Il Parc de La Villette ha appena festeggiato il suo trentesimo compleanno (1983-2013), è un'esperienza che ha segnato un'epoca e, allo stesso tempo, non invecchia e continua a far parlare di sé.
La bibliografia dedicata si aggiorna continuamente, e nel 2014 sono in uscita almeno due monografie che lo vedono protagonista: una di Bernard Tschumi per Artifice Books on Architecture (London), e una di Cesarina Siddi per La Commune (Paris). E proprio da quest'ultima deriva questo contributo.
La storia del Parc de la Villette comincia molto prima del 1983, ufficialmente il 24 ottobre 1973 con un ambizioso comunicato stampa:
“... Il Governo ha deciso di stabilire la fine delle attività de La Villette a partire dal 15 marzo 1974.
E potrà essere avviata, dal 1974 sui terreni divenuti disponibili, un'operazione urbanistica di grande portata.
Il contenuto preciso di questa operazione sarà definito dal Governo in relazione con le autorità parigine prima della fine dell'anno.
Comprenderà anche abitazioni, specialmente di carattere sociale, aree riservate alle attività economiche e un importante volume di strutture sociali e collettive.”[1]
Nel 1976 un primo concorso per la riqualificazione di tutto il settore urbano de La Villette che certamente ha influito nella definizione del complesso programma alla base del successivo concorso, bandito nel 1982 come uno dei Grand Projets promossi da François Mitterand.
Questa seconda competizione internazionale riscuote un grande interesse da tutto il mondo: 805 iscrizioni da 41 paesi, 472 progetti consegnati. Dopo una prima seduta di valutazione (6-12 dicembre 1982), la giuria seleziona nove ex-aequo ai quali chiede di approfondire la proposta: Gli architetti Bernard Tschumi, Rem Koolhaas (OMA), e il gruppo di giovani Andreu Arriola, Carmen Fiol, Elisabeth Galì e Marius Quintana. I paesaggisti Bernard Lassus, Gilles Vexlard, Alexandre Chemetoff, Sven Ingvar Andersson, Bakker & Bleeker, e infine l'unico team misto (solo in termini di capogruppo, perché tutti i gruppi prevedevano al loro interno un paesaggista), quello costituito dall'architetto Jacques Gourvenec e dal “progettista orticoltore” Jean-Pierre Raynaud.
Seconda riunione, 24 - 25 marzo 1983: Bernard Tschumi è proclamato capo progettista del Parco. Inizia una grande avventura, quella di un progetto criticato prima, ignorato in certi contesti, apprezzato, intensamente vissuto e riconosciuto come unicum poi, per il suo offrire qualcosa che gli altri parchi non propongono.
Racconta Bernard Tschumi che sono stati necessari quindici anni per considerare il Parc de La Villette un vero luogo urbano, un pezzo di città: cinque diversi Governi, alcuni Primi Ministri e due Presidenti, una vera lotta…
Già, un pezzo di città, perché - a dispetto del nome - il programma e la scala (cinquantacinque ettari) chiedevano tutto fuorché un parco nel senso stretto e tradizionale del termine.
E da questo equivoco, nel quale è caduto un gran numero di partecipanti (che hanno focalizzato la propria proposta sulla “natura” piuttosto che sulla “città”), derivano anche molte delle critiche ricevute - soprattutto nei primi anni - dal progetto di Bernard Tschumi.
E il libro è partito da qui, proponendo una serie di conversazioni con alcuni protagonisti diretti (Bernard Tschumi, Luca Merlini, François Barré, Vittorio Gregotti, Andreu Arriola e Carmen Fiol, Jacques Martial) e indiretti (“interlocutori privilegiati” per il loro ruolo di ricercatori, docenti e progettisti, Cristiana Mazzoni, Yannis Tsiomis e Alexis Meier), su alcune questioni che il Parco mette in gioco e che sono (ancora) oggi fondamentali per l'architettura e il progetto urbano.
Il libro le affronta attraverso due concetti centrali: tempo e dibattito, considerati da un doppio punto di vista. Il primo è quello che li riferisce direttamente all'esperienza del Parc de La Villette; il secondo li riporta a una dimensione generale, disciplinare e culturale.
Questa impostazione ha permesso di guardare al Parco - alla sua esperienza di progetto e di vita - in termini fertilmente prospettivi, evidenziando il suo grande valore urbano o, per meglio dire, metropolitano: siamo, infatti, di fronte al primo luogo che è stato capace di aprire Parigi alla sua banlieue, di proiettarla sulla grande scala. Questo fatto significa riconoscere al Parc de La Villette lo statuto di luogo fondatore della metropoli, di luogo eccezionale le cui dinamiche racchiudono risposte, stimoli e quesiti d'indubbio interesse per tutte le operazioni di programmazione e disegno della Parigi di oggi e di domani.
E proprio queste riflessioni hanno portato il libro a diventare la base di un progetto internazionale interdisciplinare (Architettura e Urbanistica, Scienze Umane e Sociali, Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione) di ricerca applicata, che propone un approccio innovativo allo studio dei fenomeni urbani, da sperimentare proprio attraverso il Parc de La Villette come primo caso di studio [2].
E allora ecco il Parc de La Villette raccontato attraverso alcuni estratti delle conversazioni inedite e delle ricerche e riflessioni che il libro proporrà.
