Forme della sostenibilità urbana in Messico a cura di Livio Sacchi con Cesare Corfone

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Innovazione sostenibile e integrazione conflittuale a Città del Messico. Livio Sacchi PDF

Nel suo libro La vera storia della conquista della Nuova Spagna (1568), Bernal Díaz del Castillo, a proposito dell’arrivo degli spagnoli a Tenochtitlán, scrive: “Nel vedere tante città e villaggi costruiti sull’acqua, e altri sulla terraferma, restammo stupiti. C’era chi pensava che si trattasse di una magia, come raccontato nel libro di Amadís, poiché c’erano grandi torri, templi e pramidi erette in acqua. Altri si chiedevano se non si trattasse di un sogno”. (1) Un racconto di cui colpiscono almeno tre punti, ancora attuali ed evidenti nella megalopoli contemporanea. Il primo è costituito dalla presenza dell’acqua, oggi fisicamente occulta, ma comunque nel bene e nel male protagonista sulla scena urbana della capitale messicana. Il secondo dalla struttura policentrica, propria di ogni area urbanizzata originatasi da diversi villaggi, com’è il caso,  per esempio, di Londra o di Los Angeles, nate appunto dalla rifusione di centri minori diversi che continuano a essere percepiti nella loro - oggi più difficilmente distinguibile - diversità. Il terzo è infine rappresentato dalla dimensione onirica, talvolta persino magica: anche in questo caso si tratta di qualcosa di non immediatamente evidente, certamente non a un esame superficiale, ma al tempo stesso di qualcosa che, a ben guardare,  pervade della sua allucinata e un po’ surreale stravaganza persone e cose.
Città del Messico o, meglio, Città di Messico traducendo alla lettera dallo spagnolo Ciudad de México, più spesso nota come México, D.F. che sta per Distrito Federal, un distretto indipendente dai 31 stati che compongono la federazione messicana, o Mexico City, come viene chiamata dagli anglofoni, è attualmente una delle città più grandi del mondo.  Fu eletta capitale il 18 novembre 1824: da allora il suo territorio è amministrativamente separato dallo Stato di México (uno dei 31 del Paese). I confini del distretto - evidentemente modellato sul District of Columbia che accoglie Washington, la capitale degli Stati Uniti - subirono diversi aggiustamenti fino a raggiungere, nel 1902, la configurazione attuale che si estende per 1.484 kmq. Le città di Coyoacán, Xochimilco, Mexicaltzingo e Tlalpan rimasero parte dello Estado de México, quindi fuori dal distretto, pur essendo già allora, più o meno di fatto, parte di un’unica area metropolitana. Il distretto fu suddiviso in 12 delegaciones che circondano la vera e propria Ciudad de México; quest’ultima venne a sua volta  suddivisa in 4 delegaciones. Dal 1993 fu finalmente dichiarata la coincidenza fra città e distretto, per complessive 16 delegaciones. Le due diverse, se non apertamente conflittuali, amministrazioni (del Distrito e dello Estado de México), hanno certamente ostacolato il determinarsi di strategie politiche coerenti e unitarie per il futuro della città.

