Innovazioni possibili

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La pianificazione strategica nell’interesse pubblico nei piani di ricostruzione post-sisma.
Gastone Ave,
Università di Ferrara - Dipartimento di Architettura

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Parole chiave: piani strategici urbani, monitoraggio, rendicontazione, attuazione di piani e programmi

Key-words: urban strategic plans, monitoring, reporting, implementation of plans and programs




Abstract


Questo testo sostiene che l’interesse pubblico deve guidare i processi di formazione, approvazione ed attuazione dei piani strategici nelle zone da ricostruire dopo un terremoto od altre calamità naturale di vasta portata. A questo fine, il concetto di interesse pubblico va circonstanziato sul terreno dei casi in esame. La mera opposizione ai progetti non è in genere una alternativa positiva per la comunità locale, serve una capacità di prendere decisioni ed attuarle. La pianificazione strategica può essere applicata con successo per residenti, imprese ed istituzioni in una zona colpita dal terremoto. Tra le condizioni necessarie per il suo successo, occorre che il piano strategico presti attenzione, fin dal suo disegno iniziale, alla fase partecipativa nel processo di identificazione dei problemi e delle soluzioni, e che il piano includa una attività di monitoraggio e rendicontazione in capo a un soggetto terzo adeguatamente fornito di risorse e autorità per intervenire.


Interesse pubblico e pianificazione strategica

L’interesse pubblico deve guidare i processi di formazione, approvazione ed attuazione dei piani strategici nelle zone da ricostruire dopo un terremoto od altre calamità naturale di vasta portata. Questa affermazione veicola una visione su cui posso ritenere che vi sia un consenso generalizzato, ma ciò richiede, anzi impone, di chiarire per quanto possibile cosa si intenda per “interesse pubblico” e per pianificazione “strategica”. In assenza di tali precisazioni, si finirebbe con l’alimentare una nuova moda verbale che, come tutte le mode, fa perdere significato ai termini usati in modo direttamente proporzionale alla loro diffusione.  
Chi scrive ha già proposto, nel campo della pianificazione urbanistica, una definizione di “interesse pubblico”, e non è qui il caso di ritornare sull’argomento (Ave, 2020). Si può richiamare, in sintesi, che l’interesse pubblico in campo urbanistico più che essere definito per principi, va sempre contestualizzato in un luogo e in un tempo definiti. Certo, l’interesse pubblico di una città è espresso dagli atti delle amministrazioni locali che sono elette democraticamente per svolgere tale ruolo. Sappiamo però che questo non è sempre un processo semplice e lineare, anche in assenza di malfunzionamenti dovuti a incapacità amministrative o, in alcuni rari casi, a corruzione. In particolare, è nei casi più complessi di scelte di modifica del territorio che le scelte delle amministrazioni hanno bisogno di essere supportate dalla partecipazione e condivisione da parte della cittadinanza e dei principali portatori di interessi pubblici e privati. La pianificazione strategica è stata introdotta nella pianificazione spaziale per affrontare con successo e nell’interesse pubblico i nodi problematici di particolare complessità per lo sviluppo di un territorio, come documentato nella prima indagine nazionale sul fenomeno della pianificazione strategica partecipata che chi scrive ha coordinato per conto del Formez presso il Dipartimento di Architettura di Ferrara (AA.VV., 2006).
La diffusione del termine “strategia” nel lessico degli studi territoriali è stata impressionante negli ultimi anni, ma a fronte della popolarizzazione della pianificazione “strategica” non è seguito un miglioramento di pari portata dei prodotti e dei processi della pianificazione urbana. Men che meno, si sono visti miglioramenti di rilievo negli esiti di una pianificazione che richiama ad ogni piè sospinto i termini di “strategia”, “sostenibilità” ed altri che vanno per la maggiore. Per “esiti” intendo non la formulazione di un piano e neppure la sua approvazione, bensì l’attuazione del piano quindi il compimento delle trasformazioni materiali ed intangibili di un territorio oggetto di pianificazione strategica.
Se tutti i piani sono definiti “strategici”, nessuno lo è. O peggio, spalmare l’aggettivo “strategico” sopra ogni scelta di piano è il modo migliore per equiparare in un dato territorio le poche questioni autenticamente strategiche con le tante questioni ordinarie. In definitiva, l’abuso dei termini “strategia” e “strategico” porta a nascondere la diversa rilevanza nello spazio e nel tempo dei tanti problemi che le amministrazioni locali hanno sul tavolo. L’abuso dei termini “strategia” e “strategico” porta alla dispersione delle risorse, quindi al fallimento della pianificazione strategica.    


