Nell’accingermi a scrivere questo contributo, sono andato a rileggere due testi analoghi che avevo pubblicato nei cataloghi dei concorsi organizzati alla fine degli anni novanta: quello per il Centro delle Arti Contemporanee (oggi Maxxi) del 1998-99, e quello per l’ampliamento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna del 1999-2000. La cosa che colpisce di più nel confronto con l’oggi, non è la differenza dei progetti e dei progettisti, ma l’atmosfera che circonda i tre concorsi.
Come eravamo: la debole primavera degli anni Novanta
Nonostante le cautele, il tono del discorso alla fine degli anni novanta era tutto sommato positivo. C’era una preoccupazione per l’arretratezza con cui l’architettura italiana affrontava le nuove occasioni di competere con i protagonisti della cultura internazionale. E tuttavia persino la preoccupazione era mitigata dalla speranza che l’instaurarsi di una prassi generalizzata di concorsi potesse essere la palestra in cui superare la gracilità creativa e produttiva della nostra architettura.
Misurare la distanza tra allora e oggi è utile e forse necessario, per capire che le residue speranze coltivate dalla comunità architettonica e dagli ordini professionali nella loro rituale invocazione dei concorsi, dipendono essenzialmente dal contesto in cui essi si svolgono. E il contesto è fatto di almeno tre componenti: regole, committenti e organizzatori. Ovviamente ne esiste una quarta che sono gli architetti, ma di loro sarà più facile parlare riferendo gli esiti di questo concorso per Bari.
Che cosa giustificava l’ottimismo alla fine degli anni novanta? Le novità emerse sui tre fronti appena ricordati, e nelle loro relazioni: le regole non c’erano o erano piuttosto vaghe. La legge Merloni, con tutti i suoi difetti, apriva delle possibilità, pur individuando una distinzione poco chiara, che tuttora permane, tra concorso di idee e di progettazione.
Più in generale, governo e amministrazioni locali, ancora sull’onda del protagonismo dei Sindaci eletti dal popolo, solo a partire da qualche anno prima, sembravano insistere su un ruolo rappresentativo e non conflittuale dell’architettura nelle trasformazioni urbane. La costruzione di musei, spazi pubblici e alcune infrastrutture sembravano fare del confronto tra progetti, che ne è la base, il fondamento di una doppia legittimazione - politica degli amministratori, e culturale degli architetti. Il concorso diventava una sorta di “elezione diretta” del progettista superandone la cooptazione.
Che questo processo abbia rappresentato un laboratorio mediatico per la creazione e delle cosiddette “archistar”, dipende soprattutto dal fatto che, come vedremo, invece di diventare una pratica diffusa e sistematica, è stata riservata a poche occasioni simboliche.
In cerca di un modello nazionale per i concorsi
In quello scorcio di tempo, per tornare alle regole, è sembrato che nella situazione italiana sostanzialmente priva di una propria tradizione nei concorsi, si dovesse optare per uno o l’altro dei grandi modelli europei. Si discusse per un po’ di quello tedesco, molto spartano e oggettivo, affidato alla cura di consulenti specializzati, oppure di quello spagnolo che vedeva un protagonismo e una garanzia offerta dalle organizzazione professionali. O infine quello francese dominato dalla efficiente burocrazia pubblica d’oltralpe e fondato su una legislazione che riconoscendo il valore pubblico del progetto di architettura, tendeva a far rientrare nella sfera della cultura tutto intero questo tema, scelta che aveva addirittura portato le scuole di architettura fuori dall’università e a dipendere dal ministero della cultura.
L’Italia sembrò voler prendere quest’ultima strada (e a mio parere fu un errore). Per questo ancora oggi aleggia il fantasma di una Direzione per l’architettura e l’arte contemporanea del Mibac, e giace in qualche cassetto la bozza di una esornativa “legge per l’architettura”. Tuttavia una sperimentazione fu intrapresa e il concorso per il Maxxi con le sue oltre trecento candidature, e l’ufficio concorsi del Comune di Roma ne rappresentano l’avvio nella seconda metà degli anni novanta.
