I devastanti fenomeni di carattere ambientale che inondano le cronache dei media di mezzo mondo sembrano allontanare il pericolo di interpretare le previsioni succedutesi nell’ultimo mezzo secolo -dal limits to Growth [1] fino alle ultime dichiarazioni degli oltre 200 scienziati commissionato dall’ONU [2]- come un inquietante rosario d’anatemi dalle derive millenaristiche.
In tal senso, le gravissime alluvioni registrate in Colombia nel biennio 2010-2011, che hanno coinvolto vaste regioni del paese e in particolare la zone della depessione momposina, sono state l’occasione [3] per stimolare una gamma ben più ampia di contributi e di considerazioni, nella consapevolezza dell’enorme complessità del problema, troppo spesso o frettolosamente liquidato attraverso strumenti limitati, siano essi di carattere normativo, tecnico o progettuale. Sono allora emerse problematiche che affondano radici profonde: dal conflitto sulle risorse strategiche alla relativa marginalizzazione o esclusione di consistenti fette di umanità dall’accesso a beni e servizi, per arrivare alle crescenti diseguaglianze sociali e allo squilibrio a livello normativo, nel progetto e nelle tecniche, tra gli spazi tradizionalmente “urbani” e le aree prevalentemente “naturali”, siano esse di carattere rurale o meno. E’ evidente allora, che le soluzioni alle catastrofi, da prioritarie passano addirittura in secondo piano, se non vengono affrontate anzitutto dalla riflessione culturale le questioni che riguardano il territorio nella sua totalità.
L’America Latina e la Colombia in particolare, possono rappresentare in tal senso un ottimo campo di osservazione, utile anche all’Europa. La netta contrapposizione tra ambiente naturale e urbano, come tra fasce sociali che nella loro drammaticità non sembrano contemplare mediazioni, evidenziano temi e questioni che nel vecchio continente rimangono opachi, confusi nella fitta rete delle infrastrutture, negli spessi strati della contaminazione di materiali naturali e antropici, tra le maglie della città diffusa e delle reti ecologiche.
Questo intreccio di temi si riversa in un progetto che si fa sempre più complesso, ricorrendo a normative e soluzioni tecniche che sembrano porre in corto circuito la coerenza degli interventi, ma la cui fragilità appare poi, drammaticamente, nel momento dell’evento catastrofico. Un circolo vizioso che conduce necessariamente alla ricerca di una possibile ridefinizione dei vincoli, delle norme e delle soluzioni tecniche, dalle quali si esigono performances sempre più esigenti.
Una complessità complicata: l’attenzione al territorio, va allora in contraddizione. Se da un lato è necessario ampliare il raggio d’interesse e tener d’occhio certi fenomeni ambientali a una scala pressoché continentale (se non mondiale), dall’altro lato occorre ricondurre il campo a una sezione territoriale definita, dove sia possibile allentare le maglie e il groviglio di temi e situazioni, dove gli ingorghi possono essere dipanati e dove certi nodi, pur rimanendo tali, possono essere affrontati declinandone i termini di riferimento nelle categorie dello sviluppo e della tutela, per un disegno strategico del territorio.
Caos, da dipanare
Caos: un termine e una condizione, che sembrano definire i termini di un discorso; inteso letteralmente come ampia e tenebrosa voragine, nella quale prima che il mondo fosse, erano commisti gli elementi e la materia primaria: acque, fuochi, terre [4]. Le immagini catastrofiche dei disastri naturali cui ormai siamo tristemente abituati, propongono ammassi di materia come turbolenta miscela di fanghi acque e fuochi, impastate con gli elementi del nostro vivere quotidiano fatto di auto, cartoni, tessuti, plastiche, lamiere, fino a interi edifici, pali e ponti, in una lista che potrebbe esser molto lunga nelle combinazioni tra tali materie e materiali.
Un caos che, oltre i disastri naturali, in America latina andrebbe associato a una sorta di normalità, assuefatta alla catastrofe, specie quella cresciuta e fermentata poco a poco, come condizione stabile del vivere. Lungo chiassose e fumanti autostrade urbane, appaiono caotici i brani di città affollati e turbolenti, così come le persone, le lamiere, le insegne, le terre e svariate forme d’umanità che vi si aggrovigliano tra miseria e sfrenato lusso. Caotico è l’insieme, non solo quello che denominiamo come favelas, villas miseria, tugurios o come marginalità, periferia, informalità. In questo quadro, il grande assente sembrano essere proprio la natura, l’ambiente e il cosiddetto verde, lasciato pericolosamente esposto alle categorie dell’esotico e del supremo, dello sconfinato, dell’inaccessibile e incontaminato.