La pianificazione strategica nella formazione e nelle ricerche della scuola di Ferrara

Nell’anno 2022 ricade il trentennale della fondazione della Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara. Ho fatto parte di questa facoltà (oggi dipartimento) dalla sua fondazione, anzi ne ho condiviso l’idea fin dalla formazione del progetto durante i frequenti scambi che ho promosso dal 1989 insieme a Franco Corsico e Luigi Mazza tra Centro studi urbani del Corep (Consorzio per la ricerca e l’eduzione permanente del Politecnico di Torino) che all’epoca dirigevo, e Paolo Ceccarelli, allora rettore dello IUAV e principale esponente del comitato ordinatore della nuova facoltà. Con Ceccarelli ho avuto la fortuna di interloquire già dal 1981-82, quando io ero assistente di ricerca ad Harvard e lui era professore in visita all’MIT. Nel 1984 Ceccarelli mi ha invitato a far parte del gruppo di ricerca per la redazione del piano regolatore di Addis Abeba (Etiopia), sostenuto dalla Cooperazione italiana allo sviluppo, e mi sono trovato nella preparazione del piano fianco a fianco con Daniele Pini, all’epoca docente allo IUAV. Ho vissuto gli anni ’80 quasi sempre all’estero, a seguire progetti urbani per conto della nostra Cooperazione e di altre istituzioni internazionali.
Alla nascita della Facoltà di Architettura di Ferrara, l’area urbanistica era formata, come personale strutturato, da Paolo Ceccarelli, ordinario, Daniele Pini, associato, e Gastone Ave, ricercatore. Persone con 10-20 anni di differenza tra loro, ma tutti con alle spalle varie esperienze internazionali di studi urbani, progetti e pianificazione che hanno portato ad una visione comune della pianificazione strategica, intesa come analisi e parte inseparabile dalla proposta e dalla indicazione del percorso di realizzazione. La stessa visione che personalmente avevo sviluppato con Franco Corsico (Ave e Corsico, 1994) e con Luigi Mazza e Yvonne Rydin (Ave et. al., 1997).
Cito questi fatti perché ritengo che avere una visione comune della pianificazione urbanistica, tanto più se questa la si vuole definire di tipo strategico, non possa prescindere da una condivisione delle difficoltà che le amministrazioni locali hanno sul terreno nell’affrontare i nodi dello sviluppo di dimensioni tali da lasciare una impronta sul territorio per molti decenni. Sono le esperienze sul terreno, sotto ogni parallelo ed ogni tempo, che portano a distinguere tra i tanti problemi per i quali una normale buona pianificazione pubblica è in grado di fornire risposte adeguate, e i pochissimi nodi che richiedono l’uso della pianificazione strategica per trovare le risposte in grado di essere attuate.
Al nucleo di strutturati sopra citato si sono aggiunti nel tempo alcuni dottorati, primo tra tutti Luca Fondacci, che si è distinto sia come consulente di numerosi enti locali che come ricercatore all’Università di Perugia. L’ingresso più recente nel gruppo dei dottorati è quello di Francesco Alberti, formatosi presso l’Università Politecnica delle Marche. Altri dottorati formatisi a Ferrara si sono trasferiti in altre sedi in Italia o all’estero od operano con successo in aziende private. Il gruppo sopra citato ha beneficiato dell’esperienza di persone formatesi in atenei diversi. Vale osservare, se ve ne fosse bisogno, che la provenienza di docenti e ricercatori da un unico ateneo non avrebbe permesso lo stesso mix creativo, soprattutto nel caso di persone con curricula sviluppati sempre al chiuso di un unico ateneo senza soluzione di continuità, quindi privi di esperienze di lavoro in enti diversi dall’università.