Dal punto di vista geografico, Città del Messico è posta a 2.200 m di altitudine, al centro di una estesa vallata che si allarga sull’altipiano del Messico centro-meridionale, all’interno di una cintura montuosa vulcanica a elevata sismicità che raggiunge i 5.000 m.  Le acque che vi si raccolgono non hanno sbocchi naturali: ciò ha storicamente reso la città vulnerabile a piogge e inondazioni, sin dalla sua fondazione da parte degli Aztechi nel 1325, richiedendo, dal XVII secolo in poi, la costruzione di canalizzazioni sotterranee. Nel 1629 una devastante alluvione provocò 30.000 vittime, lasciando la città allagata per cinque anni. Filippo IV, re di Spagna, ne suggerì già allora lo spostamento verso le aree di Chapultepec e Polanco, ma fu considerato meno dispendioso prosciugare il Texcoco, il lago su cui sorgeva il nucleo originario del centro abitato. Nel tempo, i continui prelievi dalle falde acquifere sotterranee hanno reso il sottosuolo estremamente fragile: dagli inizi del XX secolo la città ha cominciato a sprofondare in maniera preoccupante (in alcuni  punti il livello è sceso anche fino a 9/10 m). L’ecosistema urbano è dunque prevedibilmente caratterizzato dalla presenza dell’acqua (se ne parla diffusamente, in questo numero, nel contributo di Cesare Corfone): un sistema interconnesso di bacini, sia salini sia dolci, periodicamente oggetto di imponenti fenomeni alluvionali. La questione idrica assume pertanto assoluta centralità. Contraddittoriamente, da una parte la storia dell’ecosistema urbano è caratterizzata dalla necessità di sottrarre spazio ai bacini lacustri per garantire la crescita della città; dall’altra sono proprio tali laghi a servire all’approvvigionamento idrico della città e a renderne pertanto possibile la sopravvivenza. L’acqua continua così a essere pompata dalle falde sotterranee nelle zone di Lerma e di Cutzamala a ovest e a sud-ovest della Valle de México in quantità molto maggiori di quanta se ne rigenera, con costi elevati e notevoli danni all’ecosistema. Sebbene gli acquedotti non raggiungano la gran parte degli slums presenti all’interno dell’area metropolitana, i consumi idrici sono più consistenti di quelli di molte città europee, a causa degli sprechi perpetrati dagli impianti industriali e dell’assenza di ogni forma di riciclaggio. Le acque dei fiumi che si formano all’interno della valle, spesso già molto inquinate, escono verso nord utilizzando un tunnel lungo 50 km, il cosiddetto Emisor Central, e si riversano prima nel Rio Tula, poi nell’inquinatissimo Rio Pánuco per sfociare nel Golfo del Messico a Tampico. A completare un quadro non esente da criticità, va detto infine che, a causa del citato, lento abbassamento del terreno e della generale sismicità, le condotte si rompono di frequente, disperdendo fino a un quarto delle risorse ed esponendo l’acqua a ulteriori contaminazioni. Elevati sono anche i tassi d’inquinamento dell’aria, fra i più alti del mondo, principalmente dovuti al traffico automobilistico, oltre che alla relativa assenza di venti e alla pressoché assoluta concentrazione delle precipitazioni fra giugno e settembre.

Nella prima metà degli anni Ottanta, la città è rimasta anche vittima di una serie di catastrofici eventi, tutti più o meno direttamente riconducibili all’incuria o alla mano dell’uomo.  Nel 1981 la  maggiore discarica della città, quella di Santa Cruz Meyehualco a Iztapalapa, andò a fuoco per otto lunghi giorni, sprigionando una gigantesca nube tossica. Tre anni dopo, una terribile  esplosione fece saltare in aria il centro petrolifero della Pemex a San Juanico, alla periferia settentrionale: nonostante la sua evidente e prevedibile pericolosità, l’impianto era letteralmente circondato da insediamenti abusivi densamente popolati: le vittime furono 500.  In un numero di Time del 1984 la città fu definita “l’anticamera di una Hiroshima ecologica”, una vera e propria “camera a gas urbana”. Nel 1985 un gravissimo terremoto, stando alle cifre allora fornite dalle autorità, provocò la morte di 5.000 persone: in realtà le vittime furono poi, più correttamente, stimate in oltre 35.000: un bilancio drammatico, in parte dovuto all’edificazione selvaggia frutto di corruzione e malaffare, realizzata ignorando ogni normativa antisismica nonché in assenza di vie di fuga e di adeguati spazi pubblici.
Le tre catastrofi non ebbero luogo invano. A partire dalla fine degli anni Ottanta si iniziò a registrare una significativa inversione di tendenza, a partire da un interessante programma di protezione delle aree boschive che circondano parti consistenti della estesa conurbazione; dal 2007, l’amministrazione si è poi dotata del cosiddetto Plan Verde, un ambizioso piano interdisciplinare, soggetto a periodici aggiustamenti, che punta al graduale raggiungimento, fino al 2021, di una lunga serie di obiettivi tesi a trasformare radicalmente i livelli della sostenibilità urbana (ne parlano Massimo Angrilli e Michele Manigrasso nei loro contributi). Così, un po’ alla volta, Città del Messico, un tempo tristemente nota come una delle aree metropolitane più inquinate del mondo, sta lavorando per migliorare le condizioni del proprio ecosistema.

