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Questioni in gioco nella ricostruzione post-sisma
Antonio Mannella, Ricercatore CNR-ITC L’AquilaPDF




1. Introduzione

In Italia gli interventi di ricostruzione post sisma degli edifici privati sono sempre stati finanziati con contributi pubblici. In altri paesi, in particolare in quelli anglosassoni, invece ci si affida prevalentemente al supporto delle assicurazioni; ciò comporta una differenza di approccio sostanziale, che influisce in vari modi sulle attività e sulla definizione stessa di ricostruzione, come vedremo nel seguito.
Nonostante ciò, nell’ordinamento giuridico italiano non è presente alcuna legge organica di disciplina delle ricostruzioni post-sisma. Con il susseguirsi degli eventi sismici si è però venuta a creare una consuetudine nell’impianto generale e nella gestione di alcuni processi inerenti la ricostruzione degli edifici privati, che rappresentano di gran lunga la maggioranza degli edifici colpiti dal sisma: in particolare nell’ambito della ricostruzione post sisma dell’Abruzzo del 1984 furono emanate, tra le altre, l’Ordinanza 230/FPC/ZA del 05/06/1984 e l’Ordinanza 905 dell’11 febbraio 1987 (quasi tre anni dopo il sisma) a disciplinare, rispettivamente, gli interventi sugli edifici lievemente e maggiormente danneggiati, la cui impostazione è stata di nuovo adottata, di volta in volta, con alcuni cambiamenti, per tutte le ricostruzioni post sisma fino al 2009.
La prima normativa tecnica che descriveva le modalità di verifica e di intervento sugli edifici esistenti era di poco precedente:  era contenuta nel DM 02/07/1981 ed incredibilmente, nonostante i progressi scientifici conseguiti, è rimasta un importante punto di riferimento anche per l’esecuzione degli interventi antisismici sugli edifici esistenti non danneggiati dal terremoto fino all’entrata in vigore dell’OPCM 3274/2003, emanata a seguito dell’evento che ha colpito San Giuliano di Puglia nel 2002, in quanto tutte le Norme Tecniche per le Costruzioni emanate fino al 2005 si occupavano solo delle nuove costruzioni.
Dal punto di vista procedurale le citate Ordinanze del 1984 e 1987 disciplinavano le modalità di intervento per la riparazione o la ricostruzione degli edifici privati definendo il contributo massimo a disposizione, le modalità di rilascio delle autorizzazioni e le modalità di gestione dei lavori riguardanti gli edifici non isolati, i cosiddetti edifici in aggregato, molto frequenti nei nostri centri storici. Entrambe le norme citate e tutte quelle successive, a parte quelle relative alla ricostruzione post sisma 2009 delle periferie, avevano un’impostazione definita parametrica, secondo la quale il contributo a disposizione per la riparazione del danno e la riduzione della vulnerabilità sismica derivava sostanzialmente dal prodotto della superficie del fabbricato per il costo unitario d’intervento; quest’ultimo determinato facendo riferimento ad alcuni parametri che pesano il livello di danno e la vulnerabilità sismica dell’edificio oggetto di intervento.
Effettivamente tutti gli eventi sismici che hanno colpito il territorio italiano dopo il 1908 e fino al 2009, hanno interessato in prevalenza aree rurali, coinvolgendo le città più popolose solo marginalmente. Invece il sisma del 2009, in modo simile a quello che colpì Messina nel 1908, ha coinvolto un capoluogo di regione di media grandezza con un’estesa zona industriale e un importante centro storico. Le attività per sostenere la ricostruzione di una città di 70.000 abitanti come L’Aquila, sede di tutte le principali istituzioni regionali, sono ben diverse da quelle necessarie a garantire la ripresa di borghi di dimensioni minori comprendenti perlopiù edifici a destinazione d’uso sostanzialmente residenziale. Da questo punto di vista il terremoto del 2012 che ha colpito un’area a cavallo tra l’Emilia-Romagna, il Veneto e la Lombardia, ha rappresentato nuovamente un unicum sul territorio nazionale, in quanto in quel caso, gli eventi sismici hanno interessato comuni non molto popolosi, ma comprendenti un territorio con una delle aree più industrializzate del paese.
Con la ricostruzione post sisma del 2009 sono state introdotte sostanziali novità inerenti le procedure fino ad allora adottate per la ricostruzione delle aree colpite da eventi sismici; alcune di queste hanno prodotto visibili effetti favorevoli, altre sono state meno incisive, talune non hanno sviluppato tutta la loro potenzialità a causa della cessazione della struttura commissariale. Verranno qui illustrate alcune delle innovazioni introdotte nel processo di ricostruzione degli edifici privati, cercando al contempo di fornire alcune considerazioni sulla loro efficacia.


