Innovazioni possibili

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Ricostruire il futuro.
Pepe Barbieri

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” Basta fatti, vogliamo promesse”. Era un astuto slogan comparso sui muri di alcune città in occasione di diverse campagne elettorali. Una affermazione volutamente “sbagliata” che costringe a ripensare quanto appare, nel senso comune, indiscutibile. Invece, perché i fatti non rispondano solo ad una domanda del presente, espressione di valori, ma anche esito di errori, del passato, è necessario che siano connessi alle promesse di futuro di cui le azioni che si mettono in campo (i fatti) costituiscano il loro primo, ed esemplare, avverarsi.1
Nulla come un’emergenza può chiamare in modo più cogente all’obbligo di rispondere immediatamente con i fatti alla domanda di aiuto di città e territori disastrati. I terremoti, le alluvioni, i bombardamenti chiamano a fornire in tempi rapidi alloggi, servizi, infrastrutture. Eppure, secondo la nota frase di Churchill – molto citata in questi anni di globali crisi ricorrenti - non si può mai, in ogni caso, sprecare una crisi.
Una crisi è stata sprecata, però, ad esempio, con i fatti senza promesse realizzati nelle prime concitate fasi di intervento per il terremoto dell’Aquila del 2009. In quel territorio i fenomeni di crescita senza qualità della città sono stati accentuati dalla realizzazione del progetto C.A.S.E. Si è così generata una sequenza di episodi residenziali che se, in parte, hanno risolto i più urgenti problemi di alloggio per i terremotati, non hanno dato risposta al problema cruciale di dare una diffusa e strutturata qualità urbana ad un territorio che per molti anni si troverà privo del suo centro di riferimento: oggi l’Aquila è una estesa, frammentata e monca periferia.
Quali sono, quindi, le promesse decisive cui debbono riferirsi le azioni di intervento - ad esempio, in un post-terremoto - in cui si intenda rispondere alle necessità immediate, ma anche, insieme, innescare il processo di una ricostruzione non solo degli oggetti, ma di una complessa entità urbana – necessariamente “nuova” anche nel caso del dov’era come era – in cui i “paesaggi delle cose”, nella ricomposizione dei suoi materiali molteplici, corrispondano ai mutamenti, generati dalla emergenza stessa, dei “paesaggi sociali”?
Perché i “fatti” generino qualità urbana è necessario che l’intero processo sia guidato nella “tensione” verso tale obiettivo. E’ l’indispensabile motore di un centro di intelligenza collettiva, come ben definito nel suo editoriale da Clementi, che deve attivare le diverse filiere di competenze e azioni, collocando l’urgenza in una più ampia prospettiva spaziale e temporale. Quello di una ricostruzione non può essere inteso semplicemente come un tradizionale piano o progetto autoriale, pensato dall’alto e destinato a posarsi per fasi nel territorio. Qui gli abitanti sono già davanti a noi. Presenti con la loro personale e variegata storia dei luoghi, interrotta brutalmente dal terremoto. Una diffusa qualità dell’abitare si può raggiungere solo in un processo plurale in cui i molteplici fili di queste storie alimentino le forme da realizzare nel tempo, quali complessi dispositivi spaziali – con la selezione e il “rimontaggio” di quanto il terremoto ha drammaticamente scomposto - per realizzare non oggetti, ma luoghi che possano essere offerti a nuove esperienze di vita. Eppure questo è il nodo centrale - registrato l’ampliarsi sempre più del distacco tra il progetto delle cose che fanno la città e la vita degli abitanti - lo iato tra i saperi e i poteri, tra il dominio delle diverse tecniche e la possibilità di incidere sugli esiti della loro azione. Problema colpevolmente trascurato anche nei casi, come quelli espliciti della ricostruzione dopo catastrofi, dove memorie e vita ci interrogano direttamente sulla congiunzione tra passato e futuro. Una questione icasticamente proposta da quanto, interrogati, i cittadini affermano della ricostruzione di Le Havre – il vasto, complesso, colto e autorale progetto di Perret –: così ricostruita questa città piace solo agli architetti.2
La prima promessa, allora, deve prevedere che si pratichi costantemente l’ascolto. Un ascolto che possa continuamente alimentare una mobile visione strategica, aperta alle revisioni e adattamenti richiesti da un percorso dialogico. Ha scritto Wenders: sono diventato regista per capire come mai il nostro sguardo non ci racconta tutto quello che vorremmo sapere.3 E infatti i suoi Angeli sopra Berlino guardavano dall’alto, ma si chinavano anche all’ascolto della città, alla vita che scorreva intermittente nelle parole. Quell’ascolto necessario che, nel pensiero di Cacciari, porta a sostituire quel “gettarsi in avanti” del pro-getto con una proairesis, un cogliere, un afferrare la realtà, per comprenderla e poterla ricollocare. Anche nell’urgenza.
E’ così che può essere avviato – e proseguire lungo l’intero processo - anche di fronte all’emergenza, un indispensabile apprendimento critico dei contesti per esplorarne il potenziale e, progressivamente, nel coordinamento orizzontale e verticale tra i diversi strumenti ed azioni, metterlo in opera. Si dilata in questo modo il ruolo fondante di un “inventario” da porre all’inizio del processo di ricostruzione. Non solo, quindi, l’inventario dei danni e dei beni da salvare, ma quello delle opportunità di trasformazione presenti in un “campo di relazioni spaziali” i cui confini rappresentano una prima decisiva scelta strategica per donare qualità al processo. Questo è, quindi, il compito di un centro di intelligenza collettiva. I due termini rafforzano il senso politico della loro radice comune: inter-legere e colligere, cioè “raccogliere” per operare, insieme, in modo aperto, le scelte. 
Ciò comporta realizzare, nell’immediato dell’emergenza, “fatti” che contengano già in partenza “genomi” evolutivi flessibili. Un passaggio essenziale è, in questa direzione, predisporre un creativo progetto del suolo, primo interprete delle virtualità dei contesti. Superfici attrezzabili che, nel loro variabile spessore tridimensionale, si offrano, come dispositivi programmaticamente incompleti, ad un diversificato percorso di azioni da condividere. Era un intuizione – mal risolta – delle surdimensionate piattaforme antisismiche del progetto C.A.S.E. Si può creare, in tal modo, una prima infrastruttura relazionale – una sorta di ri-fondazione -  destinata ad accogliere nel tempo, a seconda dei casi, istallazioni provvisorie e, più tardi, definitive, ma già fornendo dall’inizio di un carattere identitario l’intervento nel suo rapporto con la morfologia dei luoghi. E questo deve avvenire sia in nuovi insediamenti, sia nel recupero dell’esistente, perché anche qui il “piano pubblico orizzontale” deve essere pensato come occasione di nuove possibili utilizzazioni - con variazione del disegno e dell’uso dei piani terreni - che consentano una maggiore permeabilità e fluidità dell’organizzazione degli spazi.  
La seconda promessa -  coerente con la prima nell’adozione di una strategia processuale di determinazione progressiva, e valutabile in itinere, delle azioni - consiste nell’ utilizzare quelli che, nel caso del terremoto aquilano, erano indicati come progetti pilota. Prototipi di futuro per la capacità di divenire manifesto direttamente esperibile delle potenzialità trasformative dei diversi contesti. In questo modo la “riscrittura” dell’esistente può essere innescata dall’evidenza esemplare di alcuni dispositivi spaziali. Architetture come enzimi possibili di una diversa tessitura dell’abitare. Frutto della scomposizione e ricomposizione di componenti diverse di una realtà estesa, interpretata come un complesso campo di forze, assumendo il paradigma albertiano della reciproca riverberazione tra casa e città. Depositati nei diversi luoghi annunciano la possibilità di attivare nei diversi contesti una concatenazione, nello spazio e nel tempo, di nuovi “fatti urbani” in cui vengano messi in opera i materiali molteplici di una entità futura. Allo stesso modo con cui Tafuri4 spiega come mai il Brunelleschi non senta il bisogno di codificare utopie urbanistiche, perché lui compie la sua rivoluzione proprio partendo dagli oggetti architettonici. Questi, autonomi e assoluti, erano destinati a intervenire nelle strutture della città medievale, sconvolgendole e alterandone i significati. Così una nuova spazialità tridimensionale (il nuovo ordine razionale) si confrontava e competeva con i tessuti urbani preesistenti.
Sono dispositivi che abbiamo sperimentato nel caso del cratere aquilano con l’obiettivo di connettere le soluzioni proposte alle prospettive più complesse di ripresa economica e sociale dei territori colpiti dal sisma.  Per loro mezzo è possibile avviare una percepibile interazione tra centro storico e contesto di area vasta, assumendo anche nuovi ruoli e funzioni in base alle programmabili modificazioni dei territori interessati, in modo di proiettare i valori “ereditati” e la loro rinnovata “presenza” anche all’esterno, in una prospettiva di rivitalizzata dialettica tra centro e territorio. In questa direzione si può utilizzare strategicamente – nel progetto di suolo -  il sistema di connessioni necessario anche ai fini della sicurezza e prevenzione, trasformandolo in una modalità, a volte alternativa ed integrabile con quella già presente, sia per la “fuga”, sia per l’accessibilità al centro storico secondo le scelte progettuali che emergono nella definizione della SUM (Struttura Urbana Minima).

