Abitare il paesaggio: l’opera di Niemeyer
Sul secolo “breve” incombe l’ombra di Le Corbusier, architetto tuttologo, che sembra non lasciare spazio ad altre figure che pure hanno avuto un ruolo determinante, come ci mostrano le storie dell’architettura, anche le più tendenziose (Giedion mette in fila Wright, Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Aalto).
Per potersi proporre come una figura parallela, capace di giganteggiare in America latina, con sorprendenti escursioni europee e mondiali, a Oscar Niemeyer che muove come “ammiratore” del Corbu che arriva in Brasile, e con cui collabora per il progetto del Ministero dell’Educazione di Rio de Janeiro, non resta che trovare una contrapposizione, che potrebbe apparire ideologica ma che resterà soprattutto formale – con rischi di formalismo.
Le Corbusier propone la poetica dell’angolo retto? Niemeyer sposa la curvilineità, del corpo femminile e delle morbide colline della sua straordinaria città carioca.
La casa das Canoas, nella quale la famiglia di Oscar vive dal 1953 al 1965, anno in cui abbandona il Brasile a causa della dittatura militare, viene incardinata in un rigoglioso contesto naturale, a Barra de Tijuca, una delle periferie di Río de Janeiro, a pochi minuti di automobile dal centro di Rio de Janeiro: è una architettura che fa elemento di progetto il sito, sposando morbidamente il dislivello e facendone un tesoro messo in mostra nelle fotografie che più ne celebrano le caratteristiche di sinuosità e di organicità con gli elementi naturali, sottolineate dalla sensualità delle sculture realizzate da Alfredo Ceschiatti, amico dell'architetto brasiliano.
Come nella casa di Frey a Palm Springs all’interno della residenza compare una roccia, volutamente tollerata e messa in valore a sottolineare la “sostenibilità” (si direbbe oggi) dell’intervento.
Natura e architettura tendono così ad appartenersi, ad ibridarsi.
"La mia preoccupazione è stata la progettazione di questa residenza in piena libertà, adattandola ai dislivelli del terreno, senza modificarlo, facendola curva, in modo da consentire la penetrazione della vegetazione, senza la separazione causata dalla linea retta.”
Procedimento affatto differente da quello corbusiano messo in atto per la casa-manifesto realizzata a Poissy, nelle vicinanze di Parigi, la ville Savoie che Le Corbusier utilizza come una dimostrazione scientifica del beneficio ottenuto dall’architettura con i suoi cinque punti (i pilotis, il tetto giardino, la pianta libera, la facciata libera, la finestra a nastro) e soprattutto come capace di sintetizzare il rapporto da lui promosso tra architettura e natura, che è dato soprattutto dalle viste privilegiate che la “nuova” architettura offre dell’ambiente naturale in cui si colloca, innanzitutto attraverso l’invenzione della fenêtre en longuer che permette la massima -per il 1931!- rotazione dello sguardo verso il paesaggio.
Un altro confronto interessante tra Le Corbusier e Niemeyer, una sfida che quest’ultimo porta all’architetto più globalizzato del primo ‘900, è quella tra le due città capitali da loro progettate: Chandigarh (1957), del Punjab indiano e Brasilia (1960), del più grande stato sudamericano.
La struttura cardo-decumanica dei due piani si ammorbidisce a relazionarsi con il contesto naturale preesistente: Le Corbusier la eredita da Albert Mayer, regolarizzandone il disegno a foglia d’albero, Niemeyer incastra le sue architetture nel piano di Lùcio Costa, vincitore del concorso.
Più che tra gli insediamenti residenziali è interessante una comparazione tra il Campidoglio con sullo sfondo l’Himalaya, e la Piazza dei Tre Poteri della città insediata nella savana tropicale del “cerrado”.
Gli edifici del complesso monumentale indiano sono “concentrati” in un’area che motivi contemporanei di sicurezza tendono sempre più a separare dai quartieri residenziali; Le Corbusier li ha “posati” sul terreno dopo aver tracciato le direzioni dei punti cardinali: l’asse sud-nord attraversa diagonalmente il palazzo dell’Assemblea e su questo elemento di fondazione, più che sui riferimenti ai grandi esempi del passato, dai templi Moghul alla Città Proibita, si costruiscono disposizioni ed orientamenti degli altri edifici che incorniciano il sito: il Segretariato, grande diga est-ovest, e l’Alta Corte, stesso orientamento ma più aperta ai venti dell’est.