2. Riparazione del danno e altri interventi

Nell’introduzione si è accennato al fatto che in Italia le attività di ricostruzione, in quanto finanziate prevalentemente dallo Stato, comprendono sempre, oltre la riparazione del danno, anche l’esecuzione di interventi di riduzione del rischio sismico. Questa impostazione ha origini molto lontane, infatti in molti comuni italiani sono ancora riconoscibili gli interventi eseguiti dal Genio Civile a seguito dei terremoti che hanno colpito l’Italia all’inizio del XX secolo. Una delle domande in cerca di risposta da molti anni è quella relativa al livello di sicurezza che è necessario garantire con gli interventi di riduzione della vulnerabilità dell’edificato, a maggior ragione quando tali interventi riguardano un edificato danneggiato dagli eventi sismici, ma forse non è questa la questione principale che merita una risposta.
Le norme inerenti la ricostruzione post sisma di volta in volta approvate hanno assegnato agli edifici poco danneggiati un contributo per la ricostruzione sufficiente alla riparazione del danno e all’esecuzione di limitati interventi di riduzione della vulnerabilità sismica, mentre agli edifici danneggiati in modo più grave in genere è stato riconosciuto un contributo maggiore, sufficiente a garantire anche l’esecuzione di interventi di miglioramento sismico, più invasivi.
Fino al 2009 l’appartenenza di un singolo fabbricato ad una delle fasce sopra citate, e la relativa quantificazione del contributo spettante, era definita a seguito delle risultanze di un rilievo eseguito in un secondo momento, generalmente a distanza di alcuni mesi, rispetto al rilievo dell’agibilità sismica, eseguito nell’immediatezza dell’evento. Il rilievo del danno e dell’agibilità sismica è stato introdotto gradualmente a partire dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso [Braga et al, 1982]; una indicazione inerente la condizione di agibilità sismica dell’edificio è stata inclusa per la prima volta nelle note della scheda di rilievo del danno utilizzata a seguito del terremoto del 1984 in Abruzzo. Dal 1997 le attività di rilievo sono effettuate con la scheda di rilievo dell’Agibilità e Danno nell’Emergenza Sismica o scheda Aedes. L’utilizzo di questa scheda è stato prescritto nei terremoti di L’Aquila e dell’Emilia-Romagna tramite Ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, mentre in seguito è stata adottata definitivamente quale strumento di rilievo post sisma con un DPCM, nel 2014. Questa scheda speditiva, compilabile in poco tempo, anche in condizioni disagevoli, quali sono quelle relative ad una fase di emergenza post sisma, consente di raccogliere informazioni codificate sul livello di danneggiamento dell’edificio e sulle condizioni di agibilità dello stesso. In particolare il livello di agibilità è articolato su tre fasce: agibile (esito A) per gli edifici utilizzabili, senza interventi significativi, con un grado di sicurezza prossimo a quello che avevano prima dell’evento sismico; agibile con provvedimenti (esito B) o parzialmente agibile (esito C) per gli edifici lievemente danneggiati, che necessitano di interventi limitati o circoscritti per tornare agibili; inagibile (esito E) per gli edifici gravemente danneggiati, che generalmente necessitano di interventi più estesi ed importanti da attuarsi con tempistiche maggiori. Oltre queste tre fasce di agibilità ce ne sono altre due, adibite rispettivamente agli edifici da rivedere, definiti temporaneamente inagibili e a quelli inagibili a causa di rischi esterni all’edificio stesso.
