Intervista a Philippe Rahm. Massimiliano Scuderi |
M.S.: Il filosofo Peter Sloterdijk definisce il mondo globalizzato come un sistema chiuso e amniotico. Si può dire in questo senso che il tuo approccio sia attento ai principi della sostenibilità?
P.R.: l’industria delle costruzioni è una delle principali responsabili del surriscaldamento globale perché l’impiego di combustibili fossili per riscaldare o raffreddare gli appartamenti rappresenta all’incirca il cinquanta per cento dell’emissioni di gas a effetto serra. Conseguentemente ad alcune resistenze e temporeggiamenti l’intera industria è oggi mobilizzata in favore di uno sviluppo sostenibile e sostiene il miglioramento dei sistemi di isolamento dal calore dei muri esterni, l’impiego di energie rinnovabili, la considerazione dell’intero ciclo di vita dei materiali e una progettazione più compatta degli edifici.
E’ chiaro che tutti questi passaggi hanno un obiettivo definito, quello di combattere il surriscaldamento globale attraverso la riduzione di emissioni di CO2. Ma oltre e al disopra di questo obiettivo, oltre alcuni obiettivi di responsabilità civile ed ecologica, non potrebbe essere il clima un nuovo linguaggio architettonico, un linguaggio per ripensare l’architettura riferendosi alla meteorologia? Potrebbe essere possibile immaginare i fenomeni climatici come convenzione, conduzione o evaporazione per esempio come nuovi strumenti per la composizione architettonica? Potrebbero vapore, calore o luce essere i nuovi mattoni di una costruzione contemporanea?
I cambiamenti climatici ci forzano a ripensare radicalmente l’architettura, spostare la nostra attenzione altrove da un approccio visuale e funzionale verso uno che sia maggiormente sensibile, più attento a ciò che non si vede, agli aspetti dello spazio relativi al clima. Passando dal solido al vuoto, dal visibile all’invisibile, dalla composizione metrica a quella termica, l’architettura come meteorologia apre ad altri aspetti, più sensuali, a dimensioni più variabili in cui i limiti sfumino e i solidi evaporino. L’impegno non è più di costruire immagini e funzioni ma di aprirsi a climi e interpretazioni. Alla scala allargata, l’architettura metereologica esplora the potenzialità atmosferiche e poetiche delle nuove tecniche costruttive per la ventilazione, il riscaldamento, il rinnovo dell’aria e l’isolamento. A livello microscopico, sonda un campo originale legato alla percezione attraverso il contatto epidermico , l’olfatto e gli ormoni. In mezzo all’infinitamente piccolo del fisiologico e l’infinitamente vasto del meteorologico, l’architettura deve costruire scambi sensoriali tra il corpo e lo spazio e nuovi approcci estetici in grado di determinare cambiamenti a lungo termine alla forma e al modo di abitare gli edifici del futuro.
M.S.: Nei tuoi progetti impieghi umidità, calore e temperatura come materiali di costruzione. Mi puoi spiegare meglio questo aspetto delle tue architetture?
P.R.: Rivendicano che il soggetto principale della loro disciplina sia “lo spazio” . In verità, questo è ciò che tradizionalmente distingue l’architettura dalla scultura: possiamo entrare dentro un lavoro di architettura dove dobbiamo stare fuori da uno di scultura: possiamo starci di fronte. Se la scultura si occupa del solido e della sua forma, l’architettura deve trattare il vuoto e la sua atmosfera. Ma fino a tempi recenti, gli architetti sono stati incapaci di definire il vuoto in un altro modo che il progettare il pieno intorno al vuoto, perché non conoscevano veramente lo spazio, non conoscevano veramente questo assenza di materia tra i muri che non potevano afferrare o vedere. Ma il vuoto gradualmente ha acquisito uno spessore: con Torricelli e Blaise Pascal nel diciassettesimo secolo l’aria ha assunto una consistenza; nel diciottesimo secolo, con Antoine Lavoisier e Daniel Rutherford, diventò chimicamente scomposta in particelle elementari di ossigeno o nitrogeno; è stata caricata attraverso i batteri di un valore biologico con Louis Pasteur nel diciannovesimo secolo, e modulata da onde elettromagnetiche nel ventesimo. Se gli architetti del passato erano ridotti a lavorare sul solido, oggi siamo molto più abili a lavorare direttamente sullo spazio stesso e a progettare l’atmosfera determinandone la temperatura, l’odore, la luce o il vapore.
M.S.: Charles Percy Snow nel libro The two cultures auspicava un dialogo tra cultura umanistica e cultura scientifica. Nel tuo lavoro questo avviene, mi puoi descrivere alcuni tue ricerche e realizzazioni?