Si è così formato nel tempo un nucleo di persone che può essere indentificato come la scuola di Ferrara di pianificazione strategica. Questa scuola ha prodotto una serie di iniziative che ritengo innovative sia sul lato della formazione, sia su quello della ricerca applicata. Ad esempio, nella formazione post-laurea, la Facoltà di Architettura ha promosso nel 1996 il CIMA-Master in City Management, il primo in Italia sul tema della gestione urbana e il primo corso master dell’Ateneo ferrarese. Dalle edizioni di questo master sono uscite diverse decine di diplomati che sono andati ad operare in enti pubblici di vario livello in tutta Italia ed hanno costituito l’associazione degli ex allievi del CIMA. Altra esperienza di rilievo è il ruolo avuto come docenti nel corso di formazione sulla pianificazione strategica all’interno del programma “Cantieri per l’innovazione”, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e frequentato da un centinaio di funzionari apicali di comuni ed altri enti pubblici di ogni parte d’Italia, nel periodo 2006-2008. Analogamente, alcuni docenti del gruppo di Ferrara sono stati chiamati a svolgere il ruolo di relatori e tutori in corsi di master e dottorato su temi di pianificazione strategica. Tra questi, ricordo il dottorato diretto da Louis Albrechts presso il Dipartimento di Architettura, Urbanistica e Pianificazione della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio).
Nell’ambito delle attività di ricerca, le persone sopra citate hanno avuto ruoli apicali nel coordinamento scientifico della ricerca sulla pianificazione strategica per lo sviluppo dei territori, finanziata dal Formez nel 2006, la prima che abbia fatto un quadro generale dello stato della pianificazione strategica in Italia (AA.VV,  2006). Un ulteriore contributo fornito è stato la redazione di oltre il 50% del primo e finora unico manuale di pianificazione strategica, prodotto da un progetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 2006 (Tanese, Di Filippo, Rennie, 2006).  
Nella ricerca applicata, i nomi sopra citati sono stati responsabili anche di numerosi piani strategici urbani, tra cui quelli di Torino (Torino Internazionale, il primo mai fatto in Italia), Perugia ( Perugia-Europa 2003-2013), Foligno (Foligno, Città delle opportunità 2008-2015), ed anche di comuni minori quali quelli dell’associazione dei comuni del Copparese (Associazione dei Comuni Copparo, Berra, Jolanda, Tresigallo, Formignana, Ro, Piano strategico 1909-2009) in provincia di Ferrara. Il piano del Copparese ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui quello del Forum PA, ed è stato tra i primi in Italia ad indicare delle modalità percorribili di cooperazione tra piccoli comuni nella gestione condivisa della pianificazione territoriale.  