Negli anni Settanta la crescita urbana aveva assunto dimensioni impetuose: si pensava che la città sarebbe diventata rapidamente la più grande (e problematica) del mondo, raggiungendo presto i 30 milioni di abitanti. Ma si trattava di previsioni destinate a restare irrealizzate. Attualmente la città vera e propria, quella che sorge cioè all’interno del Distretto Federale, sfiora i 9 milioni. L’area metropolitana circostante, la cosiddetta Greater Mexico City, supera invece i 20, forse 21 milioni, per una estensione di quasi 5.000 kmq: si tratta comunque della seconda più popolosa dell’emisfero occidentale, dopo New York, e di una fra le prime cinque o dieci agglomerazioni del pianeta, a seconda dei dati di volta in volta presi in esame; è anche, peraltro, la più grande città di lingua di spagnola al mondo (al secondo posto, molto distanziata, si colloca Santiago del Cile); da sola raccoglie più o meno la stessa popolazione dell’intera America Centrale; vi abita un quinto dell’intera popolazione messicana. Sul totale delle aree, la percentuale di territorio edificato consente ancora ampi margini di densificazione: è il motivo per cui oggi si punta proprio a limitare la crescita alle aree già urbanizzate, cercando - almeno nelle intenzioni, come dovunque nel mondo - di ridurre il consumo indiscriminato di territorio.
La città è anche un gigante dal punto di vista economico: da sola genera il 21% del PIL del Paese: una economia urbana paragonabile, per esempio, a quella dell’intero Perù. Ma le disparità sono fortissime: a una piccola classe di ricchi e super-ricchi (ai vertici delle mutevoli classifiche mondiali della ricchezza è proprio un messicano, Carlos Slim) si contrappone una massa enorme di diseredati, prevalentemente di origine nativo-americana, che vive in condizioni di estrema precarietà; fra i due gruppi si colloca un ceto medio prevalentemente di origine europea, culturalmente significativo ma numericamente debole rispetto agli standard occidentali.

L’immagine della città è caratterizzata da un grande, spettacolare centro storico di origine coloniale, sorto a partire dal XVI secolo, cui si contrappone la sconfinata città moderna, frutto evidente di una crescita eccezionalmente rapida: basti pensare che nell’anno 1900 Città del Messico ospitava non oltre 500.000 abitanti. Il centro, che nel suo insieme fa parte della World Heritage List dell’UNESCO, ha a sua volta un riconoscibile centro costituito dallo Zocalo, la sconfinata Plaza de la Constitución. Si tratta di una straordinaria città coloniale che assomiglia molto da vicino a una decadente città tardo-rinascimentale e barocca dell’Europa meridionale. Le sue potenzialità culturali, turistiche e religiose, sono evidenti: il patrimonio architettonico costituito da chiese, palazzi e solenni edifici pubblici ha caratteri di assoluta eccezionalità, soprattutto considerando che ci troviamo su suolo americano. Negli ultimi anni, la zona più pregiata è stata oggetto di un imponente programma di rigenerazione urbana, in gran parte finanziato dal citato Carlos Slim, ma i suoi problemi continuano a essere molto seri: l’edificato come s’è detto sprofonda, creando evidenti rischi di carattere statico, e il, per certi aspetti discutibile, processo di gentrification in atto è lungi dall’essere completo,  con problemi sociali e tassi di criminalità ancora troppo alti per rassicurare i flussi turistici.  
Tutt’intorno al centro storico, le dimensioni complessive della capitale moderna e contemporanea sono impressionanti: un collage di quartieri diversi - se non di vere e proprie città - che si estendono l’uno affianco all’altro senza soluzione di continuità, tuttavia, ancora oggi, abbastanza riconoscibili, in un’alternanza in cui il prevalente sviluppo orizzontale è punteggiato da alcuni nuclei direzionali a più spinto verticalismo, caratterizzati da una considerevole presenza di nuove torri. Un triangolo collocato fra il centro storico, Chapultepec e la Città universitaria monopolizza l’offerta culturale messicana: vi si concentrano musei, teatri, auditorium, librerie ecc. Altrove, i consumi culturali sono delegati alla televisione e a Internet: d’altra parte, soltanto il 6% della popolazione utilizza in tal senso la città vera e propria. Le linee telefoniche mobili superano di gran lunga il numero di quelle fisse: un dato curioso, ma prevedibile in un’area urbana dove si calcola che il 60% dell’edificato sia abusivo. È evidente come, in simili condizioni, parlare di politiche abitative sia per lo meno difficile: si veda, in proposito, il contributo scritto da Alberto Javier Villar Calvo.