A Brasilia i due grandi vassoi del Parlamento vengono insediati, in modalità tra loro oppositiva, su un basamento, ad una quota superiore a quella della grande piazza che ha come quinte laterali il palazzo di Planalto e quello del Tribunale Federale: tra basamento e piazza si colloca un grande bacino d’acqua, quasi una memoria della natura colonizzata. Parlamento e torri binate sono il focus della prospettiva monumentale che infila la torre delle comunicazioni al centro, la straordinaria cattedrale su un fianco, la sequenza delle lame dei ministeri.
Lina Bo Bardi e il paesaggio etnografico
Un architetto, che arrivi in Brasile nella seconda metà del Novecento, scopre immediatamente la ricchezza della produzione materiale di oggetti, la tradizione di un artigianato che ha fatto fronte per secoli alle necessità più comuni del vivere quotidiano, elevandosi spesso a vera e propria arte popolare.
Lina Bo Bardi, che vi arriva nel 1946, dopo l’ esperienza di Domus e la collaborazione con Giò Ponti, ha antenne sensibili e nessuna spocchia intellettuale eurocentrica: il suo è un percorso di ricerche fondamentali per l’architettura brasiliana del dopoguerra, con opere come la Casa de Vidrio, il MASP, la ristrutturazione (con addizione di nuovi volumi) della fabbrica Pompeia e con la partecipazione intensa al dibattito sulla “prosecuzione tropicale” dell’esperienza del Movimento Moderno.
Non da meno è il filone di ricerca che la porta a tessere un fil rouge tra tradizione artigianale-arte popolare-design di nuovi oggetti.
Lina contribuisce allo sviluppo della cultura brasiliana partendo dallo studio e valorizzazione delle sue radici senza mai pensare di metterle “sotto vetro”, ma tendendo, da progettista, a reinterpretarle all’interno del disegno per il vivere contemporaneo, ideando oggetti d’uso e manufatti artistici sempre fondati in maniera progressiva sulla tradizione.
I suoi disegni vanno dai gioielli ai vestiti, dalle stoviglie alle sedie, fino alle scenografie teatrali.
Viene sedotta dalla bellezza semplice e dalla purezza delle pietre brasiliane, in particolare della acquamarine, della malachite, del topazio blu, del quarzo rosa, che fa montare in collane che gettano un ponte tra tribalità e modernità: soprattutto capisce che possono costituire una via per un design di gioielli brasiliano che contrapponga eticamente la sua specificità di pietre comunemente intese come “semipreziose” allo sperpero per gioielli d’oro e diamanti. Il valore aggiunto lo dà il progetto.
Analogo il metodo di lavoro applicato al disegno di vestiti e scenografie. Le sta stretto rimanere confinata nella moda del momento, meglio disegnarne per un “ballo del cattivo gusto” (1949) e poi lavorare con Glauber Rocha e gli altri cineasti dell’emergente Cinema Novo, disegnando scenari e manifesti (1960), con artisti del teatro di ricerca per “L’opera da tre soldi” (1960) per cui disegna la locandina, gli attrezzi teatrali, la scenografia, con letterati come Camus per i costumi del “Caligola” (1961), con il Teatro Oficina per “Nella selva delle città” (1969) disegnando il manifesto, la scenografia, i costumi, fino a rappresentare, dandone un’immagine tra l’onirico e l’allucinato, le “Pholias physicas, pataphisicas e musicaes” dell’Ubu di Jarry (1985): un ambiguo maiale a due teste, di pezza, che ora campeggia tra i reperti nella sua “Casa de Vidrio”, una scultura dodecaedra, i costumi da ornitorinco.
La sua creatività si alimenta, oltre che attraverso la conoscenza degli artisti e degli intellettuali europei e brasiliani, della straordinaria cultura materiale nordestina: viaggia spesso nelle aride aree del Sertão, nel cosiddetto triangulo de la seca, per trovare oggetti dell'artigianato locale. Lina si convince che l'antica manualità e le lavorazioni tradizionali se abbinate alla formazione scolastica, all'innovazione tecnologica e all'estetica contemporanea, possano esaltare la straordinaria tensione creativa originale di quelle comunità e favorire la nascita di un design brasiliano. A tal fine progetta il CETA - Centro de Trabalho e Estudo Artesanal,laboratorio in cui artigiani autoctoni e designer formati all'università possano confrontare le loro esperienze e sperimentare forme, linee, colori e materiali. Il CETA diverrebbe anche sede permanente della sua personale collezione di oggetti provenienti dal Sertão, archivio delle memorie locali da cui trarre spunto per creare nuovi modelli. Ma arrivano gli anni della dittatura militare ed il progetto non potrà svilupparsi compiutamente: solo pochi anni fa, dimenticata in un deposito governativo, è stata ritrovata la raccolta di arte popolare del Sertão, da lei curata qualche decennio prima.