I casi di Foligno e di Perugia

Il piano strategico di Foligno (Foligno, Città delle opportunità 2008-2015) ha affrontato il tema della ricostruzione della città dopo i terremoti che hanno colpito la città e gran parte dell’Umbria dal 1997 in avanti. Il responsabile scientifico del piano è stato Luca Fondacci che ha svolto e coordinato ogni fase dello studio, dal Documento quadro per la realizzazione del piano strategico per il rilancio dello sviluppo e della crescita della città e del territorio di Foligno dopo la fase di ricostruzione post-sisma Umbria-Marche del1997, fino alla fase di approvazione del piano avvenuta il 4 luglio 2008. Il piano ha saputo dare una impronta strategica, quindi con riferimenti allo sviluppo urbano di area vasta e di lungo periodo, al programma di ricostruzione della città.
Anche il piano strategico che ho coordinato a Perugia (Perugia-Europa 2003-2013) si muoveva sullo scenario dei danni arrecati dal terremoto del 1997 e 1998, ed ha cercato di fare delle zone colpite dal terremoto delle opportunità per lo sviluppo dell’intera area metropolitana, vale a dire non solo del capoluogo regionale, ma anche di tutti i 6 comuni contermini (Bastia, Corciano, Deruta, Marsciano, Torgiano, Umbertide). È stata la prima volta che le scelte urbanistiche della città di Perugia sono state fatte in un quadro formalizzato di area vasta con una procedura di partecipazione che ha coinvolti i maggiori decisori pubblici e privati dell’area.
Ma nel caso di Perugia, la vera decisione strategica, quella che ha orientato tutte le scelte a valle e che ha portato anche alla decisione di avviare un piano strategico di tipo volontario partecipato e condiviso tra Perugia e i 6 comuni contermini, è stata presa da Renato Locchi, sindaco di Perugia, nell’anno 2000. Le scosse di terremoto del 1997 e 1998 avevano accelerato i piani per il trasferimento del policlinico Monteluce, dalla localizzazione storica a fianco del centro storico, ad una nuova localizzazione a valle, nei pressi della stazione ferroviaria del capoluogo regionale. Il trasferimento era previsto nel 2005. La decisione strategica del sindaco è stata quella di vedere con un anticipo di 5 anni non solo i benefici che la nuova sede ospedaliera avrebbe potuto generare, ma anche i problemi che l’abbandono dell’immensa area occupata dal vecchio ospedale avrebbe potuto creare. Tra questi, ad esempio, il decadimento senza possibilità di controllo di un’area di proprietà pubblica a 5 minuti dal centro storico della città.
Nel 2000-01 il gruppo di Ferrara sopra citato, con la direzione scientifica di Paolo Ceccarelli, ha svolto uno studio di fattibilità sul riuso dell’area Monteluce adottando il metodo della pianificazione strategica di scala metropolitana. Lo studio ha coinvolto diverse competenze disciplinari ed è stato articolato su tre filoni, legale, tecnico, architettonico e urbanistico. Ne è emerso la convenienza per i soggetti proprietari (regione Umbria e Università di Perugia), a convergere sul disegno del comune di Perugia che preponeva una sostituzione edilizia quasi completa degli edifici ospedalieri (fuori norma sotto tutti i profili), per edificare ex-novo una zona ad uso misto in prevalenza privata con una serie di funzioni pubbliche di scala urbana. Una scelta per nulla scontata a priori, che se non percorsa avrebbe potuto fare disperdere grandi risorse pubbliche nel disperato  tentativo di ammodernare un insieme di edifici privi di qualità, costruiti a più riprese, a volta in modo caotico, tra il 1920 e il 1970 . 
Quella decisione ha innescato un movimento di funzioni pubbliche e private all’interno dei contenitori e delle aree disponibili della città. La catena di trasferimenti di funzioni e il fiorire di nuovi progetti di riuso si sono svolti sotto la regia dell’amministrazione comunale, che nel frattempo aveva approvato quasi in parallelo sia il nuovo piano regolatore, sia il piano strategico sopra menzionato. Inoltre, e soprattutto, L’attività edificatoria innescata dal trasferimento del Policlinico Monteluce si è svolta in modo coordinato con le modifiche profonde alla viabilità pubblica attese di lì a pochi anni per il previsto completamento della linea 1 della linea di trasporto di massa chiamata Minimetrò (Ave, 2009).