Del resto, già nel 1798 Francesco Milizia definiva le città “macchine del caos” [5], sdoganando con questo termine una fortunata tipologia narrativa delle configurazioni spaziali e delle esperienze urbane. Più recentemente Giancarlo De Carlo, ispirato dalle figure del pavimento della cattedrale di Otranto, ravvisava nel caos la stessa “forma d’essere del territorio” in una visione cosmogonica che rendeva il territorio stesso “generatore di ogni cosa”: un intruglio di cose e città, di case e di natura di “cui non si può fare a meno” [6]. Una descrizione particolarmente efficace, che amplia la definizione di caos alla sua dimensione territoriale, dilatandone le implicazioni ai diversi livelli sociali, politici e culturali e sconfinando persino in suggestioni dal sapore etico e morale.
Una visione ben diversa da un’altra immagine vista di recente nel padiglione cileno dell’ultima Biennale di architettura a Venezia, nelle due mappe del Sudamerica che mostrano specularmente da una parte la corona dei grandi centri urbani che seguono il profilo delle coste, e dall’altra lo sconfinato mar adentro, il grande spazio vuoto delle Amazzonie, della Patagonia, degli altopiani andini. Una contraddizione in termini, tra uno scenario urbano costruito e denso, e una natura selvaggia in un idilliaco spazio vuoto, prima vera rappresentazione della grande contraddizione del continente dato che tale spazio interno, che poi si ripropone alle varie scale, “vuoto” non è: trame e tessuti biologici, bacini, flussi e di sedimenti sono quelle risorse depredate proprio nell’ambiguità di una descrizione povera, elementare e primordiale, romantica e bucolica.
Un territorio che per tali condizioni e descrizioni, rimane inaccessibile. Mangiato ai bordi da resort e dispositivi che ne lasciano intravedere il carattere maestoso ed esotico, corroso all’interno da chi può accedervi: oltre ai pochi abitanti, i grandi gruppi interessati all’estrazione delle materie prime, alla produzione agricola estensiva, a varie attività di tipo illecito.
Il privilegio d’accesso viene restituito in varie forme, dipendendo dai rispettivi utenti: dalle companies con l’elargizione di “opere per lo sviluppo” alle istituzioni locali, sempre troppo deboli per misurarsi con la portata delle trasformazioni in gioco; dai gruppi per attività illecite (siano essi di tipo criminale comune, come le pandillas criminali o i carteles dei narcos del centro America, o di tipo terroristico, come i gruppi guerriglieri o paramilitari della Colombia), nella “custodia” dei suoi abitanti e delle poche attività esistenti; o, ancora, dalle multinazionali che ne usano le risorse minerarie, agricole o fossili, reinvestendone il ricavato nei grandi centri urbani, in derivati finanziari che fanno ambiguamente emergere le grandi città -ultima tappa della filiera-, come le vere produttrici di sviluppo e benessere, che attirano in un circolo vizioso le popolazioni ancora residenti nel territorio rurale.
Alla fine, ciò che risulta davvero necessario è una rilettura del territorio, come “prodotto storico di processi di co-evoluzione di larga durata tra insediamento umano e ambiente, natura e cultura”; esito “di cicli e strati di varie civiltà” (Magnaghi, 2010). Un’interpretazione questa particolarmente appropriata per il continente latinoamericano e dunque per la Colombia; considerando che non si riflette mai abbastanza sull’impatto generato dalla successione di interventi nel corso degli ultimi cinquecento anni, in quella che è una delle più imponenti opere d’infrastrutturazione che l’umanità abbia conosciuto. Qui, in un arco di tempo relativamente breve, si sono sovrapposti segni e tracce di insediamenti e le opere per l’estrazione e la commercializzazione degli immensi giacimenti di beni locali, sull’onda del mito del progresso e con i dispositivi offerti dal Moderno: ponti, dighe, porti, aeroporti, oleodotti e strade. Operazioni generalmente mutuate da chi – principalmente provenendo dall’Europa-, aveva una conoscenza limitata delle caratteristiche morfologiche, geografiche, geologiche e ambientali dell’immenso subcontinente latinoamericano; e che, reduce dalla recente esperienza dell’urbanizzazione di massa effetto dell’industrializzazione del vecchio continente, credeva di poter risolvere con schemi e dispositivi già collaudati le problematiche locali che col tempo si sono dimostrate del tutto eccezionali. Il risultato di questi processi è stato una conformazione del territorio che va letta per antinomie: urbano-rurale anzitutto, e poi formale-informale; pubblico-privato, ricco-povero; e si potrebbe continuare in tale dialettica per termini in contrasto, tra modelli di sviluppo e prevenzione ambientale.
Tutto ciò è vero anche per la Colombia, un paese a cavallo tra Ande e Caraibi, tra Pacifico e Atlantico, su cui stanno scommettendo i grandi investitori. Qui l’economia cresce a un ritmo del 6% annuo, mentre la posizione di questo Paese, al centro dei due assi nord-sud ed est-ovest dell’emisfero americano, all’altezza del canale di Panama che collega i due grandi oceani, ne fa uno dei punti nevralgici nella mappa strategica di molti interessi militari e politici oltre che economici. Le generose risorse del suolo e sottosuolo divengono il volano per un impetuoso modello di sviluppo, per il quale si è disposti a sacrificare un insieme di valori che in Europa sarebbero considerati non negoziabili, sia che si tratti della distruzione di interi brani di città (come sta avvenendo nel cuore di Bogotá), o della cessione di porzioni di terra a multinazionali, come avviene nelle remote pianure al confine con il Venezuela.