Il suo lavoro procede progressivamente partendo dall’eredità del design moderno contaminandola con le scoperte etnografiche brasiliane; l’irruzione dell’arte popolare prende sempre più spazio e due occasioni progettuali le consentono le più interessanti sperimentazioni: le mostre nella fabbrica Pompéia, da lei appena ristrutturata, ed il coinvolgimento direttamente sul campo con le mostre a Bahia.
Già nel 1948 lavora alla “prima seggiola moderna in Brasile” pieghevole in cuoio e legno compensato tagliato in piedi (a differenza di quello piegato di Alvar Aalto): dai vaporetti dell’Amazzonia recepisce l’uso tradizionale dell’amaca, applicando una tela, dalla perfetta aderenza al corpo che vi si poggia, alla sedia a tre piedi, in ferro o legno, una sorta di Tripolina legata ad altre tradizioni.
Torna a quel design moderno che ricerca la forma “pura” con la Bardi’s Bowl (1951), in pelle o tessuto e struttura di ferro. Ancora partecipa a concorsi di mobili per Cantù (1957) con un’idea di industrializzazione della produzione artigianale basata sull’osservazione di come i caboclos dell’interno sanno stare per ore accucciati al bordo di una strada, senza stancarsi: a questa posizione elementare corrisponde un panchetto basso la cui gamba angolata, ritagliata modularmente da un foglio di compensato, diventa l’elemento ripetibile di sostegno per mobili, sedie, letti, tavoli, portacappelli.
Ma quel fermarsi popolare su un bordo di una strada viene cristallizzato dieci anni più tardi in un disegno che salda la distanza tra design e tradizione: tre rami e un pezzo di tronco legati tra loro con una corda, come oggi fanno ancora i popoli indigeni e gli scouts, compongono quella sedia da bordo di strada su cui Lina si fa ritrarre come protagonista della sperimentazione.
Imbrocca anzitempo anche il tema del riciclaggio, facendo di una vecchia lampadina una piccola lucerna a cherosene denominata Fifò.
La reinterpretazione di temi popolari con una riscrittura sintetica e naif entra prepotentemente nel progetto di architettura, come proposto nelle ringhiere floreali poste nei piccoli vani liberi agli attacchi tra il nuovo corpo di fabbrica della Pompeia che alloggia gli impianti di risalita e le passerelle che vanno al volume dei campi da gioco e delle piscine: normative più recenti hanno richiesto la sovrapposizione di griglie sgraziate e qualunque ai poetici “fiori di Mandacaru” in tondino di ferro.
Il tavolino di cemento prefabbricato con il foro centrale per l’ombrellone, prodotto in serie (1986) per il Belvedere da Sé a Salvador, con vista sulla Bahia di Tutti i Santi, deve la sua forma alla reinterpretazione del “caxixi”, ceramica popolare bahiana.
Bahia è il suo grande amore degli ultimi anni e per la casa del Benin progetta la ristrutturazione dell’edificio che la ospiterà, von interessanti connessioni e distacchi tra murature originali e nuove strutture, fodera pilastri con trame di paglia dei cestini tradizionali, appende tessuti che piovono dal soffitto, disegna il ristorante come una grande capanna indigena oblunga in terra cruda e tetti di legno e paglia che ospita una tavola unica, in forma di settore circolare ellissoidale, per quaranta posti: ci si potrà sedere intorno e dentro sulla seggiola “girafinha”, una sedia “povera” adeguata ad un museo di meravigliosi oggetti prodotti artigianalmente dai poveri.
Parallelamente alla sua reinterpretazione degli oggetti della tradizione e dell’arte popolare brasiliana, negli stessi anni allestisce mostre che li presentano in una sequenza roboante di colori e di disegni: da quella del Nordest a Bahia (1963), che Lina vuole sia definita Civiltà del Nordest e che presenta oggetti legati all’uso comune, esposti come nelle fiere popolari, alla sequenza di quelle che presenta nella sua Pompeia:
“Design in Brasile: storia e realtà” (1982) costruita sul modello popolare e confusionario delle fiere nordestine;
“Mille giocattoli per i bambini brasiliani” (1982) di cui disegna anche il manifesto in cui campeggia l’immagine di un cavallo a dondolo;
“Capiras, Capiaus: Pau-a-Pique” (1984) nella quale i locali dell’ex-fabbrica paulista vengono invasi da “alberi maestri” totemicamente coloratissimi, da “uomini-spaventapasseri”, da case di terra cruda dei villaggi e da animali che arrivano per l’inaugurazione;
“Intermezzo per bambini” (1985) dove di nuovo gli animali sono protagonisti o impagliati o reinventati da Lina sotto forma di maiale-giocattolo, mucca di cemento. Grande anaconda in legno, scimmia gigante del sambodromo.
