti, nello smaltimento degli scarti e nel loro riciclo. La questione dei rifiuti impone una visione d’insieme. Esige che il prodotto sia già pensato per essere riciclato o riassorbito dall’ambiente. Oggi siamo solo all’inizio, il consumo e il processo di produzione rilasciano rifiuti che debbono essere selezionati e trattati prima di poter essere riciclati. Per questo è importante gestire con efficienza le loro filiere, intenderle come infrastrutture ambientali i cui flussi e impianti si distendono sul territorio aumentandone la resilienza e la qualità.
Come progettare queste filiere? L’inizio non può che essere la conoscenza delle condizioni attuali della gestione, una mappatura dei flussi e degli impianti. Il punto di origine sono le unità abitative e di produzione: dal contesto locale, dove avviene una prima differenziazione per tipologia di prodotto, i rifiuti vengono trasferiti in centri di raccolta e trattamento, da qui i materiali riciclabili vengono avviati verso le varie destinazioni dall’industria, all’agricoltura, al settore delle costruzioni, alla produzione di energia. La parte non riciclabile viene trasferita in discariche. Oggi le filiere sono inefficienti, le reti disconnesse, la logistica confusa. I risultati in Italia sono modesti (circa il 50% dei rifiuti finisce in discarica), e l’emergenza travolge la vita di molte città italiane. Le prime mappature ci dicono tuttavia che esiste una relazione necessaria tra la dimensione domestica e locale e quella di area vasta i cui confini superano spesso l’ambito regionale.
L’osservazione delle mappe, o delle immagini satellitari dei territori, ci dicono che le filiere dei rifiuti convivono con l’urbano, intersecano i territori del drosscape, dell’abbandono, del degrado, che esiste all’interno della rete dei rifiuti un intreccio tra cave e discariche, il che dimostra, ancora una volta, la profondità della figura del riuso e del riciclo; che il ciclo dei rifiuti produce anch’esso nuovi drosscapes, lasciando sul territorio aree degradate e discariche dismesse in abbandono. L’osservazione rivela la modesta qualità nell’ architettura e nel design degli impianti, l’assenza di un’ attenzione urbanistica e paesaggistica. Nel mondo, tuttavia, sta emergendo qualche segnale positivo e di speranza: alcune discariche dismesse sono state trasformate in parchi e anticipano un’utopia possibile. La riconversione in grande parco metropolitano di Fresh Kills a Manhattan va in questa direzione.
Per trasformare le filiere del ciclo dei rifiuti in un’infrastruttura ambientale integrata nel territorio e nella città occorre partire da questa mappatura conoscitiva che rivela l’indissolubilità dell’azione individuale e collettiva, la forte correlazione della scala locale con quella territoriale, il dispiegarsi di una responsabilità sociale che inizia inevitabilmente nello spazio domestico, l’affermarsi di una consapevolezza che se non si realizzasse questa responsabilità nei confronti dei rifiuti il pianeta ne sarebbe sommerso.