Innanzi tutto la sua forza, quella legata alla sua identità e al suo ruolo nell'apertura di Parigi verso la periferia, è efficacemente spiegata da Cristiana Mazzoni e Yannis Tsiomis: “Il Parco ha trent'anni: è molto attuale, e lo sarà tra vent'anni. Perché? Perché propone una forte identità locale e allo stesso tempo si innesta sul territorio più ampio. Propone alla città e alla metropoli una figura atemporale che articola non solo il materiale e l'immateriale, ma anche la scala della prossimità e della distanza. Come progettisti e insegnanti abbiamo l'obbligo, oggi, di prendere in conto questa moltiplicazione caleidoscopica degli elementi del progetto. Non si tratta di pensare l'architettura nel progetto urbano o, vice versa, il progetto urbano come opera d'architettura. La questione del “progetto metropolitano” è recentemente emersa con forza per dimostrare la necessità di costruire, attraverso il progetto, delle storie che racchiudano sia la dimensione particolare sia la dimensione estesa: una narrazione costituita da immagini sia concettuali sia concrete, che descrivano la complessità del luogo nel quale s'inscrive la riflessione, la sua storia, la sua topografia così come le pratiche collettive e identitarie dei suoi abitanti. È là che risiede la forza del progetto del Parc de La Villette e la sua attualità... La Villette poneva in realtà la questione del rapporto tra centro denso e metropoli. Anche se in modo timido il Parc de La Villette è stato l'avvio di ciò che si vive oggi: superare il périphérique, aprire Parigi verso la periferia e viceversa... ”.
Il Parco come una “figura atemporale” che “non invecchia”, ci offre degli spunti di riflessione teorica e operativa sulle nozioni di tempo e temporalità. Ancora qualche parola di Yannis Tsiomis: “Come progettista, io devo pensare al tempo – sociale e spaziale – e alle temporalità come entità plurali. Questo non è astratto! È concreto. Una tale riflessione fa parte dell'approccio di chi lavora sull'urbano. [...] La questione delle temporalità della città, temporalità spaziali, politiche e della società. Come ciascuno sa, la questione è fatta di rotture e di continuità. Trent'anni possono contare molto per la storia, ma molto poco per lo spazio. Da qui il paradosso: mentre gli usi cambiano, le forme dello spazio sembrano rimanere immutabili. Ma lo spazio rimane veramente lo stesso se gli usi evolvono?”.
Temporalità spaziali e della società in relazione alle politiche della città per dire che “uso” è un altro concetto fondamentale, perché ci permette di esplicitare il valore del Parc de la Villette come luogo fondatore di nuove pratiche, e i suoi trent'anni sono – come ha efficacemente spiegato Luca Merlini – “un periodo d'importanza particolare, perché per un progetto urbano come La Villette, trent'anni è il numero di anni – tra le idee che sono servite a sviluppare il progetto e il modo nel quale la città ha risposto - necessari a che, in un certo senso, non ci siano più rapporti diretti tra i diversi protagonisti della sua creazione. Tutte le condizioni sono cambiate. [...] Un'altra cosa interessante è vedere come in altri progetti di Bernard Tschumi ci sia sempre una specie di fedeltà a certe cose che erano ne La Villette. Quindi le idee hanno continuato ad appartenere a Tschumi, mentre La Villette si può dire che non appartenga più a Tschumi e appartenga alla città. Per fortuna ora appartiene alla città di Parigi.”.
E Jacques Martial rinforza quest'affermazione: “Io credo profondamente che il Parc de La Villette, così com'è oggi, sia un luogo pensato per l'umano e non per le opere. Non è museale, è in movimento, respira, freme, è un organismo vivente e non fissato nella sua struttura, all'interno del quale si deve entrare e agire. Il Parco respira, ha una capacità di resilienza che gli permette ancora oggi di porre domande essenziali. Le risposte cambiano con il tempo, ma le domande che lui pone all'essere umano, che lui pone alla società, che pone al potere politico, che pone al progetto di un Ministero della Cultura e della Comunicazione [...] ci obbligano, ci invitano a riposizionarci, a reinterrogarci sulle nostre convinzioni, su ciò che vogliamo e pensiamo, quali modelli della società, culturali sia nel senso della creazione artistica sia nel senso sociale del termine, noi auspichiamo per oggi e per domani. [...] Il Parco può essere letto solo all'interno di questa relazione, di questo dialogo, di questo dibattito permanente che lui apre tra l'essere umano intimo, quello sociale e la società.”.
Il Parco ha dunque permesso e stimolato questo dialogo ricco e continuo tra lo spazio fisico e le persone che se ne appropriano. Ma riconoscergli questo valore come luogo fondatore di nuove pratiche significa considerare gli “utilizzatori” nell'approccio al progetto, attribuirgli un ruolo strutturale.
Questa è un'altra sfida importante da affrontare nel momento in cui si riflette sulla Parigi del futuro, una sfida che Bernard Tschumi ha accettato e gestito trent'anni fa con una strategia che oggi possiamo dichiarare assolutamente riuscita e che ci permette, dopo trent'anni, di guardare ancora al Parc de La Villette come luogo di sperimentazione. E François Barré lo conferma: “La questione, quando lei dice che La Villette è un luogo di sperimentazione, sta tutta qui: c'è un momento in cui il progetto inizia a funzionare. Vale a dire che ci sono state persone che volevano imporre qualcosa, i promotori del progetto, lo Stato, l'Établissement Public du Parc de La Villette, Bernard Tschumi. Da parte di tutti c'erano delle imposizioni. Poco importa se le persone non erano d'accordo, si è fatto. E poi, a un certo punto non ci sono più le persone di potere che fanno sì che esso diventi un'opera aperta e qualcosa che funziona, c'è l'uso. È qualcosa di molto complicato, di molto difficile da analizzare, ma che fa sì che tutto a un certo punto funzioni.”.
Le parole di Barré pongono l'accento tanto sull'importanza del concetto d'uso nelle operazioni di pianificazione e progetto urbano, quanto sulla sua complessità intrinseca legata al fatto che esso si esprima attraverso una figura (l'utilizzatore) portatrice di un significato e di pratiche che sono allo stesso tempo individuali e collettive.