Con la ricostruzione post sisma del 2009 è stata introdotta una importante novità, riproposta in parte anche nei terremoti successivi: al fine di accelerare i tempi della ricostruzione, si è scelto di non effettuare il secondo passaggio dedicato al rilievo del danno, ma di fare riferimento direttamente all’esito di agibilità indicato nella scheda Aedes. Ciò ha permesso di anticipare di mesi l’avvio della fase di ricostruzione, al prezzo di una “forzatura” metodologica: agibilità e grado di danneggiamento di un immobile non sono sinonimi, infatti nella scheda Aedes sono riportati esaminati in due sezioni ben distinte, anche se collegate: un edificio con un danno limitato, ad esempio, può ben essere classificato inagibile, con esito E, se la localizzazione del dissesto è comunque tale da pregiudicarne la sicurezza e la fruibilità nel suo insieme. Con il terremoto del 2016, che in parte ha colpito le stesse zone già danneggiate dal sisma del 2009, è stato registrato per di più un fenomeno singolare, esteso non solo agli edifici privati, ma anche ad alcune categorie di edifici pubblici come le scuole: i cittadini, già colpiti da un altro terremoto pochi anni prima, avendo compreso che le modalità di intervento sugli edifici sarebbero state legate all’esito di agibilità, alcune volte hanno esercitato pressioni sui rilevatori, anche con la nascita di specifici comitati1, affinché fossero particolarmente severi nell’attribuzione del giudizio di agibilità. Questa situazione ha generato ulteriori pressioni sui tecnici incaricati dei rilievi, chiamati ad assolvere ad un compito già difficoltoso, soggetto a rischi notevoli e comportante forti responsabilità e probabilmente ha condizionato, almeno in parte, l’attività amministrativa successiva alla definizione degli esiti di agibilità, con particolare riferimento alle scuole. E’ auspicabile quindi, da questo punto di vista, che il contributo per la ricostruzione in futuro si possa legare al danno, pure rilevato nella scheda Aedes, e non all’esito di agibilità; purtroppo però sulle modalità di classificazione del danno la comunità scientifica non ha assunto ancora un orientamento condiviso, essendo state proposte nel corso del tempo varie metodologie per la definizione di un indice di danno complessivo, tra cui [Sabetta et al.,1998; Rota et al., 2008, Dolce et al., 2019], che conducono a valori anche significativamente diversi tra loro.
Contestualmente al riferimento diretto alla scheda Aedes, per la ricostruzione delle periferie colpite dal sisma del 2009, è stata introdotta una ulteriore novità nel processo di ricostruzione degli edifici privati, relativa all’analisi diretta e al finanziamento del progetto esecutivo d’intervento, senza fare riferimento ad alcun modello parametrico. Questa modalità di definizione del contributo era stabilita nelle OPCM 3779/2009 e l’OPCM 3790/2009 emanate a luglio 2009, contenenti la disciplina per la riparazione del danno e miglioramento sismico rispettivamente per gli edifici lievemente e gravemente danneggiati. Qualche mese dopo, a novembre 2009, è stata pubblicata l’OPCM 3820/2009, che disciplinava gli interventi sugli edifici in aggregato e dopo alcuni altri mesi, a chiudere il quadro, è stata pubblicata l’OPCM 3881/2009, che definiva i limiti di contributo erogabili per gli edifici gravemente danneggiati (quelli con esito E) e per gli edifici vincolati. Negli stessi mesi il quadro normativo è stato completato da alcuni decreti e circolari del Commissario Delegato per la Ricostruzione, il cui contenuto sarà meglio illustrato più avanti.
L’analisi diretta dei progetti d’intervento è stata attuata tramite convenzioni stipulate con i vari comuni del cratere, e in particolare con la città di L’Aquila, dalla cosiddetta “Filiera”, costituita da Fintecna, che si occupava degli aspetti amministrativi delle pratiche di richiesta del contributo, da Reluis - Consorzio della Rete dei Laboratori Universitari di Ingegneria Sismica e Strutturale, che si occupava di analizzare gli aspetti strutturali, e da CINEAS - Consorzio Universitario per l'Ingegneria nelle Assicurazioni, che analizzava gli aspetti economici. La velocità nella pubblicazione delle Ordinanze sopra citate, avvenuta a pochissimi mesi dagli eventi sismici e la descritta modalità di analisi dei progetti, hanno consentito di trattare allo stesso modo sia gli edifici a destinazione abitativa, sia gli edifici produttivi, peraltro risultati generalmente poco danneggiati.