Prelude ad uno dei suoi ultimi progetti tra realtà e fantasia, tradizione e design, infanzia e vecchiaia che è la “Grande mucca meccanica” (1988) per il “suo” Masp sull’Avenida Paulista di San Paolo: come nelle folies di Ubu un oggetto teatrale che è architettura, giocattolo, sogno realizzato.
Non si realizza, almeno davanti ai suoi occhi che vanno chiudendosi, il sogno di un design brasiliano fondato su una ricerca che muova dalla cultura materiale originale tecnico-primitiva in bilico tra radici africane e derivazioni orientali: al bivio degli anni ’80, il Brasile, trainato dal consumismo nord-americano dilagante, sceglierà la luccicante raffinatezza del prodotto industriale di massa, aprendo una fase che Lina definirà come “tempi cafoni”.
Nuovi paesaggi tropicali (nelle opere di MMBB)
L’architettura contemporanea ha ricevuto i suoi più importanti stimoli a modificarsi, a lasciare una straniante internazionalità modernista, buona per tutti i climi e tutte le latitudini, a partire da un diverso rapporto con il paesaggio, come indicato dall’insegnamento degli artisti che si sono sporcati le mani con la terra, personaggi come Christo o Robert Smithson, protagonisti della cosiddetta land-art.
Già Le Corbusier, a contatto con il Punjab, mette a reagire le sue architetture plasmate nel cemento armato con un clima, delle abitudini, delle fedi totalmente altre rispetto alla pretesa centralità europea: il progetto per Chandigarh si costruirà a partire dalla redazione di una grille climatique che determinerà la giacitura degli edifici, la decisiva presenza e gli orientamenti dei brise-soleil, molteplici sistemi di areazione naturale.
Bio-architettura ante-litteram o semplicemente architettura, come già negli insegnamenti di Vitruvio o di Leon Battista Alberti.
Qualcosa del genere sarebbe accaduto dall’altro lato del mondo in America Latina, in quel Brasile che dopo la visita di Corbu vede nascere un’architettura indubbiamente moderna ma profondamente radicata in un contesto paesaggistico tropicale.
Invece di una presentazione “storica” del lavoro dei maestri fondatori dell’architettura brasiliana (ma si parla di storie recenti e talvolta contemporanee grazie alla longevità di Oscar Niemeyer e al prestigio rivestito dal premio Pritzker – il cosiddetto Nobel dell’Architettura – conferito a Paulo Mendez da Rocha qualche anno fa), si vuole presentare il lavoro di giovani progettisti attualmente operanti, riconoscendone le appartenenze culturali.
Per un’intera giovane generazione, studiare nella facoltà paulista progettata da Vilanova Artigas significa “sentire” questa presenza forte; la sua architettura e il rapporto di questa con la politica propongono una decisa linea di ricerca, riassumibile in uno slogan: “È necessario fare cantare il punto di appoggio” (Auguste Perret).
Questo imperativo è rintracciabile tra i temi fondativi delle architetture di Milton Braga (studio MMBB), soprattutto nelle case unifamiliari: la questione strutturale è interpretata come una risposta miesiana per non contaminare il rapporto tra paesaggio e architettura, lasciandoli dialogare in modo autonomo con delicati contatti.
Lavorare all’inizio della professione di architetto con Paulo Mendez da Rocha significa ricevere lezioni sul campo di geometria asciutta e di cemento armato a vista da un continuatore del moderno in chiave tropicale, rigoroso e lontano dai virtuosismi scultorei e sensuali di Niemeyer, architetto anti-star per antonomasia, che ho visto svolgere con totale semplicità il ruolo di tutor (a settant’anni!) nel seminario di Montevideo di dieci anni fa in cui proponeva un nuovo rapporto della città con il paesaggio attraverso il ridisegno della baia portuale con chiari e precisi segni di geometrie elementari.
Come Mendez, Milton prosegue la grande lezione del Razionalismo attingendo senza mitizzazioni sia da Le Corbusier (il béton brût de La Tourette) che da Mies van der Rohe (la fluidità dello spazio interno e lo sguardo pieno verso la vallata dello Spielberg di casa Tugendhat).