La prevenzione ambientale, intesa come attenuazione del rischio e della vulnerabilità [7] sembra allora divenire un ostacolo allo sviluppo, e viene assunta come male necessario, da affrontare anche con coperture internazionali -anche finanziarie- grazie alle quali possono essere compensati i disastri (specie le ultime disastrose alluvioni del 2010-11) attribuiti alla “forza della natura”, quando invece sono imputabili a una generica, universalizzata, responsabilità dell’uomo. I rimedi a tali inconvenienti sono di alto profilo istituzionale, come il “Fondo de Adaptación”, gestito dal ministero dell’Industria, nato per rispondere alle gravi inondazioni del 2011, la cui attività va dalla ri-costruzione di alloggi in aree a rischio per esondazioni, alla riduzione preventiva del rischio, con la rimozione talvolta di interi villaggi e comunità da zone alluvionali, e la loro ricostruzione a poche centinaia di metri di distanza in genere. Operazioni peraltro spesso prive di coordinamento con le altre istituzioni governative.
Nelle aree urbane, la prevenzione al rischio assume evidentemente caratteri più complessi e talvolta contradditori, sulla base del POT (Plan de Ordenamiento Territorial), il piano regolatore che pure contempla come elemento importante della sua formulazione un layer “ambientale”, da rilevare e valorizzare, sul quale vanno poi ricomposti gli altri aspetti strutturali del progetto urbano. Questo modello concettuale sembra avere il suo prototipo nel lecorbusiano Plan Regulador per Bogotá dei primi anni ’50, lungimirante nella sua visione ma sorpassato velocemente dall’inondazione non tanto delle acque, quanto dell’immensa massa di popolazione (profuga dal conflitto interno, o rurale), che in 40 anni ha sconfitto ogni possibile intento regulador o ordenador, decuplicando in mezzo secolo il numero degli abitanti, ormai arrivati alla soglia della decina di milioni.
Oggi a Bogotá, ormai compressa nei suoi limiti amministrativi che coincidono con quelli geografici del fiume omonimo e della cordillera di cerros, la prevenzione viene intesa anche come densificazione delle aree centrali, onde evitare ulteriore consumo di suolo e salvare i pochi lembi rimasti. Non senza roventi polemiche e dubbi, specie per l’aggressione da parte di gigantesche torri degli imponenti cerros che arginano, come grande mare verde verticale, la capitale colombiana sul suo versante orientale; interventi che, più della mixitè, minacciano una gentrification della città.
La prevenzione, con tutto il corollario dell’attenzione all’ambiente a livello strutturale, sembra ridotta a una serie di opere di contenimento dalla dubbia efficacia (come muraglioni e argini); o, sul versante “culturale”, a un’incerta sensibilità verde (quasi esclusivamente nelle grandi aree urbane), ancora una volta dai tratti contraddittori. Tra gli intollerabili livelli di smog e di contaminazione, l’attenzione ambientale rimane alla fin fine confinata all’educazione per le quotidiane e pazienti pratiche del riciclo di rifiuti e di materiali, esercitate in genere dalle classi medio-alte (a Bogotá non oltre il 20%). Queste operazioni lasciano ampi margini di perplessità, guardando lo stato, l’estensione e la gestione dei grandi centri raccolta rifiuti che, ai diversi stati chimici, vedono frullate le materie biologiche del luogo assieme ai tradizionali scarti della civiltà urbana. Piante e animali, fanghi e rivoli d’acqua prodotti da queste masse, che scendono in modo inquietante nelle valli abitate alle quote più basse.
Caos. Voragine in cui tutto era, prima dei tempi e che tutto sembra riassorbire ancora una volta: senza differenziare.
Il caos, oltre che nell’informe massa del territorio, venne tirato in ballo in tutt’altre circostanze negli ormai lontani anni ‘80 per la descrizione dei processi di pianificazione da Karen Christensen [8]. Nella sua matrice di metodologie e obiettivi della pianificazione, nel quadrante del caos incrociava le lancette degli obiettivi in conflitto e delle tecnologie sconosciute, quale segno di una mancata “individuazione del problema”; rilevando in tal modo l’inefficacia di approcci orientati alla razionalità tecnica, a sua volta supportata dalla presenza di risorse certe e di obiettivi ben definiti. Il ricorso alla categoria concettuale del caos diviene efficace per evidenziare il conflitto tra obiettivi e tecniche, e arricchisce le sue possibili definizioni, aiutando un pensiero eco-logico che eviti ogni tentazione di ricondurre la problematica ambientale a considerazioni solo materiali, svincolate dai processi. L’America latina ci insegna l’importanza delle implicazioni sociali che richiamano anche le questioni etiche, e la necessità di attivare processi di incisiva mobilitazione delle popolazioni.