I piani di ricostruzioni post-sisma e il PNRR: il tema è la capacità di attuazione dei piani

Vari programmi e piani di ricostruzione sono stati avviati dopo che diversi terremoti hanno colpito le regioni italiane dal 1997. Questi programmi e piani fanno ora parte del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza dell'Italia (PNRR), finanziato dal programma Next Generation EU dell'Unione Europea. Il PNRR deve essere attuato nel 2021-2026, e l’influenza del piano sarà di lunga durata, almeno pari a quella della prossima generazione di cittadini europei. L'invasione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa del 24 febbraio 2022 ha avanzato, tra l'altro, la necessità di diversificare lo sviluppo territoriale e di accorciare le filiere produttive, soprattutto nel settore alimentare, per favorire l'approvvigionamento nazionale di energia e generi alimentari.
I contenuti del PNRR italiano sono noti. Ho già avuto modo di mettere in luce che la struttura del PNRR è quella di un classico piano strategico, con tanto di articolazione in visione, assi strategici, obiettivi e progetti, e che l’abbondanza di risorse finanziarie impone di non ripetere i principali errori commessi in passato nei piani di ricostruzione post-sisma (Ave, 2021).  Qui è utile ricordare che l’approvazione da parte della UE del PNRR italiano pone il nostro paese di fronte a due imperativi. Da un lato, la necessità di nuove politiche pubbliche la gran parte delle quali riguarda direttamente le trasformazioni del territorio. Dall’altro lato, vi è l’esigenza di avviare e portare a compimento i progetti attraverso i quali si attuano le nuove politiche pubbliche.  Ciò pone il tema del comando, gestione e controllo dei processi di pianificazione volti a “fare le cose”, in contrapposizione all'atteggiamento di “annunciare i progetti e gestirli come al solito”.
Le dimensioni in gioco sono enormi e lasceranno il segno per decenni. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (NRRP) fa parte del programma Next Generation EU (NGEU), ovvero il pacchetto da 750 miliardi di euro, di cui circa la metà sotto forma di sovvenzioni, che l'Unione Europea messo a punto in risposta alla crisi pandemica. La componente principale del programma NGEU è la Recovery and Resilience Facility (RRF), che ha una durata di sei anni, dal 2021 al 2026, e una dimensione complessiva di 672,5 miliardi di euro, di cui 312,5 miliardi di euro sotto forma di sovvenzioni, ed i restanti 360 miliardi di euro sono sotto forma di prestiti a tasso agevolato. Altre componenti rappresentano il saldo a 750 miliardi.
La parte indirizzata all’Italia è pari a 191,5 miliardi di euro (10,71% del PIL) e rappresenta la componente principale del piano europeo, in ragione dell’impatto maggiore della pandemia sul nostro paese. Si tratta di una somma pari a circa 7-8 volte la legge di bilancio annuale dell'Italia. Come ha dichiarato a suo tempo il commissario Ue all'Economia Paolo Gentiloni, il vero inizio del programma Next Generation EU si è avuto nell’agosto del 2021 con il pagamento anticipato all’Italia del 13% dei fondi previsti, circa 25 miliardi di euro. Ciò pone la domanda: come attuare i progetti bene, in tempo ed entro i bilanci previsti, visto la storia che abbiamo nel completamento dei lavori pubblici? In altre parole, come spendere bene 191,5 miliardi di euro in 6 anni, dal 2021 al 2026? Solo persone poco esperte di lavori pubblici e di urbanistica possono immaginare che questo non sia il problema oggi da affrontare.
In base a dati diffusi dalla Presidenza del Consiglio del Ministri nel 2021 è emerso che ci vogliono circa 3 anni per realizzare piccole opere (<100mila euro), e più di 15 anni per realizzare grandi opere (>100 milioni di euro). Vediamo qualche dato tra i tanti citati da ANCE in una audizione parlamentare (Ance, 2021). Secondo la Banca Mondiale l'Italia è al 97° posto su 190 paesi nella graduatoria per ottenere il permesso di costruire, ed è al 58° posto nella classifica dei paesi dove è più facile fare attività d’impresa. Secondo il rapporto ISPRA del marzo 2021 il 56% dei siti inquinati censiti è ancora nella fase iniziale delle procedure di bonifica, e solo nel 16% dei casi la bonifica dei terreni è materialmente iniziata. Secondo la relazione ANCE citata, confermata da relazioni successive della stessa fonte, se si continuasse ad operare come si è fatto sino ad ora, a fine 2026 non avremo speso più del 48% delle risorse NRRP in cantieri.
Come modificare l'impostazione corrente? Pare evidente che serva innovare su più fronti e su più livelli dell’organizzazione della cosa pubblica. Occorrono riforme delle procedure dei lavori pubblici e riforme della pubblica amministrazione locale. Serve una innovazione nel campo della formazione universitaria per architetti e progettisti che porti alla ribalta i futuri laureati attratti da una nuova idea di progresso concreto e duraturo per le nuove generazioni, con l’idea che è urgente fare le cose qui e ora, più che dibattere sui massimi sistemi e proseguire nel frattempo con gli stessi errori del passato. Occorre fare prevalere, nei processi decisionali riguardanti il territorio, il metodo della pianificazione strategica rispetto all’applicazione delle procedure burocratiche consuete.