La cultura disciplinare francese si dimostra molto attiva e sensibile rispetto al tema, e particolarmente interessante è il volume TRANSFORMATIONS DES HORIZONS URBAINS. Savoirs, imaginaires, usages et conflits, curato da Frédéric de Coninck e José-Frédéric Deroubaix [3], che nell'introduzione spiegano: “Se si parla di sapere d'uso o di competenza d'uso (Bonnet, 2006), bisogna sottolineare che l'osservazione precisa e localizzata degli usi della città e degli spazi pubblici mette in evidenza che gli utilizzatori non restano mai passivi davanti alle sistemazioni che sono loro proposte. I differenti casi che si trovano in quest'opera mostrano che gli utilizzatori non adottano uno spazio sino a che non arrivano ad addomesticarlo (Haddon, 2002), a farne qualcosa che è a loro familiare, qualcosa che si confà alle pratiche che essi vi vogliono sviluppare. [...] Tra l'orizzonte del progetto portato dai pianificatori e dagli altri fornitori di servizi urbani e gli orizzonti delle aspettative degli utilizzatori e abitanti, le tensioni sono talvolta forti”.
Tra la documentazione di supporto al libro, la scelta di citare questo lavoro è legata al fatto che uno dei casi proposti sia proprio quello del Parc de La Villette e le riflessioni che si accompagnano alla sua trattazione offrono alcune interessanti conferme ai concetti chiave che il libro propone e alle prospettive di ricerca che esso ha aperto.
A parlarci del Parc de La Villette è Anne Jarrigeon [4], che sviluppa il tema del rapporto tra “programmazione” spaziale e “appropriazione” sociale, analizzato attraverso un confronto tra tre spazi pubblici parigini: il Parc de La Villette, Beaubourg e Les Halles.
Consideriamo innanzi tutto le riflessioni specifiche su La Villette, che ci riportano alla capacità di Bernard Tschumi di introdurre efficacemente il tema dell'uso all'interno della sua strategia: “L'evocazione centrale dell'esperienza dell'utilizzatore futuro è sintomatico del progetto di Bernard Tschumi posto in termini di appropriazione e improvvisazione”.
E ciò non va riferito al solo progetto per il Parc de la Villette, ma meglio all'idea di architettura su cui Tschumi ha fondato tutto il suo lavoro (teorico e progettuale): “Un'architettura concepita prima di tutto come «dinamica», come movimento dei corpi nello spazio, come programma e attività, e dove la lettura dell'opera si articola intorno a queste due nozioni complementari che sono l'uso e lo spazio.” [5].
L'affermazione della Jarrigeon apre il paragrafo dedicato al “Paradigma dell'appropriazione e il suo strumento, lo spazio libero”, ossia al valore delle pratiche d'uso. Per comprendere quali e come si siano sviluppate a La Villette dobbiamo però riassumere la strategia proposta da Tschumi, in termini di organizzazione spaziale e d'interpretazione del programma.
L'organizzazione si sintetizza nella sovrapposizione di tre sistemi formali: punti, linee e superfici. Ciascuno ha una specifica autonomia, ma è nelle relazioni reciproche, nell'equilibrio spaziale e di senso che tra essi si è instaurato che va ricercata la chiave della riuscita del progetto, da leggersi proprio nei termini delle pratiche d'uso che un pubblico sempre più ampio ha attivato. Ma attenzione a come s'intendono i concetti di relazioni reciproche e di equilibrio: per Tschumi, infatti, “La Villette – e questo è un punto fondamentale – stabilisce tutta una serie di conflitti tra la trama delle folies e gli altri elementi che costituiscono il parco. La città contemporanea è prima di tutto il luogo dell'inconciliabile. E questo è ciò che cerca di esprimere la sovrapposizione delle tre trame del parco.” [6]
Il concetto di programma è ovviamente imprescindibile dal progetto di architettura, ma quanto e come il programma influenza gli esiti formali dell'opera architettonica?
Nel caso specifico del concorso internazionale per il Parc de La Villette il programma ha assunto un significato particolare. Negli intenti del bando [7], infatti, c'era la volontà di attivare un'esperienza metodologica che avrebbe dovuto tradurre la volontà di creare un nuovo tipo di spazio urbano: la constatazione di partenza fu che il lavoro sugli spazi pubblici in termini di contenuto, di usi e di concezione stava progredendo troppo lentamente. Era quindi arrivato il momento imprescindibile di sperimentare un nuovo tipo di spazio pubblico nell'ultima grande area disponibile a Parigi, uno spazio pubblico che non fosse né un giardino paesaggistico, né un parco classicista, né un Luna Park, né un pezzo di città tradizionale. Nella sua predisposizione è stata seguita una procedura empirica fondata su un bilanciamento tra riferimenti e innovazione, strutturato intorno a tre elementi: una ricerca approfondita su un certo numero di spazi pubblici caratterizzati da un interessante mix tra usi, atmosfere e attività; un'analisi delle funzioni presenti, e delle loro recenti evoluzioni, nei parchi e giardini tradizionali, in rapporto al loro ruolo culturale e urbano; una ricerca sistematica di un equilibrio, all'interno del Parc de La Villette, tra attività diurne e notturne, estive e invernali, al chiuso e all'aperto, tra sport, gioco, benessere, cultura, il tutto al fine di aprire il Parco al pubblico più ampio e di favorire le forme più diverse di uso e appropriazione. Da questa procedura è emersa una domanda senza risposta: come può essere programmata l'innovazione? La conclusione è stata che per il Parc de La Villette l'innovazione sarebbe stata più una questione di risultato che di postulato...
Da queste premesse, il programma dettagliato è stato strutturato come insieme di attività organizzate in cinque capitoli: attività principali; attività d'accoglienza, di servizio e commerciali; amministrazione; circolazione; logistica. Le attività principali, quelle che avrebbero definito il carattere del Parco, sono state ripartite in quattro temi principali: spettacolo; scoperta e iniziazione; sviluppo del corpo; ristoranti.