Tras_formare
La tras-formazione viene intesa come interazione tra disegno del territorio esistente e storie ed esperienze nei loro significati sociali, culturali ed economici, fungendo da setaccio dei segni e dei valori da perseguire attraverso strategie di partecipazione pertinenti ma anche intelligenti, creative e capaci di tras-formare, prima del territorio, le tensioni e le energie esistenti in percorsi e in processi, dunque in progetti. Esperienze come quella di Medellin sembrano confermare l’importanza del ruolo formativo ed educativo della partecipazione sociale ai processi di costruzione del territorio, nel confronto con le competenze professionali e le agenzie istituzionali. Qui il progetto -frutto di tali processi-, appare come tras-formante per la sua capacità di inserire imponenti architetture e infrastrutture che sembrano ricucire e assorbire in modo “naturale”. Una varietà d’istanze e carenze, di tensioni e possibilità,
Tras-formare, come plasmare. Un atteggiamento progettuale che, interrogando il contesto, cerca di evitare quelle pratiche che più favoriscono l’humus nel quale le soluzioni univoche governate da tecnicismi hanno vita facile. Evitando i rischi, espressi da Stefano Munarin [9] come distacco dalla realtà (concentrazione sui dati, e non sul mondo, con la conseguente illusione di una redazione dei piani realizzata esclusivamente negli uffici, “senza uscire se non per verificare le informazioni”); come perniciosa divisione tra chi fa le analisi e chi fa il progetto e come scarsa attenzione per la forma delle cose; che divengono labili per l’assenza di interazione con un discorso di portata più ampia.
Tras-formare, come atteggiamento progettuale vuol dire concentrare l’attenzione sui materiali di carattere artificiale o naturale già presenti sul territorio e che vanno rafforzati, ispessiti, messi a rete; innervati tra loro per mezzo di operazioni che evitino ulteriori violente incisioni e trapianti di dispositivi alieni. In Colombia appare sempre più necessaria la provocatoria affermazione di questo approccio, capace di rimettere in discussione molti luoghi comuni come quello, dominante, dell’idea dello sviluppo dipendente necessariamente da energie e forze esogene, sia che si tratti di grandi investimenti urbani e infrastrutturali, sia delle specie di piantagioni o dei dispositivi per la gestione e il disegno del territorio stesso. Ne è esempio l’autorità di bacino del fiume Magdalena, che ha firmato negli ultimi tempi tre importanti accordi internazionali: uno con la Cina per la navigabilità del fiume (concedendo in cambio la delicata gestione delle acque); un altro con il governo olandese, per progetti di prevenzione e sviluppo; e un ultimo con l’Argentina, con obiettivi simili ai precedenti. Queste operazioni si susseguono nel tempo: furono proprio gli olandesi quelli che nel secolo scorso innestarono il dispositivo dei polder nel delicato sistema predeltizio della depressione momposina, Una tecnica sperimentata efficacemente per i Paesi Bassi, ma che si è rivelata disastrosa nel contesto locale, per la scarsa conoscenza delle dinamiche ambientali, del flusso delle acque e della conseguente scarsa percezione del rischio da parte della popolazione incluse anche le classi amministrative e professionali.
In tal senso, un pensiero eco-logico, è quello che si alimenta della consapevolezza dell’esistenza di materie ed elementi in stato caotico, cui va ricercata una disposizione consapevole secondo quadri accettabili di coerenza. Ciò che va tras-formato (da tra-passare in forme nuove di cose esistenti), è l’insieme di elementi dell’ambiente, risorse e strutture insediative, nelle loro evoluzioni storiche e tipologiche e ai manufatti infrastrutturali. Un atteggiamento progettuale che impone, prima ancora della soluzione, una seria riflessione sulle forme con le quali, sin qui, sono stati modificati tali territori e che indaga sull’interazione e sul funzionamento dei dispositivi urbani e infrastrutturali, che stabilisce gerarchie al loro interno e che cerca relazioni con l’ambiente –ancora- naturale, che va impegnato in una altrettanto possente opera di ri-conoscimento nella quale coinvolgere anzitutto le comunità locali. Probabilmente, i centri di ricerca e le agenzie culturali e di formazione, dovrebbero essere i primi attori di tale progetto, come utile investimento per far emergere valori e, di conseguenza, capacità di sviluppo a partire da una attenta e quotidiana tutela del patrimonio.
