Devo ammetterlo: prima di iniziare l’attività del workshop ero un po’ scettico. Mi sembrava quasi eretico un progetto di rigenerazione urbana per una città informale (FAVELAS) in chiave turistica (CON VISTA). Alimentavano i miei dubbi… il rischio di definire le condizioni per guardare la povertà ed estetizzarla, l’incapacità di registrare il reale grado di soddisfazione degli abitanti ben condito con il bisogno degli architetti di sedare l’ansia “naturale” per il segno, lasciato sul territorio e non comunicato.
Già m’immaginavo gruppi di giapponesi armati dei loro flash, pronti a fotografare il grande oggetto architettonico, una bella biblioteca pubblica o un’efficiente stazione della funivia; oppure coppie di europei di mezza età in cerca di sentimentalismi forti, in giro per anfratti sistemati a dovere. Allo stesso tempo mi sembrava di incrociare lo sguardo stupito dei bambini che si chiedono da dove vengono questi alieni e l’indispettita reticenza delle mamme, pronte a chiudersi in casa e a guardare fuori dalle finestre, nascoste dietro le tende di pizzo.
Sono stato un paio di volte in una favelas e questo è quello che ricordo.
Case accatastate e in continua trasformazione lasciano spazi improbabili alle attività della comunità. Strade strette e polverose accolgono piccoli slarghi per il baratto di beni e servizi. I cancelli sempre aperti, le finestre a distanza di braccio e le piccole corti sono la testimonianza minuta che la coabitazione non è un fatto ideologico, ma un’attività abituale che consiste nel bisogno e nell’onere degli abitanti di “avere dei vicini”; tutti costretti a inventarsi il proprio quotidiano e a difenderlo con dignità. Gli spazi aperti sono rimasugli di suolo, residui di pratiche dell’abitare che non alterano mai l’immagine complessiva che questi villaggi urbani danno di sé, nonostante l’estrema instabilità che caratterizza la loro configurazione interna.
Alcune domande mi sembravano cruciali: cosa fare per il turismo senza una dotazione generosa di spazio pubblico? Come risolvere i problemi di una comunità che pratica l’autopianificazione attraverso l’imposizione di una strategia che prevede l’introduzione dell’estraneo come scelta economica? Ha senso puntellare con figure architettoniche questo sfondo urbano denso e caotico?
Il tema assegnato era una sfida: concentrava l’interesse sul rapporto che il progetto di spazi orientati all’attività ricettiva può stabile tra l’abitazione e le pratiche sociali di gruppi comunitari. Era necessario capire quali attività di produzione e attrazione turistica proporre e che spazi assegnare loro. Come costruire sinergie economiche e relazioni fisiche tra questi spazi e un tessuto urbano serrato e incerto, fatto quasi esclusivamente di case.
Florianopolis è un po’ diversa dalle favelas che siamo abituati a ricordare: non c’è un livello di degrado così avanzato da far disperare per le condizioni di vita. I sistemi d’infrastrutturazione sono comunque garantiti e le case danno l’idea di una sommaria compiutezza. Ma è chiaro che le trasformazioni dello spazio fisico sono comunque il prodotto della transitorietà degli usi e della capacità della comunità di riconoscersi nell’azione individuale senza generare conflitti. È tutto scritto sulle case.
Manca semplicemente lo spazio tra le case. Manca lo spazio per attivare strategie di rigenerazione che immettano nelle pratiche dell’abitare anche la produzione di beni e servizi per l’attività ricettiva. Manca un sistema di relazioni che coinvolga i vuoti alla scala minuta della residenza e li proietti sullo sfondo delle risorse spaziali a scala geografica.
Lavorare sulla trama dei vuoti, aumentando o dilatandone le maglie, è diventato il tema centrale della sperimentazione progettuale. Attraverso operazioni di micro-demolizione condivisa, l’azione rigenerativa punta a liberare gli spazi necessari a immettere, nell’intorno della residenza, una dotazione aggiuntiva di spazio a vocazione pubblica da destinare all’attività ricettiva: aree per mercatini, spazi per concerti o performance artistiche, giardini, orti e laboratori per la produzione di prodotti tipici, fino a sistemi condivisi di ristorazione e di accoglienza.
“Liberare spazio” significa individuare insieme alla comunità tutti gli spazi che la trasformazione dei bisogni familiari ha reso inutili, oltre a quelli che ogni famiglia sceglie di mettere a disposizione, e definire le condizioni fisiche per attivare a scala locale la libera iniziativa degli abitanti disposti a scommettere sul mercato turistico. Magari attraverso la trasformazione nel tempo di altri spazi domestici.
Il prodotto progettuale è la rappresentazione di un metodo più che di un quadro formalizzato di azioni spazialmente individuate. Il testo del prof. Coccia descrive bene gli strumenti usati e i risultati raggiunti.
A margine, mi rimane solo un commento: far proliferare nell’intorno della residenza spazi dalla natura intermedia significa proporre una riflessione su nuovi modi di abitare che in qualche modo impongono anche un ripensamento degli strumenti operativi. Significa affidare al progetto il duplice valore di risposta concreta ai problemi urbani e di processo capace di incidere nella consapevolezza degli abitanti.
In un contesto chiuso e fisicamente molto denso come quello di Florianopolis, sembra irrinunciabile il contributo che lo spazio privato dell'abitazione può offrire alla definizione di microspazi pubblici. Questi spazi “anarchici” possono servire ad integrare la mappa dello spazio "pubblico" necessario alla comunità locale per tenere a regime il livello di autogoverno e fornire nuovi ordini sommari a partire da pratiche eretiche.