Nonostante gli sforzi in corso per migliorare la mobilità, ancora oggi molto legata all’utilizzo dei mezzi su gomma, i tempi di percorrenza da una parte all’altra sono elevati. In assenza di una capillare rete ferroviaria metropolitana - l’unica linea fu realizzata in occasione dei Giochi olimpici del  1968 - un lento, intensissimo traffico automobilistico fatto di più di 3 milioni di auto private, 15.000 minibus e oltre 120.000 taxi caratterizza faticosamente la vita quotidiana della città. Si calcola che, a causa del traffico, oltre 20 milioni di ore lavorative vadano perse ogni giorno, con danni gravissimi alla produttività e alla qualità della vita. Seguendo l’esempio di Curitiba e Bogotá, sono state tuttavia realizzate una serie di corsie riservate ai mezzi pubblici e molte nuove piste ciclabili; ma è stata anche, contraddittoriamente, avviata la discussa realizzazione del Segundo Piso, livello sopraelevato di una invasiva autostrada urbana sostanzialmente a servizio esclusivo dei sobborghi più ricchi.

Nonostante tutto, le condizioni economiche, relativamente favorevoli negli ultimi anni, hanno determinato la costruzione di un gran numero di nuovi edifici di notevole interesse architettonico, frutto di una tradizione progettuale molto vivace, senza dubbio tra le più apprezzate d’America. L’identità culturale del Paese - la mexicanidad - non emerge sempre con chiarezza, posta com’è in una condizione di precario equilibrio fra nord e sud dell’America da una parte e fra Europa (ispanica) e America dall’altra: tuttavia c’è, e si avverte in tutta la sua specificità non appena si va un po’ oltre le apparenze. Si tratta peraltro, come s’è anticipato, di una identità non esente da una vena di follia, nel senso anche propriamente psichiatrico del termine, testimoniata dai comportamenti di artisti quali, per esempio, Diego Rivera e Frieda Kahlo, ma anche David Alfaro Siqueiros e José Clemente Orozco. Dal punto di vista architettonico, dopo la grande stagione segnata dalla presenza di un indiscusso maestro dello spazio, della materia e del colore quale Luis Barragán, il fondatore della modernità messicana, alcuni protagonisti sono riusciti a imporsi a livello internazionale: fra questi, certamente lo scomparso Ricardo Legorreta, il cui studio continua a operare con il nome Legorreta + Legorreta, ed Enrique Norten, con lo studio Ten Arquitectos che ha sede anche a New York, eccellente interprete di una modernità trasparente e ipertecnologica. Ma si registra tuttavia una considerevole compagine di progettisti che per qualità progettuale, uso delle tecnologie, controllo formale e senso dell’innovazione sono allineati con la più elevata professionalità europea o nordamericana: anche per quanto riguarda la produzione architettonica contemporanea, Città del Messico si conferma dunque una grande capitale.  