E’ per questa ragione che alla tras-formazione va associata la categoria e la pratica dell’interpretazione: operazione niente affatto scontata, in tempi che esigono rapide soluzioni e performances politiche di riscontro immediato. Interpretazione, nel significato etimologico della parola di dare a conoscere, di permutare linguaggi, contenuti, idee e suggerimenti. Ci viene d’aiuto ancora una volta Medellin: assieme alla messa in rete del sistema-città attraverso le grandi infrastrutture, in maniera altrettanto sinergica sono stati inseriti una serie di dispositivi fisici (piazze, biblioteche, infrastrutture) e disposizioni attuative (processi di gestione) capaci di tradurre il “messaggio” di fondo delle operazioni urbanistiche promosse. In altre parole, quelle stesse architetture davano a conoscere, sia prima che successivamente alla loro realizzazione. Cos’altro rappresenterebbero le biblioteche, se non l’articolazione di spazi pubblici, coperti e no, fatti di centri di formazione, scuole, piazze, centri educativi? In quale altro modo può definirsi l’operazione fatta per rendere pubblico (attraverso incontri con studenti, concorsi, eventi pubblici, partecipazione a gare, seminari, conferenze), e permutare il messaggio di fondo della trasformazione della città, la “mas educada” dello slogan del sindaco artefice del suo miracolo?
Trasformare e interpretare. Non c’è dietro tali termini la pretesa di una nuova, ulteriore formulazione di strategie per il progetto di territorio. I fondamenti di questa relazione vanno rintracciati in esperienze già in corso e da riportare alla luce, che non inventano ma reinterpretano filoni culturali preesistenti; da Mumford che evocava la “coscienza urbanistica collettiva” passando, come vedremo, per le sollecitazioni e gli spunti offerti dal Moderno e dal movimento Organico, fino all’auspicata creazione di laboratori e centri “incubatori della conoscenza”, prefigurati dall’economista Albert Hirshmann, che tanto ha avuto a che fare proprio con la Colombia, presso la quale ha maturato non poche delle sue riflessioni sul continente latinoamericano espresse attraverso incarichi, seminari, pubblicazioni .
Ha ancora senso parlare di reti?
Le reti, nella loro declinazione a mo’ di scacchiera, sembrano governare il territorio americano. Oltre che una configurazione fisica, è un modo di essere, di pensare, di strutturarsi come società. Nell’emisfero nord, incarna la stessa definizione democratica dell’homo americanus che, all’interno di una trama essenziale di norme comuni, può sviluppare le proprie capacità e competenze in un suo spazio anche fisico. La maglia del disegno amministrativo coincide nella maglia territoriale che, dal rigido disegno degli States, erede del Land Act costitutivo dei valori della stessa indipendenza, si cala sul territorio e sugli isolati urbani, divenendo strumento universale per scompartire qualunque superficie: una città, un territorio agricolo, uno stato, un continente (Benevolo, 2007).
Nelle ex colonie spagnole il “damero”, nato dalla ley de Indias con la quale si dava facoltà ai conquistadores di fondare città, ha la sua matrice ideologica nella Città Ideale. La semplice sottrazione del suo quadrante più centrale, avvicina la forma del rozzo insediamento coloniale all’idea dell’autocentrica città rinascimentale, più ricca di significati rispetto alla versione nordamericana, dato che l’uniforme reticolo viene costretto ad un centro-simbolo di potere per gli edifici che vi insistono ai suoi bordi. E’ l’hueco, un buco generato dalla sottrazione dell’isolato-perno centripeto/centrifugo, attorno al quale prende senso la costruzione del resto -la città- a partire dai suoi elementi ordinatori: l’edificio religioso, il palazzo del viceré o amministratore, le carceri. Questo spazio vacío, diviene tanto importante da assorbire in sé, nelle sue funzioni di rappresentazione, l’intero territorio. A differenza dell’esperienza nordamericana, nella colonia –specie colombiana- il territorio rimane privo di segni: la maglia urbana si sfalda, man mano che si addentra tra le corrugazioni della potente geografia impervia e insicura, eppure carica di attrattiva per i miti di eldorados, tesori, beni, risorse che custodisce. Il dispositivo della scacchiera o rete, va reinterpretato e arricchito di contenuti e di processi, di nervature, di sequenze. In alcuni tratti, va ispessito nella sua dimensione morfologica e reso tridimensionale, immergendo le trame -ove occorre- nelle viscere della terra per coinvolgere le reti sotterranee, o sollevandole nell’etere per le energie rinnovabili e le torri di distribuzione, che in una visione eco-logica vanno integrate finalmente a un discorso di sostenibilità ambientale e sanitaria.