Questa sintesi, proposta da Silvie Barrau nel catalogo ufficiale del Concorso, tralascia però alcuni “dettagli” tutt'altro che secondari, che ben ha raccontato Bernard Tschumi in Supercrit #4 [8]: “Il cliente ci aveva dato un programma che era lungo 500 pagine, scritto da cinque commissioni diverse, nessuna delle quali si era coordinata con le altre. Così, per una commissione, il Parc era a proposito degli anziani sulle loro sedie a rotelle, a prendere il sole. Per un altro, si trattava di bambini che giocano a calcio. Ancora per un'altra commissione, era a proposito della continuazione della città europea e della creazione di urbanità. La quantità di denaro stanziata per il progetto statale e date le diverse parti politiche coinvolte, faceva sì che nessun organismo da solo avrebbe potuto controllare l'intera cosa. È possibile che la griglia di punti che ho utilizzato avrebbe portato ciascuno a pensare: «Oh, possiamo fare qualunque cosa.» Ciascuno poteva leggervi qualunque cosa. Ma, contemporaneamente, la griglia ci diede, come architetti – e qui veramente non dovrei dirlo – un potere incredibile per trovare un comune denominatore a programmi spesso conflittuali tra i diversi organi politici, utilizzatori e abitanti locali. Così, quando scelsi la griglia di punti, fu realmente come strategia più che come progetto.”.
Appare quindi chiaro come i temi dell'uso e dell'appropriazione siano stati centrali già nel programma definito per il concorso, e le parole di Tschumi aiutano a comprendere un primo e generale valore della sua scelta di interpretarlo con una strategia fondata su un riferimento alla “pianta libera” di Le Corbusier.
Ai punti è assegnato il doppio ruolo di “attivare” lo spazio e “marcare” il territorio. E i punti sono le rosse folies, che nascono da un cubo di dodici metri di lato e attraverso la combinatoria si trasformano in ventisei edifici caratterizzati da una completa flessibilità che li porta a poter ospitare tanto le diverse attività previste dal bando quanto l'attivazione di nuove: edifici concepiti come “architetture senza uso”, che quindi possono favorire l'attivazione di usi non programmati e conseguentemente un'appropriazione senza limiti.
Ma gli elementi più rappresentativi in termini di “spazio libero” come strumento paradigmatico di “appropriazione”, appartengono al sistema delle superfici e sono i due grandi prati, La Prairie du Cercle e la Prairie du Triangle. A lungo gli elementi più criticati, appaiono invece oggi come le “cartine al tornasole” del successo del Parc de La Villette. Ancora qualche parola di Bernard Tschumi, che nell'intervista concessa ad Alain Orlandini racconta [9]:
“Un collega ha detto un giorno che i prati del parco erano «piatti e senza immaginazione». No. Essi sono volontariamente denudati per rispondere alla densità della Promenadecinématique, e permettere quindi un'appropriazione «libera» delle loro superfici. Un'appropriazione libera, vale a dire un'appropriazione attraverso un certo tipo di attività che per noi era impossibile immaginare a priori. Bisogna mettere in atto delle condizioni d'uso, e non condizionare l'uso.”.
La Promenade cinématique, appena citata come contrappunto ai grandi prati, tra gli elementi lineari è quello che ci permette di esplicitare un altro concetto chiave della strategia, e che esprime un'altra declinazione dell'importanza data all'esperienza dell'utilizzatore: il movimento. Concepita con un riferimento alla sequenza cinematografica, come successione di diversi giardini, ciascuno caratterizzato da una particolare atmosfera: “La Promenade cinématique è in realtà l'unico elemento casuale a La Villette. Ma la casualità, per definizione, è vulnerabile al cambiamento; è molto difficile mantenerla in architettura in quanto non può essere giustificata e va contro ogni tipo di logica in termini di costruzione o di costo. A livello concettuale, la casualità può essere meglio applicata a eventi, azioni e programmi piuttosto che alla forma fisica stessa. Così a La Villette il sistema di forme fisiche è lì per consentire che il casuale - l'evento – abbia luogo" [10].
La neutralità dello spazio, voluta da Tschumi per permettere qualunque tipo di utilizzo, ha prodotto al meglio questo effetto. La neutralità ha, infatti, generato delle figure “atemporali” che, in quanto tali, hanno la capacità di accogliere senza traumi l'evoluzione delle aspettative degli utilizzatori (sia come individui, sia come collettività). La forza di questi elementi si è quindi tradotta in grande attrattività, data dalla capacità di favorire l'appropriazione sociale, intesa sia come appropriazione spontanea di un pubblico fortemente eterogeneo (per provenienza, età, modalità di fruizione...), sia come appropriazione stimolata, legata cioè all'organizzazione di eventi temporanei collettivi, periodici e non.
E quindi la sua idea d'interpretazione di programma come attivazione di condizioni d'uso che - se anche ha trovato nei grandi prati la massima espressione - ha caratterizzato tutto lo sviluppo del progetto, è il concetto intorno al quale possiamo leggere il valore attuale e potenziale del Parc de La Villette: un luogo paradigmatico per l'interpretazione dei fenomeni urbani da un punto di vista sociale e societale perché, come ha sottolineato Jacques Martial, non perde la capacità di porre domande essenziali.
E sono queste domande che ci riportano alle riflessioni della Jarrigeon che, con altre parole, le riassume in termini generali e di prospettive di ricerca attraverso un interrogativo paradossale che risuona sempre più frequentemente all'interno dei domini disciplinari della produzione urbana: “In quale misura possono essere «programmate» delle «appropriazioni sociali»?” [11].
La sua forza metropolitana, la sua relazione con il tempo, la sua capacità di accogliere i cambiamenti spaziali, sociali e societali, sono solamente alcuni degli elementi che fanno del Parc de La Villette un luogo eccezionale, ma sono quelli che- come dichiarato in apertura - gli conferiscono indiscutibilmente lo statuto di luogo fondatore della metropoli di oggi e di domani. Questo significa che questi elementi diventano i temi prioritari da indagare moltiplicando le scale, le temporalità e gli sguardi disciplinari d'osservazione, ossia le questioni che hanno trasformato la monografia nella base di un progetto internazionale interdisciplinare di ricerca applicata che ha il Parc de la Villette come primo caso di studio.