Dal restauro alla nuova edificazione gli esempi eccellenti e competitivi sul piano internazionale sono moltissimi, anche se  non tutti - come d’altra parte, purtroppo, avviene in Italia - costruiti all’insegna di una efficace sostenibilità dal punto di vista ambientale e dei consumi energetici. Emerge tuttavia fra i migliori architetti messicani una solida capacità conformativa delle superfici e degli spazi che ne derivano, sia all’esterno sia all’interno; una eccezionale sicurezza nella  gestione delle grandi dimensioni che solo l’immersione culturale e psicologica in un contesto urbanizzato  così sconfinato riesce a garantire; una dichiarata confidenza, tutta americana e certamente a tutto campo, nelle tecnologie contemporanee; una rassicurante familiarità infine con la storia, sia quella delle origini nativo-americane sia, soprattutto, quella coloniale spagnola.
Molti sono dunque gli esempi interessanti della recente vicenda architettonica messicana.  A cominciare da alcune grandi case unifamiliari, testimoni della migliore tradizione abitativa americana, molte delle quali disperse in sobborghi lontani o o addirittura fuori città. Vengono poi alcuni restauri straordinariamente liberi e creativi: dalla Biblioteca de México “José Vasconcelos”, opera del Taller 6A, Bernardo Gómez Pimienta e  Alejandro Sánchez all’Hotel Condesa dello studio JS ͣdi Javier Sánchez, pluripremiato recupero di una elegante casa d’appartamenti originariamente costruita dnel 1928. Significative sono poi alcune torri che si discostano dalle consuete declinazioni cui ci ha abituato la diffusa, recente globalizzazione e che si apparentano piuttosto ad alcune raffinate ricerche del nostro neorazionalismo più visionario e accreditato (Franco Purini): pensiamo, in particolare,  al complesso Arcos Bosques dello studio Serrano Arquitectos, ma anche  alla Torre Bosques di León BenjamÍn Romano, un edificio di circa 30 piani che si erge ai limiti fra il Distrito Federal e l’Estado de México. Fra i migliori esempi di riqualificazione degli spazi verdi si ricorda il Memorial alle vittime della violenza, un intervento che ben s’inserisce all’interno del Bosque de Chapultepec, il più noto parco urbano di Città del Messico. Fra gli esempi di ostentazione tecnologica si segnala la Biblioteca Vasconcelos, opera di Alberto Kalach e la Torre dell’Istituto d’Ingegneria della UNAM, una della maggiori università messicane, disegnata da un gruppo di progettisti che fa capo a Luís Sánchez Renero. Fra gli esempi, infine, maggiormente ispirati a una filosofia progettuale sostenibile si ricorda il JardÍn Natura del Parque Bicentenario di Mario Schjetnan Garduño, frutto della riconversione di un’area industriale altamente inquinata nella parte settentrionale della capitale,  dove sorgeva la citata raffineria Pemex chiusa nel 1988, e l’Edificio 18 della Città universitaria di César Pérez Becerril, interessante esempio di bioclimatica applicata a nuove fabbriche come al recupero di quelle preesistenti (Edificio 12).  