3. Edifici con danni lievi

Per gli edifici con danni lievi, nel comune di L’Aquila, l’attività istruttoria si è concentrata in pochi mesi: oltre la metà dei contributi è stata rilasciata tra i mesi di dicembre 2009 e febbraio 2010, con picchi di oltre 2.000 contributi al mese, per terminare quasi completamente a distanza di circa un anno [Dolce et al, 2015]. Nei restanti comuni del cratere il rilascio dei contributi per gli edifici lievemente danneggiati è avvenuto più lentamente, fino al mese agosto 2013. Per questi edifici, come accennato precedentemente, la normativa prevedeva sia dei fondi per la riparazione del danno che per la riduzione della vulnerabilità sismica, quest’ultima da attuare tramite i cosiddetti “interventi di rafforzamento locale”, interventi considerati veloci e poco invasivi, tant’è vero che il 60% dei cantieri ha avuto una durata inferiore a 6 mesi e circa il 90% inferiore ad 1 anno [Mannella et al, 2020].


4. Edifici con danni gravi

Per la ricostruzione degli edifici con danni gravi ubicati nelle periferie è stata mantenuta la stessa impostazione di base adottata per la ricostruzione degli edifici con danni lievi. La complessità degli interventi da attuare e la scelta di garantire la disponibilità economica per realizzare anche interventi di miglioramento sismico volti a garantire un livello minimo di sicurezza sismica pari almeno al 60% di quello degli edifici nuovi, ha determinato però la necessità di creare un quadro normativo più articolato di quello adottato per la riparazione degli edifici con danni leggeri in quanto il danneggiamento più significativo e la necessità di raggiungere un predeterminato livello di sicurezza sismica possono comportare la necessità di realizzare interventi piuttosto invasivi, con conseguenze importanti anche sui restanti sistemi tecnologici dell’edificio e sulle finiture edili.
Da diversi anni la comunità scientifica dibatte sul valore dell’indice di sicurezza minimo da raggiungere nel caso si intervenga sugli edifici esistenti, a maggior ragione se danneggiati dagli eventi sismici. Alla base di questo dibattito c’è l’assunzione che nella ricostruzione post-sisma sia comunque necessario prevedere interventi di miglioramento sismico per gli edifici danneggiati; le implicazioni che comporta questa scelta sono state pienamente affrontate per la prima volta nella ricostruzione degli edifici privati danneggiati dal sisma del 2009.
La componente strutturale di un edificio non è la componente più costosa: in un edificio di nuova realizzazione il costo delle strutture si aggira intorno al 25% del totale. Un ulteriore 30% circa è ascrivibile agli impianti tecnologici, mentre la restante parte è riferibile alle lavorazioni inerenti all’efficientamento energetico e alle finiture edili. D’altra parte dal comportamento della componente strutturale dipende la salvaguardia di tutti gli altri sistemi dell’edificio oltre, naturalmente della vita umana.
Nel corso della ricostruzione degli edifici con danni gravi delle periferie aquilane è stato affrontato per la prima volta il tema del finanziamento delle opere impiantistiche prevedendo espressamente che parte dei fondi a disposizione fosse destinato all’adeguamento alla normativa vigente. Tale decisione è stata presa in considerazione della necessità di intervenire sulle dotazioni impiantistiche dell’edificio conseguentemente agli interventi sugli elementi strutturali, in quanto spesso, per raggiungere le strutture, è necessario coinvolgere nelle lavorazioni anche la parte impiantistica. In particolare, se negli impianti elettrici e del gas sono presenti componenti obsolete o non certificate, queste non possono semplicemente essere riparate, ma devono essere sostituite integralmente. Questa situazione si verifica sempre nel caso di edifici realizzati almeno fino alla fine degli anni ’80. Lo stesso problema, ma per motivi diversi, si pone quando nell’edificio sono presenti elementi contenenti amianto, che deve essere integralmente rimosso prima di poter procedere all’esecuzione di qualsiasi ulteriore lavorazione.
Nel caso della ricostruzione post-sisma di un edificio senza particolari elementi di pregio storico artistico, inoltre, l’incidenza del costo degli interventi strutturali può divenire molto elevato, fino ad arrivare al 50-60% del costo di costruzione di un edificio nuovo; inoltre è stato dimostrato più volte che l’indice di sicurezza di un edificio esistente non varia linearmente al variare del costo degli interventi di rafforzamento strutturale, ma tende ad un asintoto [Cifani et Al, 2007]. Ciò accade perché, tipicamente, gli edifici esistenti concepiti con riferimento a norme sismiche obsolete o in assenza di norme specifiche hanno carenze connaturate alle loro caratteristiche geometriche e/o nella concezione strutturale, non sempre sanabili con interventi a posteriori, per quanto questi possano essere invasivi o radicali.
Ciò può comportare che il costo complessivo dell’intervento di riparazione del danno, miglioramento sismico e adeguamento impiantisco possa essere maggiore del costo di realizzazione di un edificio nuovo; inoltre, anche la complessità e la durata delle lavorazioni può comportare tempi d’esecuzione notevoli.
È necessario infine segnalare che le attuali, come le precedenti Norme Tecniche per le Costruzioni, nel caso di interventi di interventi di miglioramento sismico su edifici esistenti, al contrario di quanto accade negli edifici di nuova realizzazione, non richiedono che siano verificate determinate condizioni inerenti la salvaguardia degli elementi non strutturali in caso di eventi sismici. Ciò comporta la possibilità che anche in edifici migliorati sismicamente, gli elementi non strutturali, quindi le tamponature, la parte impiantistica e le finiture edili, possano danneggiarsi molto più che negli edifici di nuova costruzione: si migliorano le prestazioni dell’edificio nei confronti della salvaguardia della vita umana, ma si hanno garanzie limitate sulla protezione dell’investimento sostenuto.
Per gestire le condizioni sopra descritte fu introdotto un limite al contributo concedibile, definito limite di convenienza economica dell’intervento.


