Occorre evitare l’errore di perdersi dentro la ciclica discussione sulla questione meridionale, come se i problemi siano sempre gli stessi dai tempi di Rossi Doria e Saraceno. In particolare negli ultimi due decenni i cambiamenti dentro il territorio di quella parte del Paese che ancora viene chiamata, con una evidente forzatura, Mezzogiorno sono stati profondi, hanno acuito differenze, rivelato segnali per nulla banali. E’ importante leggere dentro queste trasformazioni per capirne le spinte e i nuovi problemi da cui derivano, in particolare per quanto riguarda i temi ambientali. Perché nei numeri assoluti le città del Sud sono ancora ultime in Italia per quanto riguarda tutti i parametri ambientali: da quelli di infrastrutturazione (allacci alla rete fognaria, accesso all’acqua potabile, dispersioni delle reti idriche) a quelli di gestione (raccolta differenziata, trasporto pubblico urbano, zone a traffico limitato) a quelli di vivibilità urbana (aree verdi, piste ciclabili, isole pedonali). Eppure si sbaglierebbe a pensare che ci troviamo di fronte a una realtà omogenea, ad esempio sono centinaia i Comuni (alcuni grandi come Salerno) dove la percentuale di raccolta differenziata supera il 65%, ossia con performance che superano tante città del centronord. Così come la gestione degli acquedotti in Puglia non può essere paragonata agli insopportabili ritardi della Sicilia, e stessi ragionamenti valgono sulla rete di porti e aeroporti, le stazioni (la nuova stazione Toledo della Metro di Napoli è stata premiata come la più bella del mondo dal Daily Telegraph), mettendo a confronto le città e le diverse Regioni. Quello che è mancato in questi anni, e qui sta la differenza con gli altri Paesi europei, è un progetto di uscita dalle condizioni di arretratezza delle Regioni e delle città del Sud. Se Regioni come l’Algarve in Portogallo o l’Extremadura in Spagna hanno compiuto dei passi avanti in termini di condizioni di benessere e ricchezza che si sognano in Calabria, è perché si è dato un orizzonte alle politiche di investimento rese possibili dai fondi strutturali europei, si sono individuate alcune priorità infrastrutturali. Al contrario, da noi il fallimento delle politiche di coesione territoriale non è tanto nella inadeguata capacità di spesa, l’unica di cui si accorgono i quotidiani nazionali, ma nella dispersione a pioggia degli interventi nella più totale assenza di criteri comprensibili di indirizzo e poi di vero controllo. Per cui laddove il tessuto politico e imprenditoriale era all’altezza di queste sfide si sono prodotti anche interventi importanti, ma sono state fortunate eccezioni.
Eppure, proprio la crisi economica oggi permette di guardare in modo diverso dal passato alle risorse dei territori e delle città del Sud, con la speranza che sia finita per sempre con il modello dei grandi progetti e delle grandi opere. Pensiamo al turismo delle città d’arte, all’agricoltura biologica e tipica, alle aree protette. Negli ultimi dieci anni è in questi settori che si è prodotto lavoro da Ragusa alla Valle d’Itria, con pochissime risorse pubbliche ma invece un protagonismo dei territori più marginali che sono stati capaci di capire come l’identità e la qualità oggi sono la ricetta vincente. Non è vero che tutto è rimasto fermo, la situazione dei centri stori di Lecce, Catania, Bari o Salerno (grazie ai progetti Urban), è infinitamente migliore di 10 anni fa. Con restauri e pedonalizzazioni, attività ricettive di successo in forme che venivano considerate fuori dal tempo da tanti economisti sviluppisti (bed&brekfast e agriturismi considerati irrilevanti a fronte dei grandi complessi turistici). Di impianti eolici e solari si è parlato in questi anni nel Mezzogiorno per rimarcare o l’impatto devastante sul paesaggio oppure una gestione in mano alle mafie. In pochi si sono accorti che in sempre più giorni dell’anno la produzione da energia pulita in Sicilia e Puglia arriva a superare l’80% dei fabbisogni elettrici complessivi. Oppure di come un modello di generazione distribuita (al Sud sono installati oggi almeno 200mila impianti tra solari, eolici, da biomasse e biogas, miniidroelettrici) renda oggi possibile in quei territori produrre vantaggi concreti in termini di bollette elettriche e di riscaldamento, di lavoro nella gestione energetica, ricadute ambientali locali e globali. Perché oggi siamo in una seconda fase di sviluppo delle rinnovabili, e il Sud è la frontiera della grid parity, ossia della possibilità di installare impianti che producono senza incentivi, una prospettiva che per funzionare ha però bisogno di legarsi alla domanda locale, avvicinare domanda e produzione e quindi, indirettamente contribuire a creare innovazione. Insomma, oggi alcune delle migliori idee e intuizioni sul Sud su cui si è costruito il dibattito nello scorso decennio (Viesti, Trigilia, Calafati, Barbagallo) possono trovare spazio perché la realtà lo consentirebbe ed ha perso credibilità quell’idea di sviluppo che intorno al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina ancora riteneva che servisse una grande leva per muovere il cambiamento. Al contrario oggi servono nuove idee e un processo articolato di cambiamento nei territori se si vuole recuperare una speranza per i tanti giovani che oggi sono costretti a emigrare, per chi vive (e muore) in aree dove da decenni si attendono interventi di bonifica, per chi è costretto a guardare in televisione i treni Frecciarossa.