Un panorama dunque di straordinario interesse quello  presentato in questo numero di EWT, anche per le relazioni e i collegamenti che i lettori potranno stabilire  con l’Europa da una parte e l’America dall’altra. Le città dell’America Latina presentano infatti, tutte, una sostanziale ambiguità: da una parte si rifanno abbastanza esplicitamente ai modelli della città europea, dall’altra appaiono l’oggetto di processi tipici delle città nord-americane. Città del Messico non costituisce una eccezione. L’aspetto caratterizzante della città americana (nord-americana) contemporanea è il suo essere una costellazione, o un arcipelago, di ghetti: etnici e soprattutto economici. Manca nei fatti ciò che è sempre stato una delle qualità principali della città: l’integrazione.  Il modello europeo, o meglio quello di derivazione ispano-portoghese, è stato sufficiente a garantire tale integrazione fino a tempi abbastanza recenti. Oggi non è più così. Il problema della sicurezza ha avuto un impatto così forte sulla vita urbana, da determinare il proliferare delle gated communities, la progressiva privatizzazione dello spazio pubblico e non poche, sensibili linee di separazione (le cosiddette social divides) fra le sue diverse parti. Si è dunque innescato un cambiamento significativo nelle scelte abitative: la relativamente naturale aggregazione della popolazione in quartieri più o meno legati alle fasce di reddito non funziona più. Il fenomeno ha registrato in primo luogo una forte discontinuità e, subito dopo, un adeguamento alla ghettizzazione di stampo nord-americano (con la conseguente deterritorializzazione dei servizi ecc.). Il sistema delle gated communities si è anzi diffuso spesso ben oltre il suo corrispettivo statunitense e, simmetricamente, i quartieri poveri sono rimasti, nei fatti, sempre più isolati dal contesto urbano generale. Quest’ultimo si è, dal canto suo, altrettanto chiaramente indebolito, spesso riducendosi a semplice infrastrutturazione di collegamento. La città ha così compiuto il completo capovolgimento della sua secolare funzione storica di protezione dei suoi abitanti dai nemici esterni: la pericolosità sociale si è traferita all’interno dei suoi stessi confini. Si tratta di fenomeni gravissimi, per esempio, in una città come Caracas, che negli ultimi decenni ha superato ogni accettabile livello di normale vivibilità; gravi in alcune megalopoli brasiliane e argentine, da Saõ Paulo a Rio a Buenos Aires; ma influenti e sensibili anche a Città del Messico.
Ancor più recente è il fenomeno dell’apertura delle città latino-americane verso il mondo. Il loro crescente peso economico sta provocando l’evoluzione  delle maggiori fra esse da un ruolo regionale o, tutt’al più, nazionale a un ruolo  internazionale se non globale. Ai tradizionali legami con la Spagna o con il Portogallo, si stanno aggiungendo rapporti sempre più stretti con altri Paesi europei, ma anche con grandi realtà emergenti come, per esempio, il continente africano o i Paesi asiatici affacciati sul Pacifico, oltre che con gli stessi Stati Uniti. A fronte di un rapido processo evolutivo di globalizzazione la città continua a funzionare come un magnete che attrae popolazione, in cerca di lavoro, da tutto il Messico, ed è al tempo stesso anche il principale punto di partenza dell’emigrazione messicana verso gli Stati Uniti.  Anche in questo caso dunque, Città del Messico non fa eccezione all’interno dell’articolato panorama latino-americano: il dualismo urbano e le tensioni che si determinano fra le aree “globalizzate” – centro storico, Reforma, Polanco e Santa Fe – o in via di globalizzazione da una parte e tutto il resto dall’altra sono lungi dall’apparire risolte. “Fino a quando le maggioranze non saranno incluse all’interno di un coerente progetto di modernizzazione, l’insicurezza continuerà a segnare tutti i settori della società, l’inquinamento atmosferico continuerà a essere presente e i sistemi illegali continueranno a lasciare la propria impronta sugli atti della modernità. Questi e altri segnali mostrano come tale dualismo urbano sia fallimentare. Ciò che predomina oggi è la conflittuale intersezione fra le diverse città di Città del Messico.”  (2)


Note

[1] 1. Cit. in Luis Enrique López Cardiel, Breve storia e futuro dell’architettura e dell’urbanistica nella Città del Messico, in Muestra de arquitectura contemporánea mexicana, Mexico en Italia, a cura di Bernardo Gomez-Pimienta, CAM-SAM, Colegio de Arquitectos de la Ciudad de México, Sociedad de Arquitectos Mexicanos, Ciudad de México 2013, s.p.
[2] 2. Néstor Canclini, Makeshift Globalization, in The Endless City, a cura di Ricky Burdett e Deyan Sudjic, The Urban Age Project by the London School of Economics and Deutsche Bank’s Alfred Herrausen Society, Phaidon, London 2007.

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