Le radici della pianificazione strategica urbana

Le attuali teorie sulla pianificazione strategica risalgono agli anni '50 e sono sbocciate in varie discipline, principalmente economia, gestione aziendale e marketing. Vediamo qui di seguito alcune delle idee principali della pianificazione strategica e come sono state applicate alla pianificazione urbana.
Nel 1954 l'idea di "decisione strategica" è stata definita come fissare un obiettivo, un traguardo, con lo scopo di aiutare a decidere quali azioni devono essere intraprese oggi per avere risultati domani (Druncker, 1954). Vedremo nelle note conclusive che questa definizione mantiene ancora oggi la sua attualità. Nel 1971 fu chiarito che per le imprese private le decisioni strategiche non erano sufficienti, dovevano decidere: 1. dove competere, 2. come competere. Fu l'inizio della globalizzazione come la conosciamo oggi (Andrews, 1971). Nel 1979, si approfondisce il ​​concetto di “come competere”, e si sostiene che per le imprese è necessario passare dalla pianificazione strategica alla gestione strategica (Ansoff, 979).
Gli anni ’80 del secolo scorso vedono numerosi testi di Michael Porter. Nel 1980 questo prolifico autore sostiene che gli imprenditori che fanno pianificazione strategica devono tenere conto di ciò che fanno altre aziende nello stesso settore, e si devono identificare 5 fattori competitivi: 1. concorrenti, 2. fornitori, 3. clienti, 4. potenziali nuovi entranti, 5. prodotti sostitutivi (Porter, 1980). Nel 1985, mentre la globalizzazione era in piena espansione, lo stesso autore afferma che dove competere è più importante di come competere (Porter, 1985).