5. Il limite di convenienza economica dell’intervento

Il concetto di limite di convenienza economica dell’intervento è stato introdotto per rendere più efficace l’attività di ricostruzione degli edifici delle periferie maggiormente danneggiati dal sisma.
Per i motivi illustrati al paragrafo precedente, con i soli interventi di miglioramento sismico si correva il rischio di investire una ingente quantità di fondi per intervenire su edifici con importanti carenze, non solo strutturali, ma anche riferibili agli impianti tecnologici, all’isolamento termico e acustico e alle barriere architettoniche. L’importo individuato come limite di convenienza economica dell’intervento è stato concretamente definito in maniera da essere riferito direttamente ai costi di costruzione attuali dell’edilizia locale. Questo derivava infatti direttamente dal costo di costruzione dell’edilizia agevolata in Abruzzo, quantificato in specifici provvedimenti regionali sulla base di parametri definiti a livello nazionale e dei costi effettivi di costruzione nell’ambito della regione. All’importo così ottenuto era sommato il costo per la demolizione dell’edificio esistente e lo smaltimento delle relative macerie. L’introduzione del limite di contributo così concepito fu molto importante ai fini della definizione delle modalità di ricostruzione, in quanto per la prima volta venne sancito il principio che potessero essere demoliti e ricostruiti non solo gli edifici gravemente danneggiati, come avveniva nelle precedenti ricostruzioni post-sisma, ma anche gli edifici che, a causa delle loro caratteristiche intrinseche, avevano un costo di riparazione e miglioramento sismico troppo alto rispetto agli edifici di nuova realizzazione. Con la ricostruzione post-sisma del 2009, in altre parole, si è passati da una quantificazione tipologica del danno ad una sua quantificazione economica.
Anche dal punto di vista prettamente architettonico, la sostituzione edilizia ha offerto l’occasione per rinnovare il panorama delle periferie. Il freno alla realizzazione di edifici con configurazioni plano-altimetriche e/o distributive sostanzialmente diverse da quelle precedenti in questo caso è stato prettamente burocratico; norme urbanistiche più flessibili e meglio adatte allo scopo sarebbero state molto utili allo scopo.
La struttura commissariale individuò altresì delle forme per incoraggiare la strada della cosiddetta “sostituzione edilizia” anche nei casi in cui il limite di convenienza non veniva superato per i motivi precedentemente illustrati: un edificio nuovo non è solo adeguato sismicamente, ma è allineato alle vigenti norme di settore anche in tutti gli altri aspetti costruttivi, con evidente vantaggio sotto molti aspetti per il patrimonio abitativo del territorio in generale. Fu intrapresa quindi la strada di legare parte del contributo per il miglioramento sismico al raggiungimento di specifici requisiti inerenti le prestazioni impiantistiche, energetiche e di superamento delle barriere architettoniche. Va segnalato peraltro che la stratificazione delle norme avvenuta successivamente alla chiusura della struttura commissariale ha svincolato i costi per la ricostruzione dal costo di costruzione dell’edilizia agevolata, perdendo così la possibilità di adeguare automaticamente il finanziamento per la riparazione del danno alla variazione dei costi dell’edilizia sul territorio.
In seguito sia il tempo medio di analisi delle pratiche, sia la durata dei lavori, hanno registrato, comprensibilmente in relazione alla maggiore complessità dei casi da affrontare, aumenti significativi rispetto ai tempi della ricostruzione degli edifici lievemente danneggiati. In particolare la durata dei cantieri solo nel 70% dei casi è stata inferiore a 24 mesi, e nel 5% dei casi ha addirittura superato i 36 [Mannella et al, 2020]. A distanza di alcuni anni dal termine della fase di ricostruzione delle periferie (alla fine del 2016 circa il 90% della popolazione delle periferie era rientrato nelle proprie abitazioni) a L’Aquila si registrano differenze dell’ordine del 20-30%. nel valore di compravendita tra gli immobili riparati e migliorati sismicamente ed energeticamente e quelli oggetto di sostituzione edilizia.