P.R.: Ci insegnano a diffidare della scienza, a sentirci i figli di Marcel Duchamp ed ecco che inizio a riscoprire Claude Monet, un artista in totale comunione con l’avanguardia scientifica della sua epoca, che lavorava sul principio della combinazione ottica dei colori di Charles Blanc o sulla legge del contrasto simultaneo teorizzata in quello stesso periodo da Michel-Eugène Chevreul. Nella rilettura attuale dell’opera vaporizzata e metereologica di Claude Monet c’è la possibilità di tracciare un’altra genealogia dell’arte contemporanea che, attraverso la musica spettrale e il Nouveau Roman risalirebbe in linea diretta agli impressionisti. Quello che conta non è il soggetto ma le forme che possono sorgere dalla dissociazione analitica degli stessi mezzi con cui si lavora. Si esplora l’infinitamente piccolo, si analizzano gli spettri otici o sonori, si scompone il reale in particelle visuali, elettromagnetiche o termiche, e poi lo si ricompone, ma solo con un certo numero di elementi, non tutti. Nei miei lavori c’è una sorta di chiarezza razionale dei Lumi, la chiarezza della scrittura, un’obiettività quasi chimica, l’assenza della narrazione, ma da questo si libera qualcosa di magico, una “ irrealtà perturbante”, che dipenderebbe “ non da una finzione deliberata, ma da un realismo più spinto” come diceva Gérard Genette a proposito di Robbe-Grillet. Al giorno d’oggi la mia architettura s’inscrive sicuramente in questa linea di discendenza. Sono anch’io un’impressionista.
M.S.: In passato hai collaborato con figure importanti. Tra gli altri, Gilles Clément: che cosa condividi con lui?
P.R.: Gilles Clément con Alain Robbe –Grillet e Gérard Grisey sono i miei tre eroi intellettuali. Ho lavorato con lo scrittore Alan Robbe-Grillet per un progetto che era alla base del suo ultimo libro. Con Gilles Clément facemmo diverse cose insieme a cavallo del 2000 e una mostra presso il Centro Canadese di Architettura di Montreal nel 2006. L’aspetto più importante del lavoro di Gilles Clément è l’approccio scientifico che lui ha sul paesaggio. Lui analizza la forma, la funzione attraverso il prisma della scienza dell’ecologia, della botanica, della fisiologia degli animali e delle piante e senza alcuna considerazione di natura morale o estetica. Faccio esattamente come lui nel campo dell’architettura.
M.S.: Qual è la tua idea di possibile sviluppo della città contemporanea, quale di paesaggio?
P.R.: Il clima può giocare un ruolo di primo piano nell’urbanizzazione futura del pianeta secondo dei valori termodinamici globali legati a parametri di posizione geografica, di latitudine e di altitudine che possono essere la soluzione per una globalizzazione che non si appoggi più su le ingiustizie salariali o le condizioni di lavoro, ma su criteri ecologici e climatici che vanno nel senso di uno sviluppo sostenibile per l’umanità. Sto attualmente lavorando ad un nuovo concetto chiamato “ termo dinamismo urbano”. L’urbanistica termodinamica sarebbe un nuovo modo di pensare la globalizzazione attraverso una riorganizzazione della produzione industriale su scala planetaria basata su criteri energetici e climatici e non più economici. Oggi assistiamo alla piena crisi del modello di società “post-industriale” che si basava su una ripartizione planetaria del lavoro, con il lavoro qualificato e la concezione delle idee, dei sistemi, del progetto, del marketing al Nord e il lavoro non qualificato e la fabbricazione di oggetti, computer, vestiti al Sud. Fino al 1960, il Sud non esportava che materie prime che venivano poi lavorate al Nord. A partire dagli anni Sessanta, l’industrializzazione del Sud ha comportato la deindustrializzazione del Nord; il Sud esporta oggi direttamente il prodotto finito, lasciando al Nord unicamente la concezione, il progetto e il marketing del prodotto. Questa situazione è rischiosa poiché il vantaggio tecnologico del Nord sul Sud si riduce ogni anno e possiamo prevedere che ci sarà presto altrettanta produzione di idee, di progetti e di concetti al Sud come al Nord, cosa che determinerà per forza una diminuzione del lavoro al Nord e un aumento della disoccupazione specialmente in Europa.
Si parla di reindustrializzazione dell’Europa, cosa che sembra necessaria nell’equilibrio globale che si dovrà realizzare nei prossimi anni, così come i paesi del Sud dovranno riequilibrare col Nord le loro condizioni sociali di lavoro. Ma se un equilibrio è da cercare per questa nuova tappa della globalizzazione, con quale criterio verranno distribuiti i compiti su scala planetaria? Al giorno d’oggi, la ripartizione planetaria tra concezione delle idee e produzione industriale si fa principalmente cercando il paese in cui la manodopera è meno cara e il diritto del lavoro meno costrittivo; qualche anno fa erano la Cina e il Messico, oggi sono il Vietnam o il Bangladesh poiché in Cina le condizioni migliorano e il costo del lavoro aumenta. Questo spostamento continuo della produzione, nella ricerca costante del paese dal minore costo è evidentemente una soluzione squilibrata che funziona su disuguaglianze sociali ed ecologiche che è difficile mantenere sul lungo periodo. Ci si deve dunque incamminare verso un equilibrio globale dei costi e delle condizioni sociali del lavoro. Noi cerchiamo un’ alternativa futura allo sviluppo urbano attuale basato su un fenomeno di globalizzazione economica squilibrato e umanamente ingiusto. La nostra ambizione è di trovare oggi i modi di influenzarla, al fine di produrre una urbanizzazione planetaria sostenibile, umanista, più giusta ed equa per l’insieme delle popolazioni mondiali.
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