La terza promessa riguarda il modo di intendere il rapporto tra patrimonio e innovazione. Tema centrale per interventi nelle diverse eredità spaziali del presente. Non solo in quelle drammaticamente frammentate per le catastrofi naturali, ma anche nei territori contemporanei, altrettanto frammentati, per la potenza pervasiva del mercato. Come visionariamente anticipato nei famosi fotogrammi finali di Zabriskie Point.
In queste realtà, strutturalmente destinate all’incompletezza, la ricerca di un nuovo colloquio tra abitanti e oggetti, tra corpi e cose, deve saper utilizzare in modo fertile questa stessa condizione, secondo innovative interpretazioni del rapporto tra continuum e discreto in base a strategie che sappiano aprire le distanze e metterle in opera con l’attivazione delle differenze, degli iati e degli interstizi. Un operare che affida all’architetto il compito di traduttore dell’esistente secondo la felice indicazione di Benjamin per la quale tradurre vuol dire saper farsi abitare dalle diverse lingue.5
In una realtà da intendere come un mobile campo di forze si succedono nella storia dell’architettura diverse strategie con le quali si interpreta la questione centrale del rapporto tra discreto e continuum.6 La interpretazione consueta è che il continuum corrisponda ad una entità senza interruzioni. Ed è in questo senso che viene inteso il continuum della natura o quello dei tessuti urbani (con i loro diversi “accidenti). Se intendiamo, invece, il continuum come il sostantivo di con–tinere (raccogliere, tenere insieme) emerge un altro suggestivo significato: il continuum su cui il progetto agisce si deve, invece, intendere come una entità che tiene in relazione tra loro una moltitudine di “differenze”. Un esempio, in questa linea, è la Fondazione Prada di Koolhaas. Abbandonato il suo “fuck the contest” l’esistente viene tutto mobilitato e si contamina reciprocamente, pieni e vuoti, per una nuova messa in scena in cui ad ogni componente – una preesistenza reinterpretata o un nuovo innesto - è affidato un ruolo cui il “sentire dei corpi” attribuirà un senso. Si genera così una spazialità polimaterica, come nella pittura astratta dove fondo, intervalli e segni di diversa natura e dimensione trasmettono i valori dinamici di un intersecato campo di flussi ed energie.
È questa nuova entità plurale in movimento che crediamo debba rappresentare la ricostruzione del futuro di un territorio terremotato. Per non fermarsi alla, pur necessaria, ricomposizione delle pietre. Nel caso dell’Aquila, ad esempio, significava fare della sua costruzione/ricostruzione un laboratorio esemplare per la realizzazione di una città aperta contemporanea secondo obiettivi di sostenibilità, di attenzione alle energie rinnovabili e alla valorizzazione del paesaggio in un teso dialogo tra la permanenza dei forti segni della natura e gli insediamenti antichi e nuovi: una nuova latente “figura” della città aquilana in grado di legare passato e futuro, rinnovando quel patto in cui, all’origine, un territorio di diversi centri aveva deciso di “rappresentarsi” in una città. Il respiro ampio di questa visione strategica, presente nell’impostazione del capo della Struttura di Missione Fontana e in diversi contributi dei gruppi interdisciplinari mobilitati dalle diverse Università, purtroppo ha trovato le resistenze della politica e di un professionismo locale che non ha saputo o voluto superare il caso per caso funzionale alla suddivisione degli appalti. Si è, tuttavia, potuto costruire un patrimonio innovativo di competenze e strumentazioni che - come con questo numero di EWT - potrà contribuire a migliori esiti futuri.