6. La conservazione dei centri storici e degli edifici con elementi di pregio storico- architettonico

La possibilità di ricorrere alla sostituzione edilizia, facendo riferimento alla convenienza economica dell’intervento non è applicabile indistintamente a tutte le categorie di edifici. Gli edifici soggetti a vincolo diretto o indiretto sicuramente non rientrano tra gli edifici che possono essere oggetto di demolizione e ricostruzione per motivi prettamente economici. Tali edifici non sono gli unici da preservare: anche a seguito di un terremoto particolarmente distruttivo quale quello che ha colpito l’Abruzzo nel 2009, l’identità dei centri storici è il maggior valore aggiunto dei territori colpiti dal sisma, come del resto per molti altri territori italiani. D’altra parte la qualità e i contenuti degli strumenti urbanistici vigenti alla data del sisma sono apparsi subito particolarmente insufficienti per gestire un evento così complesso quale la ricostruzione post sisma, quindi si è agito su due fronti complementari: i piani di ricostruzione e gli incrementi di contributo riconosciuti agli edifici soggetti a vincolo e agli edifici con particolari caratteristiche di pregio storico-architettonico. Quest’ultima categoria di edifici, introdotta con la ricostruzione del 2009, comprendeva gli immobili, non soggetti a vincoli specifici, che per caratteristiche costruttive, storiche e di contesto erano meritevoli di essere preservati e valorizzati. Pertanto, per la ricostruzione dei centri storici, furono tracciate due strade parallele: la prima comprendeva i piani di ricostruzione, necessari, sia per definire le aree dei centri abitati nelle quali era ritenuta opportuna una pianificazione di livello urbanistico, piuttosto che edilizio, sia per individuare gli edifici meritevoli di essere conservati e valorizzati; la seconda comprendeva gli incrementi al contributo necessari per permettere l’effettiva riparazione e valorizzazione degli edifici danneggiati individuati dai piani di ricostruzione. La chiusura della struttura commissariale è avvenuta quando solo pochi piani di ricostruzione erano stati approvati; la gran parte è stata approvata successivamente dall’Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere (USRC).
Le modifiche normative e il periodo di transizione dalla gestione operata dalla struttura commissariale alla gestione degli Uffici Speciali purtroppo hanno determinato un calo d’interesse nei confronti dei piani di ricostruzione, che hanno perso parte delle funzioni e dell’efficacia inizialmente prevista. I vari comuni del cratere hanno seguito strade anche sostanzialmente diverse nell’attuazione dei piani stessi e nella conseguente pianificazione degli interventi; alcuni piani si sono dimostrati molto più efficaci di altri, sia come ausilio alla pianificazione degli interventi, sia dal punto di vista della qualità imposta all’esecuzione degli interventi stessi.