Cala il sipario: il Codice degli appalti
A gelare questa breve primavera interviene, sul piano delle regole, la gestazione e la stesura del cosiddetto “codice degli appalti”. La cosa paradossale è che i suoi mostruosi effetti si producono in nome di due principi: la garanzia per le pubbliche amministrazioni e il recepimento delle norme europee. Si è già accennato al fatto che i concorsi di architettura, per strano che possa sembrare, avevano e hanno nei diversi paesi una storia e una fisionomia. Le norme europee sul “procurement” che ne hanno condizionato alcuni aspetti, non hanno affatto cancellato quelle differenze. Solo in Italia questo recepimento ha sortito l’effetto di strangolare la competizione tra progetti.
Affidata a qualche magistrato incompetente, e ai lobbisti delle imprese e delle società di ingegneria, l’equiparazione del concorso di progettazione a una gara per l’appalto delle opere edilizie, ha snaturato il senso del procedimento. Si spiegano così norme che sembrano cervellotiche, come quella che impone di nominare la giuria dopo il concorso, anziché prima.
Su un altro piano, scemato l’interesse per la dimensione pubblicitaria e comunicativa del concorso, le pubbliche amministrazioni hanno preferito ricorrere a “gare e garette”, che senza l’ingombrante presenza dei progetti si prestavano meglio a pilotare l’aggiudicazione attraverso commissioni interne deresponsabilizzate da metodi in fondo discrezionali, come l’offerta economicamente più vantaggiosa. L’introduzione di regole sbagliate ha finito per fare dei concorsi una merce rara. La presentazione di oltre cento candidature al concorso i cui esiti sono raccolti in questo volume si spiega anche così, oltre che con l’importanza del tema.
Le poche occasioni superstiti quasi mai prevedono un secondo grado o un rimborso delle spese per i concorrenti, caricando sugli architetti costi elevati e riducendo anche in questo modo la platea dei partecipanti già annichilita dal meccanismo dei requisiti tecnico-finanziari che favoriscono un ben individuato oligopolio. Eppure sarebbe ancora possibile fare un concorso “normale”, e Baricentrale lo dimostra per merito dell’Amministrazione Comunale e in particolare dell’Assessore all’Urbanistica. Si tratta di lavorare accortamente ai margini di regole che bisognerà prima o poi modificare. E qui interviene qualche considerazione sugli altri due elementi del contesto: i committenti e gli organizzatori. Il quadro che si è cercato di ricostruire suggerisce le ragioni per cui i committenti si sono ritirati da questo terreno. La cultura della trasparenza in questi anni è stata molto più invocata che praticata. Una sola modifica legislativa non sarebbe a questo punto sufficiente.
Cambiare le regole, lavorare per programmi
Qualcuno deve riprendere un’iniziativa di sistema. Questo vuol dire lanciare grandi programmi di opere in cui il “cosa” fare non sia disgiunto dal “come” farlo. Un precedente storico, anche se difficilmente oggi si potrebbe ripartire dalla residenza, è rappresentato dall’Ina-Casa. E siamo all’ultimo aspetto: gli organizzatori. Che si scelga o meno di favorire la crescita di specifiche professionalità, al punto in cui siamo arrivati, il primo gradino da risalire consiste nell’evitare che il cosiddetto RUP (responsabile unico del procedimento), sia in prima persona l’organizzatore dei concorsi. Potranno esserci funzionari e tecnici interni all’amministrazione di grandi capacità, come ci sono a Bari, ma è più semplice e di maggiore garanzia che a gestire un concorso, con la formula delle “attività di supporto” sia un progettista, cioè qualcuno che la fisiologia (e la patologia) dei concorsi la conosce per averla vissuta.
Con un manuale pratico che non sarebbe difficile da scrivere, si potrebbero fissare i pochi elementi imprescindibili. In Italia esiste peraltro una provincia in cui le cose funzionano così, quella di Bolzano, in quanto, per ragioni ben note, essa appartiene a un’area centro europea per molti aspetti della sua vita sociale ed economica. Ma è al contempo una dimostrazione che le leggi possono essere interpretate e arginate nei loro difetti.