L’ambiente può essere la chiave per guardare al cambiamento del Sud e anche per ricollocare dentro corretti binari la discussione sul ruolo dello Stato, delle politiche nazionali, dentro i processi di sviluppo. Lo Stato al Sud è indispensabile innanzi tutto per ripristinare la legalità, e qui si intrecciano vere e proprie emergenze ambientali. Serve un ritorno in campo dei Ministeri per aggredire le ecomafie, combattere l’abusivismo edilizio, realizzare gli interventi di bonifica a Taranto, Priolo, Gela e Brindisi. Senza un ritorno dello Stato un cambiamento reale sarà difficilissimo, per la sproporzione delle forze e degli interessi in campo, con la conseguenza di condannare questi territori ad essere associati all’immagine di Napoli tra i rifiuti, di Gomorra, delle morti per inquinamento a Taranto, degli imprenditori condannati a pagare il pizzo. Per cambiare occorre soprattutto una visione del sistema Paese sulle politiche necessarie per la crescita economica e la coesione sociale, in modo da creare una cornice di priorità per guidare gli interventi legati ai fondi strutturali e per l’agricoltura (programmazione 2014-2020 e nuova PAC). Questo vale soprattutto per le infrastrutture, perché siamo ancora fermi a una visione incardinata sul Ponte sullo Stretto e su una idea di lavori pubblici a prescindere da obiettivi di mobilità. Le risorse saranno limitate, per cui occorre capire dove intervenire per rendere possibile una vera logistica degli spostamenti merci e passeggeri tra le città e le Regioni, integrando reti ferroviarie e stradali, porti, aeroporti e interporti. In questa riflessione occorre anche porsi degli obiettivi ambiziosi, come possono essere quello di collegare finalmente due città come Bari e Napoli con una linea ferroviaria veloce, di restituire a una città come Catania l’affaccio al mare, di mettere in circolazione centinaia di nuove navi e nuovi treni per gli spostamenti. E poi occorre individuare alcuni temi su cui orientare i progetti dei Comuni. Una prima grande sfida è quella della riqualificazione energetica e statica del patrimonio edilizio, con una lettura che va dalle aree più degradate ai centri storici. Qui siamo all’anno zero, con poche idee e progetti quando il degrado è drammatico, l’accesso a una casa dignitosa a prezzi accessibili rimane un sogno per tante famiglie. Una seconda è quella della sicurezza del territorio, martoriato da periodiche tragedie dovute sicuramente alla fragilità idrogeologica e alla pericolosità sismica ma dove a pesare sono una urbanizzazione senza regole, e oggi sempre di più gli effetti dei cambiamenti climatici che stanno mostrano tutto il loro impatto potenziale, come dimostrano i crescenti fenomeni di precipitazioni che provocano danni, morti e feriti. Proprio la chiave dell’adattamento ai cambiamenti climatici oggi appare quella più adatta per ripensare le priorità e gli stessi modelli di intervento, abbandonando una visione ingegneristica delle infrastrutture idriche e fognarie, della cementificazione di sponde e versanti, di monocultura agricola, di impermeabilizzazione delle aree urbane. Infine, occorre premiare l’attenzione alla qualità e innovazione ambientale in modo trasversale in tutte le politiche. Cambiando anche modalità di intervento da parte dello Stato, a cui spetta fissare gli obiettivi strategici da raggiungere (in termini, ad esempio di raccolta differenziata, depurazione, risparmio energetico e diffusione delle rinnovabili, riduzione delle emissioni di CO2, dotazioni ambientali, sociali e culturali), mentre a Regioni e Enti Locali di individuare progetti integrati e realizzarli. Ma dove, come accade negli altri Paesi, il controllo e monitoraggio sono incisivi e dove si premiano con le risorse i progetti e le amministrazioni più capaci. Offrire un quadro di priorità strategiche appare fondamentale anche per ridare un ruolo e anche una utilità concreta agli strumenti di pianificazione paesaggistica, territoriale e urbanistica che possono diventare il riferimento per l’organizzazione spaziale e di coerenza all’insieme di questi interventi. In modo da avere proprio sui piani il confronto tra visioni di sviluppo, punti di vista e obiettivi di qualità.