Negli anni '90 del secolo scorso, il concetto di pianificazione strategica è stato profondamente rivisto e aggiornato da una visione statica ad un atteggiamento dinamico. Ad esempio, nel 1994 viene sottolineata la necessità di ridimensionare il ruolo del piano e l'importanza del pensiero strategico, da statico, il piano, a dinamico, il pensiero (Mintzberg, 1994). Negli stessi anni ’90 del secolo scorso, le analisi di strategia vengono introdotte nella pianificazione urbana in Italia dal convegno “marketing urbano in Europa”, svoltosi nel 1992 a Torino. In quell’occasione si sostiene che la pianificazione strategica per le città deve essere concepita come un tutt'uno con il marketing urbano delle 3S, ovvero un marketing strategico, sociale e sostenibile dei luoghi (Ave, Corsico, 1994).
Nel 1996 l'attenzione è stata posta sul semplice fatto che non basta formulare una strategia valida, ma questa deve essere attuata in modo efficace (Porter et al., 1996). Si tratta di un concetto apparente semplice, che mette tutti d’accordo. In realtà, se così fosse,  non si capirebbe perché, soprattutto nella pianificazione urbana e territoriale, si presti così tanta attenzione alle forme del piano e così poca o nulla attenzione alle modalità di attuazione del piano stesso, sia esso strategico o no.
Nell'anno 2000 è stato affermato che le difficoltà nell'attuazione di una strategia, dipendono dall'incomprensione della strategia o dalla diversa comprensione tra persone diverse preposte alla sua attuazione (Kaplan, Norton, 2000). Sarà per questo che nella lista di controllo per l’attuazione di un piano strategico urbano, si è indicata la necessità che il piano stesso sia presente, sia pure in forme diverse, sulla scrivania di tutti i dipendenti comunali (Ave, G, La costruzione del piano, in: Tanese, Di Filippo, Rennie, a cura di, 2006, p. 104-151).
In molte città europee (Lione, Barcellona, Amburgo ecc.), la pianificazione strategica è stata ampiamente applicata da tempo, con una convergenza di azione tra attori pubblici e privati (Ave, 2018); tuttavia, permane il rischio di un mancato coinvolgimento e interiorizzazione della strategia da parte dei numerosi decisori pubblici e privati ​​coinvolti nella pianificazione urbana. Nel 2004 si è affermato che non basta fare un buon piano per una città o un buon progetto architettonico, è imperativo attuarli, poiché piani e progetti hanno senso solo se trasmettono i cambiamenti attesi, all'interno del bilancio e dei tempi previsti (Ave, 2004).
A seguito di un terremoto, gli amministratori locali sono di fronte alla necessità di agire in fretta ed alla coscienza che le azioni decise in quei frangenti possono avere ripercussioni per decenni e su territori che vanno oltre il singolo comune.  Che fare? Sulla carta si presentano tra le altre le seguenti opzioni:

Pare evidente che l’ultima opzione sia la più promettente, ma essa lascia aperta, tra le altre, la questione su come fare monitoraggio e rendicontazione efficaci, sapendo che questi elementi sono la chiave per qualsiasi pianificazione di successo, ovvero qualsiasi piano implementato nei tempi e nel rispetto del bilancio.