Le tre dimensioni progettuali di Baricentrale
Baricentrale rappresenta dunque nel suo dispositivo un esempio del fatto che organizzare un concorso di architettura è ancora possibile se c’è la volontà politica di una amministrazione. Ma questa è solo la necessaria - anche se un po’ lunga - premessa. Da qui in poi è opportuno considerare le peculiarità non indifferenti di questo concorso che ha per oggetto una vasta trasformazione urbana. Dentro Baricentrale è dichiaratamente intrecciata una triplice dimensione che per ragioni strategiche si articola su sette distinti comparti.
La prima dimensione è quella della ex Caserma Rossani. Essa avrebbe potuto essere oggetto di un concorso di progettazione a se stante, anche se è molto vicina alla Stazione, ne subisce l’attrazione e l’influsso dei suoi problemi. La condizione interclusa che si vuole superare avrebbe consentito di affrontarla separatamente. Tuttavia il dibattito in città sul suo possibile uso, e forse ancora prima sul suo carattere, non ha permesso di individuare un programma che non fosse un elenco di buone intenzioni e di rivendicazioni frammentarie coperte da un ombrello “artistico e culturale”. A peggiorare le cose ci si è messo un atto di vincolo della Soprintendenza che, a parere di chi scrive, rivela un riflesso condizionato nei tutori dei beni culturali. Pertanto la Rossani rientra nel concorso con la stessa dimensione esplorativa, a caccia di un senso e di una visione, di aree che solo in una prospettiva molto più lunga diventeranno gestibili. E’ questa una contraddizione che il concorso, e un dibattito serio a partire dai suoi esiti, potrà contribuire a risolvere.
La seconda dimensione è quella del nodo ferroviario vero e proprio. Il progetto vincitore, per quanto schematico, appare come l’uovo di colombo: realizza il sogno dell’interramento senza dovere scavare. Nel lavoro preparatorio svolto con l’ing. Vito Labarile, ci siamo confrontati con i vincoli tecnici ed economici che impediscono a Bari la realizzazione di un passante ferroviario sul modello di Torino. La soluzione messa a base del concorso, affrontata dal progetto vincitore con una forte semplificazione, non è necessariamente la soluzione in assoluto migliore, nonostante le grandissime capacità dell’ing. Stefano Ciurnelli. Essa è piuttosto il compromesso raggiunto nel 2011 tra i soggetti interessati ratificando il protocollo d’intesa. Anche sotto questo aspetto, il concorso costituisce il catalizzatore del confronto. Ma perché il confronto porti a degli sviluppi, ci vuole una continuità di azione sostenuta da una visione strategica che l’assessorato all’urbanistica saprà esprimere anche in futuro.
Infine vi è nel concorso una dimensione che riguarda quei comparti e quelle aree, soprattutto ad ovest, che formano il contatto tra la fascia ferroviaria e i quartieri esistenti, oppure tra la ferrovia e i bordi interni sfrangiati di aree produttive e agricole. Alcuni concorrenti hanno assunto una posizione contraria all’idea di urbanizzarle, e contraria al messaggio implicito del bando che le vedeva come aree di “esondazione controllata” di significative volumetrie, la cui entrata in gioco è necessaria per coprire i costi di riorganizzazione dei comparti ferroviari - premessa della ricucitura.
La leva urbanistica di una fattibilità a lungo termine
Non può sfuggire la contraddizione, non tanto nel concorso, quanto nella gestione urbana che si misura con la evoluzione pubblica e privata dei sistemi di trasporto. Per la riorganizzazione del nodo ferroviario, prima e dopo l’area centrale si parte da grandi investimenti pubblici e si arranca lentamente nella predisposizione dei progetti infrastrutturali, mentre quelli urbanistici sono solo ipotesi. Nel cuore della città, invece, si deve immaginare una delicata operazione di equilibrio tra pubblico e privato che estrae dalla centralità delle aree e delle funzioni compatibili la “leva” urbanistica per spostare i binari. Le sintetiche immagini del concorso rinviano alla scoperta della temporalità lunga nascosta nei cronoprogrammi delle relazioni sulla fattibilità tecnica ed economica. L’amministrazione comunale e gli altri soggetti interessati dovrebbero per prima cosa sedimentare questi documenti attraverso una lettura approfondita.