La ricerca sul campo dello studio MMBB si applica al rapporto determinante tra architettura e paesaggio, tramite un uso mirato della struttura dell’edificio, mirando a effetti di sospensione di prismi residenziali nel paesaggio e per il paesaggio, a far “cantare il punto di appoggio”: una ricerca perseguita da altri giovani latino americani, come Klotz e Aravena.
Sono semplici case unifamiliari in cui Braga sperimenta soluzioni strutturali per far librare l’edificio sul terreno, con un giusto contrappunto di sottili serramenti e grandi superfici vetrate, con l’accostamento accurato di elementi minori e di materiali diversi (Souto de Moura nelle case di Alcanena e di Bom-Jesus).
Nella residenza della fazenda S. Rita l’architettura è esplorata attraverso due muri di pietra e una piattaforma, lavorando su tipologie molto allungate (che ricordano di nuovo Souto ma anche il primo Libera); la residenza Mariante ad Aldeia nella Serra è riducibile a due solai cassettonati e quattro pilastri (Mendez, Lina Bo Bardi del Masp); villa Romana a Ribeirão Preto è una scatola sospesa fatta da pareti di cemento o di vetro.
La ricerca prosegue nella scuola con una tesi di dottorato sul ruolo delle infrastrutture nelle trasformazioni urbane: tema che immediatamente riporta alla memoria gli interessanti esiti della ricerca INFRA sul rapporto tra architettura, paesaggio e insediamenti, svolta pochi anni fa con il coordinamento di dieci facoltà di architettura italiane.
Milton utilizza nella stesura della tesi una forma di “trattatismo” che fa pensare ai Quattro Libri del Palladio ma anche a Vers une architecture di Le Corbusier: contamina e intreccia - in Brasile tutto è mixturado (mescolato)- la ricerca applicata alle aree metropolitane di San Paolo, Parigi, Chicago, Bogotà (metrò TransMilenio) con suoi progetti che vanno dalla passerella coperta del progetto per Coimbra alla grande scala urbana della nuova sistemazione del Bairro Nuovo in Agua Branca presso il rio Tiête a San Paolo (una sorta di Città Proibita perimetrata da un grande bacino d’acqua che è un quadrato perfetto.
Ancora la secca geometria ordinatrice “alla Mendez” che taglia il nodo gordiano di ingarbugliamenti infrastrutturali, in direzione di un ridisegno paesaggistico alla scala metropolitana; poi ancora progetti con Mendez per alcuni terminal autobus e dei soli MMBB per il Garage Trianon.
Le analisi messe in campo muovono da L’Architettura della Città di Aldo Rossi attraversando tutto il percorso che porta da Le Corbusier a Rem Koolhaas, via Virilio (mappa TGV dell’Europa deformata) e Augé: sono accompagnate da fotografie critiche da viaggiatore alla Chatwin e non da turista distratto e modaiolo.
Il paesaggio diventa così grande protagonista di un progetto di architettura che non concede grandi rinunce, ma lo fronteggia senza invasioni, con disciplina e artisticità.
Piuttosto che cedere alle lusinghe delle sirene dalle forme sensuali delle architetture di Niemeyer, l’architettura latino-americana più recente incrocia l’eredità del razionalismo europeo, delle architetture che hanno costruito nel ‘900 il centro di città come San Paolo e Montevideo, con suggestioni dovute a una nuova cultura dei luoghi, a un’interpretazione del paesaggio, al giustapporsi dei materiali, all’uso di tecniche contemporanee.
Il risultato non è un altro sradicato “International Style” o per converso un Regionalismo critico (Frampton), ma una nuova modernità attenta ai siti che finalmente ha messo radici in una terra fertile e giovane e che si appresta a dare ancor di più buoni frutti, dall’identità connotata da molteplici culture popolari in cerca di riscatto, a malapena sintetizzabili nella Pedagogia Popolare di Paulo Freire, nella Teologia della Liberazione di Dom Helder Camara e Leonardo Boff, nel Tropicalismo musicale di Caetano Veloso e Gilberto Gil.
La lezione di Curitiba
Curitiba è la capitale dello stato di Paranà, nel sud del Brasile: ha due milioni e mezzo di abitanti ed è insediata a circa 1.000 mt di altezza.
Negli ultimi quaranta anni è passata da circa trecentomila abitanti a due milioni e mezzo, diventando una piccola metropoli sudamericana che si differenzia dalle altre non tanto per le dimensioni più contenute quanto per le innovazioni introdotte dai suoi amministratori che hanno puntato decisamente sul tema della eco-sostenibilità declinato a scala urbana: direzione impressa fin dagli anni ’70 dal sindaco-architetto Jaime Lerner.