Principali caratteristiche del monitoraggio e della rendicontazione
L'attività di monitoraggio si riferisce all'analisi di indicatori di risultato, in grado di descrivere e qualificare i processi di cambiamento in atto, riconducibili all'attuazione del piano strategico, e l'andamento delle singole azioni e degli interventi specifici. Si attua mediante l’utilizzo di elenchi di indicatori, elenchi di ostacoli prevedibili, indagini indipendenti, rapporti sul campo di terze parti e così via. In particolare, devono essere tempestivamente segnalate problematiche che possano pregiudicare l'esito di una delle azioni bandiera del piano o di un gruppo di azioni ordinarie focalizzate su un obiettivo specifico.
Appare evidente che queste attività sono incompatibili con la presenza di “Yes Men”, vale a dire persone che interpretano il loro ruolo come portatori di sole buone notizie, e non come identificatori di problemi da risolvere. Servono esperti indipendenti nel posto giusto, non dipendenti timorosi di perdere il proprio posto. Serve un ambiente di lavoro in cui chi segnala un problema da risolvere non venga identificato con il problema, bensì come parte della soluzione.
La segnalazione deve essere tempestiva rispetto ai problemi che intende affrontare. L'attività di rendicontazione deve essere altamente selettiva (pochi rapporti sono meglio di molti, poche pagine sono meglio di tante) per consentire ai decisori di concentrarsi solo su questioni effettivamente rilevanti per il buon esito del piano strategico nel suo insieme. Il sistema di monitoraggio deve misurare non solo l'andamento dei singoli processi, ma anche il contributo che essi apportano al raggiungimento degli obiettivi strategici del piano.
Un sistema di monitoraggio, valutazione e rendicontazione è valido se è incentrato su un insieme di indicatori quantitativi e qualitativi e sullo stato di avanzamento dei singoli progetti, e se è in grado di raccogliere informazioni chiave per valutare gli esiti complessivi del piano strategico. È importante osservare che la pianificazione delle tre attività di monitoraggio, valutazione e rendicontazione, intese come un sistema globale, deve essere discussa, progettata e finanziata sin dall'inizio del progetto e aggiornata regolarmente.
La costante attività di monitoraggio e rendicontazione deve mirare a costituire una base informativa sufficiente per aggiornare o modificare sia l'impostazione della visione del piano, sia dei suoi contenuti (azioni e progetti) in cui il piano si articola. La costante attività di aggiornamento deve essere guidata da: 1. trasparenza; 2. apprendimento continuo; 3. capacità di aggiornare la visione e la strategia.
Nel caso sopra citato del trasferimento del Policlinico Monteluce a Perugia, l’amministrazione comunale ha preso nel 2000 la decisione di predisporre un piano per affrontare un problema che si sarebbe materializzato solo a partire dal 2005, ben oltre la fine del mandato dell’amministrazione stessa. Si trattava di un problema spinoso, che degli amministratori poco lungimiranti avrebbero lasciato ben volentieri in eredità ai posteri, anziché affrontare il rischio di agire subito, e quindi di sbagliare qualcosa e di vedersi recapitare un avviso di garanzia dalla magistratura per qualche firma fuori posto. Si può a ragione definire quella decisione come strategica, perché ha dato il via a una serie di progetti che hanno avuto un impatto su un’area intercomunale per un periodo che va ben oltre i 50 anni.
La decisione di prevenire con largo anticipo gli effetti negativi che si sarebbero generati dal trasferimento dell’ospedale è stato l’innesco del piano strategico della città di Perugia e dei 6 comuni limitrofi (Bastia, Corciano, Deruta, Marsciano, Torgiano, Umbertide).
Sulla base delle esperienze di pianificazione strategica urbana effettuate dal personale del Dipartimenti di Architettura di Ferrara, ed in particolare tenendo presente il caso dello spostamento del Policlinico Monteluce a Perugia, è possibile riassumere nella tabella seguente le condizioni necessarie per poter definire strategico un piano urbano.


Le 5 caratteristiche che piani urbani e territoriali devono avere per essere considerati di tipo strategico

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Fonte: G. Ave, Relazione all’8° Workshop IDAUP-International Doctorate Architecture and Urban Planning, Università di Ferrara, 13 luglio 2022.

La tabella è intesa come un metro per misurare, caso per caso, se un atto di pianificazione territoriale comunque denominato (programma, piano, progetto, misura, ecc.) può essere considerato di tipo strategico o meno. Se venisse applicata, avrei l’impressione che la gran parte dei piani che nel linguaggio corrente, anche degli esperti, sono definiti come “strategici”, apparirebbero come piani ordinari. Nel tempo l’aggettivo “strategico” è stato logorato dall’abuso che se ne è fatto, né più né meno come è avvenuto ad altri termini divenuti di moda quali “sviluppo sostenibile”, “piani strutturali”, ed altri.
Resta la necessità di ricercare, qui ed ora, nei casi concreti in cui si opera, che cosa possa essere una “decisione strategica” nei processi di pianificazione territoriale ed urbanistica in cui siamo coinvolti ogni giorno. Ritengo che nella pianificazione urbana e regionale, una "decisione strategica" possa essere definita analizzando quali azioni concrete devono essere intraprese oggi per avere risultati domani. A ben vedere, la definizione secca di decisione strategica pur se data negli anni 50 del secolo scorso e non riferita alla pianificazione territoriale (fissare un obiettivo allo scopo di aiutare a decidere quali azioni devono essere intraprese oggi per avere risultati domani )  mantiene intatta la sua applicabilità anche in campo urbano  (Druncker, 1954).
Nella pianificazione urbana e regionale, sulla base delle esperienze sopra citate, ritengo che un piano o un’azione di trasformazione del territorio possano essere correttamente definiti come piani o azioni di tipo strategico quando ricorrono tutte le seguenti condizioni:   




Riferimenti

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