Lasciamo alla Jarrigeon la chiusura di questo racconto, perché le riflessioni di apertura del suo contributo riassumono perfettamente il senso del libro e anticipano (quanto basta) il progetto di ricerca che ne è derivato: “Allorché circolano e sono discussi i progetti della Grand Paris, il ruolo della programmazione spaziale nella conformazione della vita sociale merita di essere indagata. L'analisi dei dibattiti e delle numerose procedure di concertazione, sistema della partecipazione, ormai utilizzati nei progetti urbani e architettonici è necessaria ma non copre la gamma di questioni sollevate dalla considerazione degli «usi». Il confronto dei progetti con la loro realizzazione e le modalità della loro «appropriazione» sociale presuppone un'apertura degli approcci e un certo sguardo retrospettivo.” [12].
Ultim'ora: Il Parc de La Villette al Centre Pompidou...
Tra le attenzioni speciali che il Parc de La Villette continua a ricevere non si può non segnalare un evento speciale inaugurato al Centre Pompidou, alla Galerie sud, il 28 aprile e aperto al pubblico dal 30 aprile al 28 luglio 2014: «BERNARD TSCHUMI, CONCEPT & NOTATION», un'esposizione che costituisce la prima grande retrospettiva dell'opera di Bernard Tschumi [13], costituita da circa trecentocinquanta tra disegni, schizzi, collages e plastici inediti, da una serie di documenti fotografici e video e da diciotto “tavoli di riferimenti”.
La mostra, con un allestimento chiaro e coinvolgente progettato dallo stesso Tschumi, offre al visitatore un percorso di conoscenza della sua figura d'intellettuale profondamente affascinato dalle contaminazioni disciplinari e dalle sperimentazioni, che ha saputo creare una relazione continua intensa e viva tra le diverse esperienze teoriche, progettuali e accademiche che hanno caratterizzato i suoi primi quarant'anni di carriera.
“Concetto & Notazione” riassume la sua visione dell'architettura, fondata sull'idea che essa sia evento e movimento dei corpi nello spazio, e quindi non sia importante in quanto forma ma lo sia come forma di conoscenza e come materializzazione di un concetto: “ Io sono totalmente a favore della ricerca di modi per generare vita urbana, o di trovare modi attraverso i quali l'architettura possa essere qualcosa che fa piuttosto che apparire come qualcosa; a me interessa ciò che fa.” [14]
E per Tschumi il concetto si nutre di argomenti che trovano la loro origine nella filosofia, nel cinema, nelle arti plastiche, nella letteratura, e si traduce in termini architettonici attraverso la notazione, intesa come sperimentazione di forme di rappresentazione capaci di esprimere al meglio l'architettura come interazione tra evento, spazio e movimento.
L'esposizione comincia con un'introduzione dedicata alla biografia e al contesto culturale (attraverso il primo tavolo di riferimenti, “1968 e la città”), ma soprattutto con una video intervista registrata il 3 febbario 2014: Bernard Tschumi risponde alle domande dei curatori Frédéric Migayrou (direttore aggiunto del Mnam-Cci) e di Aurélien Lemonier, un'ora di conversazione in cui sono ripercorsi i temi e i concetti fondanti del suo lavoro, le relazioni reciproche, il senso della mostra.
L'intervista comincia con le domande: “Come vede una mostra che si pone la questione di una visione retrospettiva del suo lavoro? Come vede la questione del tempo?” [15] E “Come definirebbe il primo periodo del suo lavoro, caratterizzato da una negatività critica e dall'interesse verso la non-architettura?” [16].
Tschumi inizia il racconto, con la sua ben nota eccezionale capacità di coinvolgere l'interlocutore e il pubblico, la capacità di portarlo a seguire il suo pensiero espresso con chiarezza e passione. E in un'ora d'intervista riesce a rendere partecipe lo spettatore del suo percorso ricco di contaminazioni che spaziano dalla letteratura al cinema, con il fondamentale contributo di Eisenstein alle sue ricerche sulla notazione. Dall'arte concettuale, con l'incontro con Robert Longo, David Salle, Sarah Charlesworth, che condividevano la stessa idea di un corpo schizofrenico preso nella tensione del movimento della città, quindi proiettato nello spazio-tempo. Alla filosofia, soprattutto con Michel Foucault e Jacques Derrida, che hanno avuto un ruolo fondamentale nell'esperienza del Parc de La Villette: “Come si è arrivati al cambiamento degli anni '80, quando lei non aveva ancora costruito nulla, aveva una visione concettuale dell'architettura e aveva appena vinto il concorso per uno dei Grands Travaux, uno di quelli che hanno avuto il maggiore impatto su Parigi e la Francia: «Le Parc de la Villette»?” [17]
E ancora, “Con l'idea del grammé che viene da Derrida, e quella del punto rosso, si tratta di capire qual è il senso dell'architettura. «La Villette» ha permesso di passare a un'altra idea della notazione della scrittura architettonica e a ciò che sarebbe stata chiamata decostruzione in architettura” [18] e il riferimento alla pubblicazione de La Case vide con il saggio di Derrida “Point de folie – Maintenant l'architecture”: e qui Tschumi spiega il senso e la complessità dei sistemi spaziali punti – linee – superfici, il valore e il senso del concetto di movimento, la sua proposta di realizzare una sequenza di giardini coinvolgendo nella progettazione scrittori, cineasti, poeti e certamente filosofi, con l'invito a Derrida...
La conversazione prosegue con l'idea di architettura dinamica, l'esperienza di venti concorsi internazionali di progettazione tra il 1985 e il 1995, che riportano il suo interesse sulla questione dell'urbano. Il tema del programma con concetti quali “cross-programma” e “trans-programma”. Il concetto d'involucro che “porta a due cose. La prima, il ritorno alla forma, ma anche alla possibilità d'interazione col contesto. Stranamente, specialmente perché proviene da un architetto totalmente concettuale, lei reintroduce questa idea di forma, per farla dialogare col concetto” ...[19]
E si passa alla questione dell'origine, dell'iscrizione nello spazio e nel territorio, con il Museo dell'Acropoli, per arrivare al progetto più recente tra quelli conclusi, il Parco Zoologico di Parigi, inaugurato il 12 aprile 2014. E non manca un confronto con il Parc de La Villette: “Tra il «Parc de la Villette», un parco concettuale, un anti-parco in cui la natura era all'inizio quasi totalmente assente, e il parco Zoologico di Parigi, con la sua natura ricostruita e gli animali liberi (essendo un parco senza gabbie), due concetti antitetici sembrano entrare in dialogo. E lei ha cominciato a parlare dell'informe.” [20]. Da qui l'ultima domanda: “Concetto e informe. Come funziona questo per lei?” [21].