Contestualmente alla chiusura della struttura commissariale, venne modificato anche il meccanismo per il rilascio dei contributi; in luogo della Filiera e dell’analisi diretta dei progetti d’intervento venne adottato un modello parametrico, sulla falsariga di quelli adottati nelle ricostruzioni post sisma precedenti al 2009. Il modello parametrico di concessione del contributo presenta un vantaggio molto importante rispetto alla analisi diretta del progetto d’intervento: la flessibilità. I pochi dati sopra illustrati mostrano l’incremento sia dei tempi dell’attività istruttoria per il rilascio del contributo, sia della durata della fase di cantierizzazione, conseguente al passaggio dagli interventi relativi agli edifici lievemente danneggiati a quelli danneggiati gravemente. Gli edifici in aggregato, perlopiù ubicati nei centri storici, sono insiemi di edifici con vari livelli di danneggiamento, articolazioni spaziali anche molto complesse e modalità costruttive molto più complesse degli edifici delle periferie, tipicamente realizzati in epoche più recenti e meno soggetti a rimaneggiamenti nel corso del tempo. Queste condizioni comportano incrementi, anche notevoli, della complessità dei progetti d’intervento.
All’aumentare della complessità dell’edificato e delle lavorazioni da eseguire, non è infrequente che nel corso dei lavori si renda necessario apportare delle modifiche al progetto originario; nel caso degli edifici isolati e di costruzione relativamente recente tali modifiche, a meno di importanti carenze progettuali, generalmente sono di dettaglio. Ma nel caso degli edifici ubicati nei centri storici, rimaneggiati più volte nel corso del tempo e aggregati ad altri edifici a formare sistemi ancora più complessi, le modifiche possono diventare sostanziali e, nel caso in cui il contributo sia vincolato al progetto approvato, richiedere una o più revisioni dello stesso. Il problema principale delle modifiche da apportare al progetto approvato risiede nella validazione delle stesse e nella successiva autorizzazione all’esecuzione; è estremamente complicato definire quali modifiche possono essere effettuate senza arrestare o rallentare i lavori in modo significativo per chiedere una revisione del contributo; d’altra parte, fermi più o meno prolungati del cantiere non sono compatibili con la gestione delle imprese che si troverebbero rapidamente in condizioni di sofferenza.
Al contrario, nel caso del contributo concesso su base parametrica, eventuali modifiche al progetto, anche sostanziali ma fermo restando il rispetto di determinate condizioni prestazionali, non richiedono necessariamente una revisione del contributo stesso.
Se il modello parametrico comprende pochi parametri per la definizione del contributo si rischia di generare una distribuzione iniqua dei fondi. Mentre nel caso in cui il modello parametrico sia particolarmente raffinato e quindi consenta di distribuire i fondi con maggiore precisione, la sua gestione può diventare particolarmente complicata e farraginosa allungando a dismisura i tempi di rilascio del contributo. Si allungano anche i tempi richiesti per l’attività di progettazione in virtù del maggior numero di elaborati da produrre, non necessari all’esecuzione delle lavorazioni, ma solo alla corretta quantificazione dei parametri. In generale si può ritenere che molti dei parametri considerati, volti a descrivere le caratteristiche geometriche e di vulnerabilità dell’immobile, possano essere standardizzati ed utilizzati per qualunque ricostruzione post-sisma, anche se ciò fino ad ora non è mai avvenuto. Altri parametri, legati, come nel caso della ricostruzione abruzzese, alla conservazione e alla valorizzazione del costruito, sono invece più strettamente correlati alle tipologie costruttive di ogni specifico territorio, quindi non sono direttamente standardizzabili; anche in questo caso però potrebbero essere adottati dei riferimenti comuni.