La prima, e probabilmente fondata impressione, è che la giuria abbia scelto il progetto più radicale, quello in cui una soluzione chiara e univoca era individuabile nel ruolo assegnato al paesaggio naturale (ma artificiale), nell’operare la ricucitura tra le due parti della città e nell’offrire una nuova “amenity” alla popolazione del centro di Bari.
Prima di approfondire brevemente il progetto di Massimiliano Fuksas conviene utilizzarlo, per queste caratteristiche, come il principio ordinatore di una classificazione delle dieci proposte. Occorre considerare che questa lettura coincide con quella operata dalla giuria, più di quanto non possa esserlo un’altra, basata sulle autografie degli autori, che la scala del progetto e un rigoroso anonimato ha permesso di tenere in secondo piano.
Tre approcci diversi: il nastro verde
Un primo gruppo di progetti potrebbe comprendere quelli che hanno trattato il fascio dei binari come un suolo non caratterizzato da una struttura urbana. Non a caso, la proposta di Vazquez Consuegra si è collocata al secondo posto. Di quella di Metrogramma è apparsa interessante l’idea di schermare il corridoio dei binari con due vasti terrapieni, che ora ci sembra una tappa di avvicinamento alla sezione del progetto vincitore. Quest’ultimo andrà attentamente considerato nello sviluppo futuro. E’ evidente che alla continuità del parco è stato sacrificato lo spessore necessario del fascio dei binari e anche la sua geometria. In secondo luogo, l’eliminazione dei binari delle Ferrovie Appulo Lucane, o la loro sopravvivenza in galleria ha implicazioni di varia natura. A questo punto occorrerebbe considerare la proposta come un vero e proprio passante ferroviario con al centro una stazione ipogea. E questo anche in relazione alla eventuale decisione di costruire una nuova struttura a ponte per i viaggiatori. Quanto al grado di indeterminatezza nel disegno delle ampie maglie di isolati a ovest, potrà risolversi in un vantaggio per lo sviluppo del progetto, nella misura in cui la continuità del verde potrà essere garantita.
Rispetto a questa ipotesi, il progetto di Vazquez Consuegra produce un sistema artificiale/naturale per lo scavalco della ferrovia che si colloca nel punto più favorevole dal punto di vista tecnico, ma meno significativo dal punto di vista urbano. Con ciò siamo già nella logica di adeguarsi allo schema del piano del ferro con cui fanno i conti gli altri concorrenti. A differenza di Metrogramma, però, i fronti urbani presentano prospetti di edifici posti al di sotto della coltre verde, caratterizzati da un disegno attento e ben definito da vedute suggestive, così come è ben disegnato il tracciato urbano dei due comparti ad ovest. Il progetto di Metrogramma compensa il mancato sfruttamento edilizio delle aree lungo i binari con l’inserimento di due landmark, uno ad est e uno su piazza Aldo Moro. Quest’ultimo in particolare, una torre con sbalzi crescenti via via che sale, si carica del rischio di una immagine incombente e minacciosa piantata nel centro della città. La ricucitura sembra in parte affidata a esili passerelle ciclopedonali, come fili rossi lanciati in diagonale su vuoti fin troppo ampi per essere coperti senza appoggi intermedi.
Tre approcci diversi: costruire i bordi
Un secondo gruppo di progetti rinuncia completamente o quasi a tentare un passaggio in quota attraverso i binari, prendendo atto delle difficoltà strutturali e della asimmetria del fascio rispetto alle gerarchie urbane. Questi progetti tendono perciò a concentrarsi sul disegno del tessuto, a precisare la trama degli isolati e ad approfondire l’integrazione tra funzioni pubbliche e private, secondo le formule dei progetti urbani europei più recenti.