Il traffico veicolare è separato da quello dei numerosi mezzi pubblici che scorrono in sede propria su una rete diffusa di corsie preferenziali, poste il più delle volte in asse ai viali a otto corsie che attraversano la città: questo ha fatto sì che almeno un terzo dei cittadini siano stati indirizzati verso l’uso del mezzo pubblico, contribuendo ad una notevole riduzione dell’inquinamento da gas di scarico.
Le linee degli autobus si differenziano tra quelle veloci e con poche fermate e quelle che attraversano i quartieri popolari con tutte le soste necessarie: in questo caso aumenta la frequenza dei mezzi, soprattutto nelle ore di punta. Sulle linee più affollate i mezzi arrivano con una frequenza di 30 secondi l’uno dopo l’altro.
Un’altra scelta innovativa ha riguardato la gestione dei rifiuti: l’amministrazione ha messo in piedi un vero e proprio scambio tra spazzatura, che viene pesata a tal fine, e alimenti o ticket che vengono consegnati ai cittadini più bisognosi in proporzione al peso dei rifiuti conferiti con i criteri della raccolta differenziata. Il “cambio verde” prevede infatti che quattro kg. di spazzatura possano venire “convertiti” in biglietti per i mezzi di trasporto, di eventi o di 1 kg di frutta e verdura.
In questo modo famiglie a basso reddito che vivono nelle favelas possono usufruire anche del “telefono della solidarietà” e di programmi di utilità sociale, che permettono la raccolta di mobili ed elettrodomestici usati, riparati da artigiani e rivenduti a basso prezzo o regalati a persone con problemi economici. I bambini possono scambiare i rifiuti riciclabili con articoli scolastici, cioccolata, giocattoli e biglietti per eventi di intrattenimento.
Il riciclaggio di carta da solo rappresenta l'equivalente del risparmio in termini economici e ambientali dell’abbattimento di circa 1.200 alberi al giorno.
I rifiuti non riciclabili vengono a questo punto smaltiti nelle centrali di incenerimento per la produzione di energia elettrica. Le necessità energetiche della città sono soddisfatte interamente attraverso l’uso di fonti rinnovabili, eoliche e solari soprattutto.
La città ha ricevuto il Globe Sustainable Award nel 2010, con questa motivazione: “The city of Curitiba is awarded for excellent sustainable urban development. The City of Curitiba shows maturity in their understanding of sustainable city development – both regarding policy and implementation. The holistic approach is well framed and managed in order to create a strong and healthy community, integrating the environmental dimension with other dimensions like intellectual, cultural, economic and social."
Favelas con vista_il cielo luminescente su Florianòpolis
In un’epoca in cui il turismo intercontinentale è ancora per pochi privilegiati, Le Corbusier vola verso l’America Latina ed ha il privilegio di una lettura dall’alto di uno degli insediamenti urbani ibridati ad uno dei siti più straordinari del mondo: la baia di Rio de Janeiro. Il suo sguardo ricognitore è già progetto e l’idea portante è quella di un edificio infrastrutturale che si aggancia alle pieghe del suolo e alle colline su sui si arrampica la città carioca, e, procedendo imperterrito come un acquedotto romano, struttura un nuovo modo rifondativo della città con l’obiettivo dichiarato di risolvere il problema numerico e paesaggistico degli insediamenti informali che formicolano sulle emergenze naturali della città.
Un atteggiamento moderno che privilegia la trasformazione della città, rischiando di alterarne quel carattere pittoresco così spendibile dalle agenzie turistiche internazionali: si assiste ad un primo confronto/scontro tra le forme dell’architettura - vecchie e nuove a un tempo - e l’informale dato dalla sommatoria di baracche di cartone, legno, mattoni malamente costruite in sequenza l’una sull’altra a risalire la china di uno dei morros, le colline dove vive, arroccata nelle favelas, un'altra Rio de Janeiro.
Oggi si assiste ad un fenomeno imprevedibile a quell’epoca e anche solo fino a pochi anni fa, quando le favelas erano in mano al narcotraffico e spesso attraversate dall’interesse statale solo sotto forma di intervento militare: nella metropoli sudamericana agenzie specializzate organizzano visite guidate delle favelas, talvolta per stimolare il senso dell'esotico e dell'estremo, a bordo di veicoli fuoristrada, quasi si tratti di un safari.