7. I tempi della ricostruzione e l’abbandono del territorio

Il tempo di avvio della macchina della ricostruzione, quello di rilascio del contributo e quello di esecuzione degli interventi, quindi, in sintesi, il tempo che impiega la popolazione a tornare nelle proprie abitazioni, è uno dei parametri che condiziona l’abbandono dei territori colpiti da eventi sismici disastrosi, e dunque l’effettiva ripresa socio-economica degli stessi. E’ pertanto uno dei fattori sui quali ci si dovrebbe concentrare maggiormente nella gestione di qualsiasi processo di ricostruzione, in quanto fortemente dipendente dal modello di ricostruzione adottato. Ognuno dei passaggi sopra illustrati: il ripristino delle attività produttive, la ricostruzione degli edifici lievemente danneggiati, quella degli edifici più danneggiati, la pianificazione e la ricostruzione dei centri storici e degli edifici soggetti a vincolo, è decisivo nel sancire il successo dell’attività di ricostruzione nel suo complesso.
La possibilità di attingere alle esperienze passate può far risparmiare mesi o anche anni al processo di ricostruzione. Andrebbe, inoltre, esplorata la possibilità di eseguire immediatamente, quando possibile, limitati interventi di riparazione del danno e di rafforzamento locale, in luogo dei costosi e lunghi interventi di miglioramento sismico, anche per gli edifici con esito di agibilità E. Superata la primissima fase della ricostruzione, quando nel centro storico di L’Aquila era ancora in corso la rimozione delle macerie degli edifici crollati, diverse attività commerciali hanno espresso la richiesta di poter riaprire in attesa degli interventi di ricostruzione definitiva. È stata messa a punto una modalità che permetteva il rilascio di quella che è stata definita un’agibilità provvisoria, ma i criteri richiesti a inquadrare gli interventi necessari nel percorso della ricostruzione, compreso un eventuale livello minimo di sicurezza da garantire, non sono mai stati definiti compiutamente.
L’altro obiettivo da perseguire nelle attività di ricostruzione post-sisma riguarda sicuramente la qualità del costruito, intesa non solo come qualità degli interventi strutturali, dalla quale naturalmente non si può prescindere, ma anche come qualità degli interventi di recupero e valorizzazione dell’esistente, non solo dal punto di vista edilizio, ma anche urbanistico e sociale. Un centro storico sostanzialmente abbandonato per molti anni dopo il verificarsi dell’evento sismico difficilmente tornerà a vivere se non potrà offrire risorse specifiche che lo contraddistinguono e che generano una peculiare attrattività, oltre che una qualità della vita migliore di quella di una qualsiasi periferia. Tutto ciò, nel caso dei piccoli comuni, comporta un rischio che potrebbe determinare o accentuare il loro spopolamento e dunque la vanificazione delle ingenti risorse dedicate del recupero post sisma.




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Note

1 Ad. Es.  il Comitato “Scuole sicure”, a L’Aquila