Questa introduzione è certamente il primo elemento forte di questa esposizione, e dopo si può cominciare il percorso con una nuova consapevolezza e il giusto stato d'animo. La narrazione è strutturata intorno a quattro temi: 1. SPAZIO ED EVENTO; 2. PROGRAMMA / GIUSTAPPOSIZIONE / SOVRAPPOSIZIONE; 3. VETTORI E INVOLUCRI; 4. CONCETTO, CONTESTO, CONTENUTO.
La presentazione ufficiale [22] sul sito del Centre Pompidou anticipa con generosità la ricchezza di questo evento e questo breve reportage non si prefigge di raccontare la visita per intero, per due ragioni.
La prima è che si vuole ancora mantenere il Parc de La Villette al centro del racconto, la seconda è che sarebbe davvero difficile scrivere poco. Si tornerebbe ai documenti ufficiali e questo, oltre che inutile, non evidenzierebbe un valore speciale di questa esposizione: la forza emozionale, la capacità di coinvolgimento dello spettatore che l'allestimento concepito da Tschumi è riuscito a creare.
Il progetto, infatti, conferma una delle sue doti eccezionali: la chiarezza. Non si può non apprezzarla in tutti i suoi aspetti: un percorso fluido, ma ben ritmato. Ed è proprio il ritmo che fa cogliere immediatamente la mostra come narrazione. E il ritmo lo stabiliscono non solo le disposizioni delle superfici verticali e dei plastici, ma anche i tavoli di riferimenti e la scelta dei punti video. I pannelli descrittivi si fanno apprezzare per la scelta e il taglio dei contenuti: mai asciutti (difficile considerarli semplici didascalie), propongono dei testi capaci di sintetizzare con rigore i concetti chiave, senza scivolare nell'estremo opposto, ossia quello della trattazione da rivista o libro. Il visitatore è sapientemente accompagnato, mai abbandonato a se stesso e mai tediato da una lettura che gli farebbe perdere il senso del racconto generale. La sensazione che si prova invece è quella della curiosità: si comincia un'esperienza di conoscenza che poi è difficile non aver voglia di approfondire... e non solo da architetti...
I tavoli di riferimenti appaiono come occasioni speciali di entrare più intimamente nel mondo di Bernard Tschumi. A volte si ha proprio l'impressione che lui ci apra i cassetti dei suoi ricordi più speciali, e questo ci porta a un'altra considerazione generale sulla mostra. Una retrospettiva che racconta, in uno degli spazi culturali più rappresentativi a livello internazionale, quarant'anni di una carriera ricca di riconoscimenti assolutamente prestigiosi, avrebbe potuto presentarci un Bernard Tschumi archistar (termine e figura che va per la maggiore nel nuovo millennio). E invece lui ha, ci pare, rifiutato con forza questa etichetta. Impariamo a conoscere - o a conoscere meglio - un architetto rigoroso, un intellettuale appassionato, che con gli anni non ha perso entusiasmo, generosità e curiosità profonda. E questa è un'affermazione che l'esperienza del libro ha permesso di sperimentare personalmente, e un suo breve commento durante il primo incontro la riassume perfettamente: “Ciò che trovo interessante in una conversazione come questa, è che spesso solleva o rivela questioni che altrimenti non avremmo sollevato.” [23]
E allora torniamo alla mostra. Un altro elemento fondamentale è quello dei contributi video: troviamo semplici montaggi di sequenze fotografiche, clip estratte da film che hanno costituito un riferimento forte per un'opera o un tema di riflessione, interviste, brani di lectures e conferenze. E tra i video due meritano una citazione precisa. Il primo è quello che ci racconta l'esperienza di Tschumi alla Columbia University: Preside della Graduate School of Architecture, Planning and Preservation dal 1988 al 2003, ci spiega “un nuovo modo di sviluppare la levatura progressista della Columbia” ela sua visione dell'Accademia: “Io utilizzo sempre quest'analogia : l'università è come una città.” [24], e il senso delle opposizioni e delle competizioni, che fanno parte del dialogo e della costruzione di una cultura. Le diversità di approcci come valore per costruire una cultura architettonica. E poi, il suo modo di mettere in relazione la pratica di teorico, di progettista e di docente che non gli ha fatto amare particolarmente il titolo di Preside, al quale ha sempre continuato a preferire quello di Architetto.
Il secondo è quello che ci apre il suo studio e, a un certo punto, ci mostra e descrive un plastico particolare: “È con questo modello che si è pensato alle folies rosse, al sistema concettuale di un elemento d'inquadramento...” [25]
A dire il vero questo non è l'unico video che ci racconta La Villette, ma è senza dubbio quello che ci offre qualcosa di speciale, che ci riporta all'atmosfera di quel lontano 1982, e ci aiuta ad immaginare a New York un piccolissimo gruppo di giovani architetti europei, che ancora non aveva costruito nulla e che decide di partecipare al primo concorso bandito per i Grands Travaux a Parigi...
Se siamo arrivati al capitolo Parc de La Villette non possiamo non aver preso consapevolezza di come Bernard Tschumi abbia fondato la sua carriera e come abbia lavorato durante i primi dodici anni, con una serie di lavori teorici che sono confluiti nei “Manhattan Transcripts”, sviluppati a New York dal 1976 al 1981. Con il concorso per il Parc de La Villette arriva il momento di mettere concretamente alla prova tutte le riflessioni teoriche:
“Architettura = Spazio, evento, movimento.
Parc de La Villette:
la pratica può seguire la teoria?”