La rete deve divenire sistema nervoso con l’innesto, morbido e flessibile, tra flussi naturali e artificiali. Va fissata, pur nella sua elasticità, a significativi punti fissi-nodi, sia esistenti sia da consolidare, potendo coincidere in molti casi con centralità a forte contenuto formativo, educativo e culturale richiamate poc’anzi, a loro volta in grado di coagulare le energie della ricerca, e di accrescere la consapevolezza del territorio, contribuendo anche alla sua manutenzione e tutela attiva. La rete come condizione d’essere, va inoltre completata nella sua componente processuale con una serie di disposizioni attuative, oltre che di dispositivi. La rete delle comunità che vivono e attraversano i territori, la rete dei professionisti e degli addetti ai lavori, delle istituzioni e delle associazioni. Altrettanti flussi di comunicazione e di decisioni. Un progetto altrettanto necessario, che va di pari passo alla progettazione delle cose e dei segni nel territorio. Cose, forme processi, segni esistenti.
La rete allora, diviene la struttura eco-logica, imprescindibile attrezzatura per lo scambio di masse (materiale genetico, specie animali e vegetali) ed energie: di relazione tra elementi di diversa indole, tra dispositivi e disposizioni. Questo scambio per il momento, nella concezione tradizionale con cui viene usata la nozione di rete, sembra assestato in una sorta di gioco do ut des, come risarcimento o preservazione. Invece occorre ripartire dalle dinamiche ecologiche dello scambio di masse ed energia ampliandola a quelle in cui è coinvolta l’azione antropica. Ciò permette d’interpretare le trasformazioni, evitando le paralisi della conservazione o del semplice ripristino, e di assumere le ferite, le rotture, gli “sfregi” violenti al territorio come un’alterazione seppur negativa, di tale flusso di scambi che va assunta, e cui vanno date risposte convincenti.
Pensieri eco-logici
I pensieri si affollano su possibili opzioni eco-logiche, con l’intenzione di superare le istanze ambientaliste o delle sostenibilità, alla ricerca di quelle complessità che legano i sistemi organici studiati dalla biologia e dalle scienze ambientali, con la geo-ingegneria, con le sollecitazioni che provengono dall’antropologia e che attengono a caratteri di ordine culturale. Tali opzioni non possono arrestarsi ad un sistema di norme eco-compatibili, o al progetto di paesaggio come semplice attività di consumo del suolo sopportato da quei dispostivi -resort e pratiche agro-turistiche- che vediamo moltiplicarsi in molte regioni della Colombia, in cui il termine “paesaggio culturale” è ormai familiare. Come ad esempio nella celebrata “zona cafetera” -ormai secondo destino turistico del paese-, o nel dipartimento di Santander, in cui il modello costaricense del turismo dagli sport estremi ha prodotto interventi sostanziali sul territorio, invertendo in taluni casi pratiche e modi d’uso.
Patrick Geddes già dal 1914, aveva enunciato alcune ipotesi ecologiche, tanto più interessanti perché coinvolgevano un’idea di evoluzione che, con le parole di Giuseppe Ferraro potremmo forse rendere più comprensibili nella struttura narrativa, come “racconto che intreccia sempre diversamente nel tempo innovazione e memoria”. [10] In Cities in Evolutions il ruolo predominante dell’innovazione è affidato ai cittadini, alle loro volontà e aspirazioni; e il pensiero ecologico maturato nell’educazione al territorio sembra imporsi oggi come necessità, magari sotto forma di nuova narrazione, come racconto delle trame, delle tracce e storie. L’innovazione del pensiero ecologico del territorio dovrebbe maturare con chi vive quello stesso territorio, oltre che con chi se ne prende carico, sia nelle sfere rappresentative delle istituzioni, sia nella sua rappresentazione, che negli ambiti professionali. Lo dimostrano ormai numerose esperienze, dai postulati di manutenzione territoriale promossi sul Po, ai planning kit olandesi per la gestione del rischio inondazione, solo per citarne alcuni. Il potenziale che può sprigionare da azioni di questo genere, potrebbe fare dei beni comuni presenti sul territorio, una grande opera pubblica che, fuori da retoriche ideologiche, può convertirsi in nuovo monumento della contemporaneità, riconoscibile dalla comunità.
Trasformare, interpretando tramite il pensiero ecologico, potrebbe indurre il superamento di quel gap culturale ben espresso da uno dei racconti più emblematici di Garcia Marquez, che nell’immaginaria Macondo, racconta di un posto in cui “le cose erano così recenti, che per menzionarle bisognava indicarle con un dito”. [11] Tale rappresentazione esotica di una natura incontaminata, e innominata, dovrebbe succedere e stimolare piuttosto l’attribuzione di significati alle cose, agli elementi e alle materie, facilitando l’assegnazione di valori agli oggetti naturali così come a quelli di carattere antropico, e alle loro relazioni, flussi, scambi; chiarendo in tal modo il ruolo delle diverse tipologie di insediamenti e delle infrastrutture nel loro rapporto con l’ambiente, coi beni del suolo e del sottosuolo, con le tracce storiche e culturali, coi valori immateriali.
