Editoriale

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CONTROVERSIE DELLA SOSTENIBILITA'. Alberto Clementi PDF

L’esperienza di Toronto riportata in questo numero di EWT induce a riflettere su alcune aporie del concetto di sostenibilità, talvolta rimosse nel dibattito accademico, culturale e istituzionale. Da anni il Canada è noto per la sua spiccata sensibilità alle questioni ambientali, avendo spesso assunto il ruolo di precursore nelle strategie della sostenibilità. In particolare va ricordato l’insegnamento di Michael Hough, forse non conosciuto a sufficienza sul piano internazionale, ma certamente assai influente nell’urbanistica e nella pianificazione ambientale canadese. Hough ha anticipato negli anni Sessanta del secolo scorso gran parte delle questioni che sarebbero esplose negli anni successivi, preparando gli architetti e gli urbanisti canadesi a sperimentare un rapporto più integrato tra l’ambiente naturale e quello costruito, nella città e nel territorio. Come ricorda Angrilli in questo numero, Hough è stato un antesignano della mutua dipendenza tra città e natura, ispirando i successivi movimenti del Landscape Urbanism e dell’Ecological Urbanism, e avviando in modo pioneristico gli studi dell’architettura del paesaggio orientati allo sviluppo sostenibile dell’ecosistema urbano.
Le posizioni della cultura più avanzata per i temi della sostenibilità hanno dunque trovato un contesto fertile per essere messe alla prova, in un Paese dalla solida reputazione internazionale per il suo rispetto della natura e per l’attenzione agli equilibri ambientali all’interno della metropoli. E che mostra anche una notevole maturità nel concepire la sostenibilità, riferendola al modo di costruire la città di minor impatto sull’ambiente, ma al tempo stesso mettendo in gioco –come ricorda Sliwka ancora in questo numero di EWT- aspetti cruciali come la vitalità economica, la distribuzione equilibrata dei redditi, un basso rischio di criminalità, una dotazione appropriata d’infrastrutture sociali e culturali, insieme ad altri aspetti connessi al disagio sociale,  quali la quota di povertà infantile o l’accesso alla casa sovvenzionata da parte della popolazione più svantaggiata.  
Sta di fatto però che l’impressionante fioritura di grattacieli, che ne sta facendo diventare l’area metropolitana con la maggiore concentrazione al mondo di progetti in corso di realizzazione, solleva non poche perplessità, e induce a rimettere in discussione le virtù ambientali del modello canadese, almeno per quanto è dato ricavare dall’esperienza della sua città più popolosa.  Poco vale che al tempo stesso un ambizioso programma di recupero ambientale lungo il waterfront si sforzi di promuovere processi di rinaturalizzazione di estese aree degradate, sottraendole a usi inquinanti. O che sia stata prevista la più grande green belt del Nordamerica per contenere gli effetti di sprawl nella crescita urbana, lasciando comunque sacche di sviluppo concentrato, a elevata densità edilizia. La sensazione complessiva è che attualmente Toronto, diversamente ad esempio da Vancouver,  non stia comportandosi affatto come una metropoli modello dello sviluppo sostenibile, nonostante singoli episodi qualificati di interventi per il recupero ambientale.
La questione è in realtà più controversa di quanto appaia, perché mette in gioco una tipologia edilizia spesso ammantata di sostenibilità nella presentazione fatta dai proponenti, architetti o promotori immobiliari, giustificandola con le prestazioni ambientali sempre più evolute che ne riducono effettivamente l’impronta ecologica.
Non c’è dubbio in effetti che il grattacielo contemporaneo, come evidenziato in particolare da Arup, tenda sempre più a diventare una sofisticata macchina urbana, in grado di utilizzare in misura crescente una varietà di sistemi di autoalimentazione delle risorse necessarie al proprio sostentamento, insieme al controllo smart mirato all’ottimizzazione delle sue molteplici funzioni. Le dotazioni di cui può disporre oggi sono davvero notevoli: un dispositivo interno per la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti; aerogeneratori per la produzione di energia eolica; pannelli solari in facciate che sono in grado anche di interagire con il mutamento delle condizioni climatiche esterne; sistemi integrati per il recupero del calore; materiali negli involucri di facciata capaci di convertire la CO2 in ossigeno; sistemi integrati per la produzione di energie rinnovabili e per il recupero e il riuso delle acque piovane; impianti vegetazionali diffusi e perfino sistemi avanzati, di solito igroponici, per la produzione di cibo destinato all’autoconsumo. Per di più il grattacielo, per definizione, consuma una quantità minima di suolo urbano, soddisfacendo una delle condizioni più importanti ai fini dello sviluppo urbano sostenibile.