E allora ecco i disegni dell'epoca: le piante generali nelle diverse versioni, schizzi, studi e diagrammi in bianco e nero e a colori, la folie esplosa – spesso pubblicata, ma che ora abbiamo potuto vedere nella sua prima e vera natura, il modello che il video ci ha mostrato... - e le sue possibili diverse declinazioni, le tavole del concorso. E ancora gli studi per la Promenade cinématique e i Diagrammi cinematici (“Diagrammes cinématiques [notation 1&2]”), le viste prospettiche de la Galerie nord-sud e numerosi modelli…
Ora il racconto continuerebbe con il capitolo “PROGRAMMA/GIUSTAPPOSIZIONE/SOVRAPPOSIZIONE”: dal rapporto tra spazio ed evento, le riflessioni di Tschumi si spostano alla nozione d'uso e di programma, e sono sviluppate attraverso la partecipazione a numerosi concorsi di progettazione. Il primo che troviamo è un altro dei Grands Travaux, esattamente quello per la “Bibliothèque Nationale de France”...
È arrivato però il momento di mantenere la promessa iniziale e di interrompere questo racconto, con la speranza che questo frammento inviti chi legge a completarlo personalmente.
Ma, visto che chi scrive non ha mai amato le brusche e repentine chiusure, concedetele una nota supplementare: qualche parola sul primo dei tre eventi connessi alla mostra, programmati dal 5 al 23 maggio 2014.
Lunedì 5 maggio 2014, Grande Salle - Centre Pompidou, Paris, Parole à l'architecture:
BERNARD TSCHUMI. QUESTIONS – NOTATIONS – CONCEPTS.
L'evento, come il titolo fa intuire, ha offerto un'altra occasione per ripercorrere l'opera di Bernard Tschumi secondo il filo conduttore dell'esposizione. Un'ora e mezza di presentazione viva e intensa, in cui l'architetto ha raccontato la sua esperienza presentando i concetti strutturali del suo pensiero attraverso una serie di domande, di riferimenti culturali, le corrispondenti sperimentazioni di notazione e i progetti più emblematici. Importante fugare subito un dubbio legittimo: nessun rischio di sovraesposizione!
La conferenza, infatti, ha funzionato benissimo da un doppio punto di vista: per chi aveva già visitato la mostra, è stata l'occasione per sentire un racconto vibrante, rigorosamente “a braccio”, strutturato su una selezione dei materiali esposti, che ha esplicitato in modo più diretto le relazioni tra i riferimenti multidisciplinari, le sperimentazioni e gli esiti progettuali. Per chi invece ancora non l'aveva visitata, ha offerto una speciale introduzione supplementare, una serie di “istruzioni per l'uso” che non potranno che accrescere la forza del percorso espositivo.
E per tutti la conclusione che ripropone l'assunto principale (che è poi quello che accompagna il pannello di apertura): L'architettura è una forma di conoscenza.
E quest'affermazione si traduce in un invito: un invito a ricercare nella filosofia, nella letteratura, nella musica, nel cinema, guardare a ieri, e cercare quali sono i paralleli attraverso i quali poter provare ad andare oltre i concetti “tradizionali” di un dizionario di architettura. E quindi, un invito a non considerare i testi di storia dell'architettura come un punto d'arrivo. Questi testi sono fondamentali, ma esiste anche un « au delà », un “oltre” per tutta l'architettura, che può esprimersi a volte come concetto, a volte come materia, ma certamente è quest'oltre che ci aiuta a considerare la sua vera dimensione: l'architettura è un dominio senza limiti.
Note
[1] « …Le Gouvernement a décidé de mettre un terme à l'ensemble des activités de La Villette à compter du 15 mars 1974.
Ainsi pourra être engagée, dès 1974, sur les terrains devenus disponibles, une opération d'urbanisme de grande envergure.
Le contenu précis de cette opération sera défini par le Gouvernement en liaison avec les instances parisiennes avant la fin de l'année.
Elle comportera outre des logements, notamment de caractère social, des surfaces réservées aux activités économiques ainsi qu'un volume important d'équipements sociaux et collectifs. »
[2] DE/BaTE. DEconstructing/Building a Thinking Environment è un progetto che coinvolge i domini disciplinari dell'Architettura, delle Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione, delle Scienze Umane e Sociali, è stato sviluppato da Cesarina Siddi (DICAAR, Università di Cagliari) e Dario Curatolo (Four in The Morning, Roma) e coinvolge come partner principali: il CRS4 di Cagliari per il settore TIC, il Consorzio AASTER di Milano per le Scienze Umane e Sociali, il laboratorio multidisciplinare AMUP dell'ENSA di Strasburgo, ricercatori dell'UPM di Madrid che afferiscono ai gruppi di ricerca “Cultural landscape” e “Social Housing and Urban Heritage”.
[3] F. de Coninck et J. Deroubaix (sous la direction de), 2012, TRANSFORMATIONS DES HORIZONS URBAINS. Savoirs, imaginaires, usages et conflits, Editions L'Oeil d'Or, Paris, pp. 9-10: « Si l'on parle de savoir d'usage ou d'expertise d'usage (Bonnet, 2006), il faut souligner que l'observation précise et localisée des usages de la ville et des espaces publics met en évidence que les usagers ne restent jamais passifs devant les aménagements qui leur sont proposés. Les différents cas que l'on trouvera dans cet ouvrage montrent que les usagers n'adoptent un espace que pour autant qu'ils parviennent à le domestiquer (Haddon, 2002), à en faire quelque chose de familier pour eux, quelque chose qui convient aux pratiques qu'ils veulent y développer. […] Entre l'horizon du projet porté par les aménageurs et les autres prestataires de services urbains et les horizons d'attente des usagers et habitants, les tensions sont parfois vives. »
[4] A. Jarrigeon, 2012, BEAUBOURG, LES HALLES, LA VILLETTE ENTRE « PROGRAMMATION » SPATIALE ET « APPROPRIATION » SOCIALE, in Op. Cit., pp.105-116
[5] A. Orlandini, 1999, La Villette 1971-1995: histoires de projets, Somogy Editions d'Art, Paris, p. 124: « une architecture conçue avant tout comme « dynamique », comme mouvement des corps dans l'espace, comme programme et activités, et où la lecture de l'oeuvre vient s'articuler autour de ces deux notions complémentaires que sont l'usage et l'espace »
[6] Op. Cit., p. 128: « La Villette - et c'est un point fondamental - vient établir toute une série de conflits entre la trame des folies et les autres éléments qui constituent le parc. La ville contemporaine est avant tout le lieu de l'irréconciliable. Et c'est ce que cherche à exprimer la superposition des trois trames du parc. »
[7] S. Barrau, Le Programme du Parc / The Program of the Park, in M. Barzilay, C. Hayward, L. Lombard-Valentino, 1984, L'invention du Parc. Parc de La Villette, Paris, Concours International International Competition 1982-1983, Graphite Editions/E.P.P.V., Paris.