 

 

 

Note

1 W.Tocci, «Ma la retorica dei fatti nasconde molti inganni: risolve tutto un uomo solo, si risponde sempre a un'emergenza, sembra già stabilito e certo il da farsi. Non è così. Governare non significa promulgare un editto, ma aiutare i cittadini attivi che stanno già realizzando il cambiamento, che si danno il tempo necessario, che inventano insieme le soluzioni. La promessa è diventata una brutta parola nella politica mediatica. Ma è tempo di darci nuove promesse per realizzare i fatti che non abbiamo ancora immaginato».  La complessità dell’urbano (e non solo), Città Bene Comune, rivista online, Casa della Cultura e Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, 24 Gennaio 2020.

2 P.Barbieri, Una ricostruzione continua in Ricostruzione Inventario Progetto a cura di G. Rakowitz e C.Torricelli, Il Poligrafo, Padova, 2018.

3 In A.Clementi Forme imminenti, List EU, 2016, p.5.

4 Tafuri, M., Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Bari, 1968, p.25.

5 “L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera». Pannwitz, R., citato da Walter Benjamin, nel saggio Il compito del traduttore, in: Solmi, R. (cur), Angelus novus, saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p.51.

6 Hesse, M. B., Forze e campi, Feltrinelli, Milano, 1974.