Con queste considerazioni, i pensieri eco-logici si materializzano attorno ai temi della prevenzione, tutela, e sviluppo. Pensieri che per il fisico-scienziato ed ecologista James Kay, andrebbero formulati in sequenze narrative per mezzo delle quali tracciare dei futuri realizzabili, stagliati in base a informazioni sulle possibili opzioni ecologiche. Un simile progetto, inteso con i codici della trasformazione e in un continuo processo interpretativo delle sue caratteristiche –nominate- si esprime allora attraverso la mappatura delle “propensioni” e “predisposizioni” [12], in base alle quali integrare livelli di conoscenza acquisiti e condivisi dai vari soggetti, fissando valori come in una mappa si indica un percorso verso un obiettivo, una meta, un tesoro.
Infrastrutture come catene di dispositivi e disposizioni
Il territorio è solcato da innumerevoli reti, materiali e immateriali, naturali e fisiche. Abbandonando la separazione per funzioni, e interpretando il territorio secondo le suggestioni della caoticità introdotta da De Carlo, le infrastrutture, assi portanti del sistema territoriale, vanno lette in modo sinottico: naturali, artificiali, immateriali, ai diversi stati. Questo modo di intendere le infrastrutture le riposiziona, alterandone la principale funzione di trasmissione lineare cui siamo abituati, quasi fossero delle rette o linee che devono “solamente” collegare un punto ad un altro. Innervano il territorio, lo contaminano, vi si sedimentano. Intrattengono inoltre relazioni tra loro, in logica di stretta interdipendenza per mezzo dei flussi di energia e materia.
Un fiume non è un condotto, lascia sedime lungo il suo tragitto, alimenta vita, genera microclimi ai diversi stati; è “sistema” e non riduttivamente, “corso d’acqua”.
Le autostrade sono formidabili e temibili barriere ai sistemi naturali, biologici in particolare, come anche, nel momento in cui collegano due punti tra loro, opportunità di potenziale sviluppo dei territori che frettolosamente attraversano. Legando, più che collegando. Uno scarto non da poco, ben evidente in una delle più complete pubblicazioni al riguardo: “Infraestructura y sostenibilidad del trasporte” (Morales, 2011), che presenta la chiara intenzione di definire “lo sviluppo dell’infrastruttura e la sostenibilità ambientale [come] temi fondamentali per lo sviluppo del paese”. Qui però il metodo invece appare piuttosto tradizionale, ancorché coerente: definire in termini economici e d’impatto ambientale, oltre che di servizio (nei tracciati ferroviari, nei tunnel, viadotti) le migliori soluzioni, anche “approfittando” -ad esempio negli scavi ferroviari-, dell’energia geotermica o, negli stessi scavi, del possibile immagazzinamento delle scorie nucleari. La sostenibilità viene ancora declinata come riduzione delle emissioni di carbonio, e dunque in un necessario rinnovo del parco auto; mentre per le nuove infrastrutture è evidente la richiesta e la necessità di un trasporto commerciale, di carattere intermodale. Il recupero della navigabilità del rio Magdalena in Colombia va in quest’ultima direzione.
Proporre infrastrutture ad alto valore ecologico, potrebbe significare un loro ampliamento concettuale in grado di comprendere dentro tale categoria, altre tipologie di opere, quali terrapieni, dighe, riprese, mobili e fisse, servizi di reti, impianti energetici, puntuali e a rete; un lavoro negli interstizi lasciati liberi tra l’una e l’altra, e nelle possibilità offerte dalla loro nervatura col territorio. Inoltre, l’accezione ambientale andrebbe declinata con la categoria della sustentabilidad assicurando, oltre le caratteristiche ecologiche anche quelle di altri fattori ugualmente importanti, come quella culturale, generatrice d’identità e soprattutto di appartenenza. Lo spiacevole aneddoto della foratura dei terrapieni nella depressione momposina da parte degli allevatori per l’approvvigionamento nei propri terreni delle acque di esondazione, dalle immaginabili conseguenze, non viene citato nei documenti scientifici per la regolazione del funzionamento idraulico, prodotti dopo le disastrose inondazioni nella zona del 2010-2011 [13], denotando un’evidente carenza delle analisi per ciò che attiene ai comportamenti sociali di fronte alle opere infrastrutturali.
Il disegno delle infrastrutture in funzione del rischio e dell’emergenza introduce la categoria della manutenzione territoriale, in un territorio -quello colombiano- costituitosi in modo discontinuo e per grandi fratture. I gravi disastri ambientali e sociali non possono più essere affrontati con i soli paradigmi della difesa: va intrapresa con decisione una verifica, tra sperimentazione e proposta, dei diversi dispositivi progettuali e delle azioni da intraprendere, che nella “ricerca di nuove relazioni, nell’ordine o nel disordine complessivi, [possa equivalere ad] una sorta di manutenzione periodica che, per sua natura, ha un carattere provvisorio”. [14]
Il disegno del territorio così si fa articolato, diviene complesso nel suo essere dinamico, multidimensionale: assume l’impossibilità del progetto onnicomprensivo, dato che ricorre a una serie di configurazioni possibili, continuamente ricalcolate e ricalibrate, a partire da significazioni che derivano dalle letture sinottiche degli interventi antropici e delle loro articolazioni ecologiche. Costringe nel percorso della ricerca la lettura degli elementi in modo non convenzionale -cronologico o tematico-, proponendo un metodo che si rifiuta di ipotecare il futuro con segni forti e stabili; si avvalora della reversibilità. Si tratterà dunque non tanto o non soltanto di fornire suggestioni inedite, quanto di ricercare di volta in volta combinazioni multiple, elastiche; attente più che alla sostenibilidad, alla sustentabilidad, [15] cioè incorporando le strategie per uno sviluppo coerente.