[8] S. Hardingham and K. Rattenbury, 2012, Supercrit #4: Bernard Tschumi, Parc de la Villette, Routledge, UK, USA and Canada, p. 55: «The client had given us a programme that was 500 pages long, written by five different committees, none of whom were coordinating with one another. So for one committee, the Parc was about the old people in their wheelchairs, taking in the sunshine. For another, it was about the kids playing football. For yet another committee, it was about continuing the European city and the creation of urbanity. The amount of money that was being put into the state project and the political parties involved meant that no single body could control the whole thing. It's possible that the point-grid that I had used led everyone to think: 'Oh, we can do anything.' Anybody could read anything into it. But at the same time, it gave us, as the architects – and here I really shouldn't say this - incredible power to provide a common denominator for often-conflicting agendas among different political constituencies, users, and local inhabitants. So when I chose the point-grid, it was really as a strategy rather than as a project.»
[9] A. Orlandini, Op. Cit., p. 125: « Un confrère a dit un jour que les prairies du parc étaient «plates et sans imagination». Non. Elles sont volontairement dénudées pour répondre à la densité de la Promenade cinématique, et permettre ainsi une appropriation «libre» de leurs surfaces. Une appropriation libre, c'est-à-dire une appropriation par un certain type d'activités qu'il nous était impossible d'imaginer à priori. Il faut mettre en place des conditions d'usages, et non pas conditionner l'usage. »
[10] B. Tschumi, E. Walker, 2006, Tschumi on Architecture. Conversations with Enrique Walker, The Monacelli Press, New York, p. 59: “The cinematic promenade is actually the only random element at La Villette. But randomness, by definition, is vulnerable to change; it 's very difficult to maintain in architecture since it can't be justified and goes against any sort of logic in terms of construction or cost. At a conceptual level, randomness can be better applied to events, actions, and programs than to physical form itself. So at La Villette the system of physical forms is there to allow the random - the event - to take place”.
[11] A. Jarrigeon, Op. Cit., p. 107: « Dans quelle mesure peuvent être « programmées » des « appropriation sociale » ? »
[12] A. Jarrigeon, Op. Cit., p. 105: « Alors que circulent et son discutés les projets du Grand Paris, le rôle de la programmation spatiale dans la conformation de la vie sociale mérite d'être questionné. L'analyse des débats et des nombreuses procédures de concertation, voirie de participation, désormais à l'œuvre dans les projets d'aménagements urbains et architecturaux est nécessaire mais ne recouvre pas l'étendue des questions soulevées par la prise en compte des « usages ». La confrontation des projets avec leur réalisation et les modalités de leur « appropriation » sociale suppose une ouverture des approches et un certain regard rétrospectif. »
[13] Si tratta in assoluto della prima mostra in Europa dedicata all'opera di Bernard Tschumi. Un'altra esposizione di rilievo dedicata al suo lavoro fu quella del MOMA di New York nel 1994.
[14] S. Hardingham and K. Rattenbury, Op. Cit., p.91, Bernard Tschumi risponde a Carlos Villanueva Brandt: “I'm all in favour of looking at ways to generate urban life, or to find ways in which architecture can be something that does things instead of looking like things. I always say that I'm not interested in what something looks like; I'm interested in what it does.”
[15] “How do you see an exhibition that raises the question of a retrospective view of your work? How do you view the question of time?”
[16] “How would you define the early period of your work, characterized by a critical negativity and a concern with no-architecture?”
[17] “How did that change come about in the 80's, when you hadn't yet build anything, had a conceptual vision of architecture and had just won the competition for one of the Grand Travaux, one of those that had the greatest impact on Paris and France: «Le Parc de la Villette»?”
[18] “With the idea of the gramme, which comes from Derrida, and that the red point, it's a matter of understanding what is the meaning of architecture. «La Villette» made it possible to move to another idea of the notation of architectural écriture, and to what would be called deconstruction in architecture.”
[19] “We've talked about the idea of envelope, which leads on to two things. First of all, the return of a form, but also the possibility of interaction with context. Oddly, especially coming from a totally conceptual architect, you reintroduce this idea of form, to put it into dialogue with the concept.”
[20] “Between the «Parc de la Villette», a conceptual park, an anti-park from which nature was at first almost entirely absent, and the Paris Zoological Park, with its reconstructed nature and freed animals (it being a cageless park), two antithetical concepts seem to enter into dialogue. And you have started to talk about the formless.”
[21] “Concept and formless. How does that work for you?”
[22] http://www.centrepompidou.fr/cpv/ressource.action?param.id=FR_R-7796fe9d7f17cbac6bd11c7a54e2731¶m.idSource=FR_E-89a7b47148deddfcc3d238eb55e47b6
[23] “What I find interesting in a conversation like the one we have is that it often raises or reveals certain questions that we will not have raised otherwise.”
[24] « J'utilise toujours cette analogie : l'université est comme une ville. »
[25] “C'est avec cette maquette qu'on pensé aux folies rouges, au système conceptuel d'un élément de cadrage...”
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