E’ il caso di Allies and Morrison che però inseriscono un “ponte urbano” con le proporzioni di una vasta piazza affacciata sui binari. E rientra tra questi progetti anche quello dei danesi COBE, che si distingue, più che per i due ponti pedonali, per il tentativo di legare la Rossani e piazza Aldo Moro con i materiali di un unico disegno e con due anfiteatri convergenti verso il sottopasso dei binari. Quattro ponti pedonali sono presenti anche nella proposta di Bolles+Wilson che presenta anche una diversa gerarchia: il comparto ex FAL viene disegnato da una trama di isolati che si orienta sugli assi del quartiere Libertà e quindi del murattiano, marcando il confine della città compatta rispetto a una diversa morfologia degli altri comparti, risolti come grandi recinti che possono accogliere nelle parti periferiche dei sistemi di edifici a torre. Infine, all’interno di questo gruppo, il progetto Ferrater rappresenta una ulteriore interessante variazione sul tema della gerarchia degli isolati che sembra evocare una realizzazione distribuita nel tempo e affidata a una molteplicità di autori. Anche nel suo caso, è un landmark ad “ancorare” la proposta e a compensare la minore densità edilizia.
Tre approcci diversi: costruire sopra i binari
L’ultimo nucleo di progetti che comprende i gruppi guidati da Cruz e Ortiz, Francesco Cellini e Scape con i francesi LAN e i belgi UAPs, è quello che intende costruire una condizione urbana a cavallo della ferrovia. Nel primo caso si presenta come una rigorosa addizione del murattiano in cui lo stesso suolo artificiale viene monumentalizzato dalle due “bocche” simmetriche in cui entrano i binari. La cosa che lascia perplessi è la ripetizione dello schema a isolati in quindici blocchi a corte che occupano i comparti a ovest come una piccola città di fondazione circondata dal verde. L’ideogramma urbano entra quindi in tensione con la sua natura di frammento.
E’ opportuno concludere con il progetto di Francesco Cellini e Insula perché oltre a far parte di questa famiglia di proposte, rappresenta una visione complementare alla soluzione che si è affermata nel concorso. Come quella è caratterizzata da una radicalità che sarebbe messa alla prova dalle circostanze reali del programma e del contesto. Non si tratta tanto della porta ovest sviluppata coerentemente alle ipotesi del Documento preliminare alla progettazione del nuovo piano urbanistico generale, di cui lo stesso Cellini è autore con Gianni Nigro e Mauro Sàito. La elegante composizione della grande corte desta qualche preoccupazione per il non felice destino dei centri direzionali con cui ha qualche parentela di scala e forse qualche volontà di evocazione. Piuttosto, il sistema dei ponti abitati sopra la ferrovia, da una parte suggerisce l’affascinante possibilità di attraversare Bari “come se” i binari non ci fossero, dall’altra pone domande sulle grandi corti ferroviarie che contiene e su cui si affacciano i ponti sospesi. Ma la soluzione più nitida e la posizione più chiara è quella proposta per la Rossani, in cui si vuole superare il vincolo e immaginare le potenzialità di una grande vuoto pieno di verde nel centro di Bari. Con ciò si offre un contributo al dibattito pubblico che va oltre l’esito del concorso e che bisognerebbe affrontare liberi da condizionamenti e da posizioni pregiudiziali. Come per altre scelte banalmente conservatrici, estese indiscriminatamente ai quartieri intorno al murattiano, o addirittura all’intero viadotto in cemento armato delle FAL, è tempo di interrogarsi non tanto sulla tutela della qualità, quanto sulla qualità della tutela.
Il concorso ha svolto il suo compito, che era scritto nel bando: fornire una visione di medio-lungo periodo della trasformazione nelle aree centrali della città. La sua realizzazione è ora nelle mani del governo e dei cittadini di Bari.