Sono nate proposte per gusti e tasche differenti in tutta la città; dalla Vidigal Guesthouse, una pensione “con una vista mozzafiato”, sita nella favela che affaccia sulla spiaggia di Leblon e di Ipanema, da cui dista pochi minuti a piedi, al primo Favela Inn, che ha aperto i battenti nella favela Mangueira Chapéu, sempre sulle colline di Rio, evento reso possibile dopo la pacificazione nel 2009: dispone di tre camere da letto, in grado di ospitare sei persone e balconi con vista sul mare, arredate con materiali riciclati; dichiara di ispirarsi allo stile di vita del quartiere.
Eneida Maria Pires dos Santos, una giovane brasiliana laureata in gestione alberghiera, ha organizzato Favela receptiva, un'associazione turistica che si occupa di Bed & Breakfast, facendo una selezione degli immobili candidati dagli abitanti delle favelas, per garantire ai turisti comfort, igiene e sicurezza. I proprietari di queste attività seguono regolarmente corsi d'inglese per migliorare la propria comunicazione con gli ospiti.
Per lo sviluppo del turismo in questi quartieri, la città ha lanciato il Rio Top Tour, che offre la formazione come guida turistica in particolare agli abitanti delle favelas.
Questa sfida politico-economica muove dalla considerazione che Rocinha, la più grande favela del Brasile, teatro di sanguinosi scontri tra fazioni di narcotrafficanti e polizia, ha ricevuto in questi ultimi anni la visita di circa duemila turisti al mese: i visitatori sono prevalentemente tedeschi, francesi e americani. Sono viaggiatori che evitano mete turistiche convenzionali e sono abituati a cercare posti remoti nel mondo.
Il rischio evidente è che questa singolare forma di turismo, che costituisce una grande opportunità economica per contesti così marginali, possa essere motivato da una sorta di voyeurismo dell’indigenza, generando una carità pelosa distante dal reale riscatto sociale delle comunità attraversate.
Per questo motivo va affrontato con un approccio del tutto diverso il tema della rigenerazione in chiave turistica delle favelas di Florianòpolis, capitale dello stato del Brasile meridionale di Santa Caterina, una piccola Rio con affascinanti dotazioni naturali: la prima sensazione, arrivando nell’isola collegata con ponti alla terraferma (stato di Santa Catarina, Brasile meridionale), è di stare sotto a un cielo più luminoso del nostro; sarà la mancanza di inquinamento e forse il fatto che la cornice del mare contribuisce a riflettere la luce, creando uno specchio territoriale che tutto avvolge.
La seconda sensazione è di una città con doppia immagine: il carattere turistico e ludico celebrato dalle sue spiagge (Canasvieiras, Ingleses, Danìela), dalle dune, dalle scuole di surf, da un lato e la presenza di favelas ormai “storicizzate” che si arrampicano sulle pendici del Massiccio Centrale, dall’altro.
Una doppia immagine che si presenta come una opposizione tra il godimento naturalistico e la sofferenza urbana di un disagio sociale che ha caratterizzato il Brasile per come lo conosciamo e che oggi comincia ad essere affrontato grazie alle nuove possibilità economiche della nazione o – meglio – al tentativo di una diversa distribuzione della ricchezza, che ha già creato una classe media, solo venti anni fa inesistente.
Una ricomposizione di questa scissione tra bellezza e povertà viene tentata nel lavoro inter-universitario in itinere applicato al sistema delle favelas di Florianòpolis, in direzione di una nuova qualità urbana che possa renderle attrattive per i turisti, “catturabili” innanzitutto dallo sguardo privilegiato che possono offrire sul paesaggio.
Dismesso dalla contemporaneità legata a procedimenti più interstiziali il tema moderno della vigorosa trasformazione urbana, qui appare opportuno lavorare su ipotesi di riqualificazione non solo degli edifici delle favelas che costellano le colline dell’isola, ma delle strade e degli spazi pubblici che non hanno a tutt’oggi alcuna identificazione. E’ l’occasione per dare una inattesa dignità urbana agli insediamenti informali garantendo così anche un loro appeal turistico, legato inevitabilmente alla questione della sicurezza, costantemente minacciata dalle bande della micro-criminalità e del narcotraffico.
A Floripa (come viene vezzosamente chiamata dalle agenzie turistiche) non occorre una elegante riacquisizione all’urbano con buoni progetti architettonici di social housing, ma lavorare invece sulle dotazioni infrastrutturali, sulle reti naturali, per riportarle alla luce e valorizzarle come strumento per prospettive di sviluppo in chiave turistica. Gli insediamenti informali stanno spesso nel paesaggio, nascondendolo: i progetti di rigenerazione devono rivelarlo per curarlo, facendone il tesoro della città.
Il turismo proposto non potrà mai sfociare in voyeurismo se la cartina di tornasole della riuscita dell’operazione sarà una costante verifica nella partecipazione comunitaria.