La fortuna che stanno incontrando in questi ultimi anni i green skyscrapers dimostra del resto che  queste opere non sono motivate soltanto dalla ricerca di visibilità e d’immagine da parte dei promotori, o dalle logiche di mercato per il migliore sfruttamento delle aree edificabili, soprattutto laddove le rendite fondiarie sono particolarmente elevate oppure dove la scarsità dei suoli costringe allo sviluppo verticale, come a Singapore. Appaiono infatti apprezzabili anche alcuni vantaggi non secondari, in particolare sotto il profilo della concentrazione di attività e servizi, di riduzione della domanda di mobilità veicolare, di prossimità facilitata tra gli spazi della residenza e del lavoro, e di migliore sfruttamento di risorse ambientali come il vento e l’insolazione. Ne è dimostrazione tangibile ad esempio il Pearl River Tower a Guangzhou, disegnato da SOM in modo da sfruttare al massimo le spinte del vento, con potenti turbine che azzerano il fabbisogno di energia esterna. O la Shangai Tower firmata da Gensler, in corso di ultimazione nel quartiere Pudong di Shangai, alta ben 632 metri, caratterizzata da una dotazione di verde che occupa un terzo del sito, e da generatori eolici e sistemi d’illuminazione e di protezione dalle escursioni termiche esterne particolarmente sofisticati, che riducono sensibilmente il “carbon footprint” complessivo.  
Pur apprezzando queste notevoli prestazioni di ecoefficienza, considerare i grattacieli come edifici verdi, o comunque a elevata sostenibilità, continua ad apparire una sostanziale aporia. Non soltanto perché si tratta di una tipologia edilizia che pretende costi di realizzazione e di gestione particolarmente elevati, o perché ha bisogno di un’ingente quantità di materiali per la sua costruzione, o ancora perché induce seri rischi, non solo per eventuali disfunzioni dei suoi complessi dispositivi vitali, ma anche per l’inevitabile esposizione ad attentati terroristici. Più nel dettaglio, non soltanto perché richiede un maggiore consumo di energia rispetto all’edilizia tradizionale per molteplici ragioni, quali le speciali tecnologie costruttive necessarie per le grandi altezze, la resistenza ai carichi del vento più forti in quota, e soprattutto gli esorbitanti consumi di esercizio, per il funzionamento continuo degli ascensori e degli impianti, e l’impegnativa manutenzione periodica delle facciate.
Il fatto è che la sostenibilità, per propria natura, richiede un approccio sobrio nei consumi delle risorse non riproducibili, e al tempo stesso capace di offrire ambienti di vita identitari e con elevate qualità d’uso, flessibili e adattabili all’evoluzione dei bisogni, e comunque coerenti con le attese e gli immaginari della popolazione. Non c’è dunque da risolvere soltanto i problemi di adattamento al contesto, che in alcuni casi appaiono particolarmente preoccupanti, come per esempio nella Londra contemporanea, dove si stanno lacerando preziose trame insediative sedimentate nel tempo, perché s’introducono incautamente edifici alti spesso estemporanei, espressione diretta della aleatorietà dei processi di mercato. Né c’è soltanto da prendere in carico gli effetti dovuti al sovraccarico di attività e utenti in aree che spesso risentono di equilibri fragili, e che rischiano il collasso a seguito delle pressioni eccessive indotte dai nuovi grattacieli (un problema peraltro trattato con efficacia in Canada, dove vengono imposte misure integrative a carico dei developers ).
Noi sappiamo che la sostenibilità si gioca nel funzionamento complessivo dell’ecosistema urbano, e sotto questo profilo una macchina intelligente e ipertecnolgica come un green skyscraper può risultare incompatibile anche quando riesce a ridurre la sua specifica impronta ecologica, ma producendo esternalità negative che si riflettono sulla globalità del metabolismo urbano. E comunque sono decisivi gli stili di vita e le attese della popolazione, troppo spesso costretta a subire modelli di offerta residenziale estranei al comune sentire, oltre che al modello di città e di paesaggio ereditato dal passato.
Se poi – come nel caso di Toronto- i grattacieli che si stanno costruendo a corona della downtown, nell’ Hyburbia evocato da Hardwicke  & Hertel in questo numero,  sono costretti a ridurre sostanzialmente il proprio green appeal  per il costo eccessivo che comporta, allora le cose si complicano ulteriormente, e la sostenibilità urbana sembra allontanarsi ancora di più.
Rimane comunque aperto l’acceso confronto tra chi come David Owen apprezza le virtù delle metropoli ad alta densità, e chi invece propende per soluzioni più equilibrate, sul modello della città europea.  Forse, per valutare in modo più obiettivo le questioni della sostenibilità e il loro contributo alla costruzione della metropoli contemporanea nei diversi contesti storici e geografici, c’è ancora da riflettere molto. Nella ricerca dovranno essere incluse considerazioni che non sono ancora state sufficientemente approfondite, e che probabilmente porteranno sempre più a intrecciare i profili della sostenibilità con quelli più complessivi della qualità dell’ambiente insediativo e dei modi di vita desiderati dai suoi abitanti.