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Note
[1] Commissionato dal “Club di Roma” al MIT già nel 1972, il noto rapporto sui limiti dello sviluppo prevedeva già l’esigenza di contrastare la crescita continua, a partire dalla formulazione di scenari di crisi derivabili dalle risorse non rinnovabili e dall’inquinamento, e concludendo con la proposta di “rivoluzione sostenibile”.
[2] V rapporto dell’IPCC (Intergovernamental Panel Climate Change) del settembre 2013, che formula quattro scenari in vista della fine del secolo.
[3] M.Tancredi: “Il progetto di territorio in paesi emergenti. Pratiche manutentive e infrastrutture ambientali come strategia”. Dottorato Scuola Superiore G. D’Annunzio, XXV ciclo. Tutor: Pepe Barbieri, co-tutor: Liliana Giraldo, Rosario Pavia, Piero Rovigatti. Coordinatore del Dottorato: Francesco Garofalo.
[4] Dalle definizioni raccolte nei dizionari etimologici. Le numerose teorie collegate al caos, non sono oggetto della presente trattazione.
[5] Principi di Architettura Civile, in: G. Curcio, La città del Settecento, Laterza, Bari, 2008
[6] Giancarlo de Carlo. Lo spazio, la realtà del vivere insieme , in A. Romano, Universale di Architettura, testo&immagine, 2001.
[7] La Colombia come l’Italia ha una storia geologica recente, e deve fronteggiare una serie elevata di rischi: da quello sismico in buona parte del suo territorio (e le principali città sono in tali aree); ai conseguenti tsunami, specie lungo le coste dell’Oceano Pacifico; di frane, smottamenti; di alluvioni; infine per i vulcani attivi.
[8] Pubblicata per la prima volta in un articolo nel Journal of the American Planning Association, nel 1985.
[9] Stefano MUNARIN, Io sono stato qui. L’analisi interrogata dall’esperienza, in M. AGNOLETTO, M. GUERZONI [a cura di], La campagna necessaria. Un’agenda d’intervento dopo l’esplosione urbana, p. 32. Quodlibetstudio. Macerata, 2012.
[10] G. FERRARO, Un Manuale di educazione allo sguardo, in P. DI BIAGI [a cura di]: I classici dell’Urbanistica moderna, Donzelli, Roma, 2009.
[11] Dalla novella “Cent’anni di solitudine” (tit. orig.: Cien años de soledad; prima edizione:1967). Mondadori, 2009.
[12] Sono alcune delle considerazioni, condivise, tratte dalla tesi di dottorato in Georisorse e geotecnologia di Alberto Pistocchi dal titolo: “Il ruolo della modellistica delle georisorse nei processi di pianificazione territoriale”. Bologna, facoltà di ingegneria, XIII ciclo.
[13] Come rilevato personalmente da un intervista-riunione effettuata con tecnici addetti al lavoro per il piano della sub-regione della Mojana, il 17/02/2012 presso la sede Nazionale di DNP, Bogotá.
[14] Adriana Carnemolla, Paesaggio/Territorio, in «PPC», La manutenzione del territorio, 1998 n. 16.
[15] Sustentabilidad, ricordiamo, ha la sua accezione più completa in quella di Desarrollo Humano Integral y Sustentable, ormai usato istituzionalmente in vari Paesi Latino Americani. Lo usa l’ONU per progetti di sviluppo sociale (vedi regione di Tabasco, in Messico: http://www.undp.org.mx) o le istituzioni accademiche, come l’Universidad de La Salle in Colombia, che ne fa il suo programma formativo, declinandolo nelle diverse discipline definendolo come un vero e proprio programma educativo e percorso di ricerca «socialmente partecipativo, culturalmente appropriato, tecnicamente pulito, ecologicamente compatibile, economicamente viabile e sostenibile, politicamente impattante ed eticamente responsabile e pertinente» (Gruppo di Ricerca interdisciplinare DHIS, El desarrollo Humano Integral y Sustentable: una lectura desde las áreas del conocimiento en la Universidad de La Salle, pubblicato sul numero 46 del 2008 della rivista ufficiale della stessa Università). Nel percorso di ricerca, viene declinato “sostenibilidad tropical”, nell’intento di darne una caratterizzazione attenta alle istanze contestuali.