Il progetto, che muove da una prima elaborazione in workshop italiani e paulisti, verrà presentato alla comunità coinvolta attraverso installazioni artistiche e artigianali, capaci di renderlo (condi)visibile, simulazioni con prototipi che possono diventare sistema: una tela che copre uno spazio pubblico, la vivace colorazione di una facciata con sovraimpresse le note della scuola di samba, un orto urbano semovente realizzato con cassette in legno.
Infatti il margine tra insediamento informale, che tende a infiltrarsi nella foresta che attraversa l’isola, può essere risolto con un sistema di orti urbani capace di definire il transito tra costruito e parco a scala urbana. La qualità del parco, che attualmente vede alcuni interventi della municipalità come percorsi brecciosi, punti di osservazione sul paesaggio, porte di ingresso in legno e piccole case per informazioni e accettazione turistica, si gioca tutta sulla capacità di far “uscire” dal ritmo roboante della città sull’isola e di offrire uno sguardo affascinante sul paesaggio, caratterizzato dalla sequenza delle spiagge e dalla presenza affascinante della duna.
Luogo di indagine “speciale” è quindi la cresta del morro, che un tempo si segnalava per una croce luminosa posta alla sommità di una fervida risalita devozionale, un autentico landmark, sostituito dal pasticciato addensamento di antenne di quelle televisioni che orientano gusti e politica brasiliani e costituiscono davvero una sorta di quarto potere, in questo caso capace di connotare l’immagine della città.
Si è poi aggiunto recentemente un insediamento dal carattere militare, una casermetta di polizia con a lato una piattaforma di atterraggio per elicotteri, a sua volta atterrata in malo modo, con i suoi sgraziati pilastri di cemento armato, sul rilievo roccioso della sommità della cordigliera che disegna la centralità dell’isola catarinense.
L’ipotesi di infrastrutture di risalita meccanizzata, per esempio attraverso cabine su funicolare, verso punti di osservazione del paesaggio, attrezzati con ristoranti e spazi informativi per il turismo, deve proporre tracciati in grado di relazionarsi a questi punti particolari, modificandone l’identità e tracciando rotte di attraversamento delle favelas che si arrampicano sulle ripide pendici montuose (Mont Serrat, Penitenciaria, Morro d’Horacio, Serrinha).
Il rilancio di percorsi turistici nel parco e sulla cresta collinare sono l’occasione infatti di un attraversamento degli insediamenti informali che si pongono in diretta continuità con il centro della città, già profondamente turisticizzato da mercati, spazi pubblici, offerte di trasporto verso le spiagge: questi vanno resi città, sia per un nuovo appeal formale, per esempio attraverso l’uso di colori sgargianti e interventi di artisti sulle facciate o sui muri di recinzione, che per una messa in sicurezza, per esempio rispetto al narcotraffico.
All’interno della favela i turisti troveranno proposte legate all’autoproduzione della comunità che la abita: dai mercati che proporranno la vendita dei prodotti agricoli a chilometri zero di provenienza dagli orti realizzati sui margini verso la foresta all’apertura delle scuole di samba con la messa in mostra dei carri in preparazione per il Carnevale e la vendita di modellini in cartapesta, prodotti da un rianimato artigianato locale.
Un luogo idoneo per assumere un carattere di nuova centralità mercantile è lo spazio di mattoni e erba che sormonta il serbatoio storico che dava addirittura il nome alla località: prima di Mont Serrat era infatti Morro da Caixa de Agua. Il progetto dovrà partire dal restauro dei manufatti storici, prevedendo installazioni provvisorie per il mercato capaci di trasformarsi in determinate occasioni in strutture per spettacoli all’aperto e concerti.
Il sistema delle strade, veicolari e pedonali, che innerva il sistema insediativo delle favelas, andrà reinterpretato come nuova relazione tra di loro, affrontando nel ridisegno complessivo la prioritaria questione delle acque che scendono in maniera torrentizia durante le rapide precipitazioni. Le nuove pavimentazioni dovranno avere un carattere di porosità, capace di render immediato il drenaggio delle acque sui ripidi pendii su cui sono state maldestramente realizzate.
Questi tracciati favoriranno la realizzazione di una rete di piccoli spazi pubblici, ottenuti con demolizioni terapeutiche e ricostruzioni in loco senza significativi aumenti della densità: qui si collocheranno altri segmenti dell’offerta turistica, come bed and breakfast, bar, ristoranti, caratterizzati da spazi all’aperto ombreggiati da teloni posti su cavi tesi tra le case.