Ricostruzione edilizia e riassetto urbanistico
Con l’emergenza post sisma almeno assestata (anche se tutt’altro che superata) l’azione della ricostruzione posta in atto nella città dell’Aquila fa ancora i conti con gli effetti della prolungata e pervicace rinuncia ad una programmazione territoriale al passo con i tempi. Non sono molti i comuni italiani, men che mai capoluoghi di Regione, che possono vantare una longevità del proprio strumento di pianificazione vigente paragonabile a quella dell’Aquila, che tra tre anni compirà il mezzo secolo. Considerando che le ultime iniziative in merito sono state congelate già da sette anni (allo stadio di documento preliminare approvato con D.C.C. n. 118 del 26/11/2015 - https://www.comune.laquila.it/pagina1263_documento-preliminare-del-nuovo-prg.html) si intravedono credibili possibilità per la città abruzzese di sforare ampiamente il record dei 50 anni con lo stesso dispositivo di governo urbanistico (Ciabò et al., 2017). Molte città italiane sono già dotate di PRG elaborati dopo il 2010, con importanti attenzioni verso le qualità ambientali, e il confronto con le date di aggiornamento ultimo di altri comuni affini per dimensioni e problematiche è impietoso: Terni 2003, Rieti 2004, Lanciano 2011, Sulmona 2006, Teramo 2006, Chieti 2008, Pescara 2009 (Romano e Zullo, 2014).
Sebbene una condizione siffatta costituisca una anomalia penalizzante in ogni circostanza tanto più lo è stata in un frangente traumatico per il territorio e la società come il sisma del 2009 (Bonotti et al., 2012). Questo evento è piombato in una città avvezza ad evolvere “senza urbanistica” (nel 2009 il PRG vantava già 34 anni) e che, nello scatenarsi di una frenetica emergenza, non ha potuto appoggiarsi a nessun riferimento valido di pianificazione proseguendo pertanto sulla falsariga di prima. Una tale condizione non poteva condurre ad altro se non ad un secco processo di ripristino dei volumi edilizi fondato esclusivamente sul principio del “dov’era e com’era” e condito da una imponente ondata di iniziative “libere” approfittando della inevitabile caduta di presidio sulle, già poche, regole territoriali in vigore in precedenza (Romano et al., 2015).
Tutto ciò ha contribuito a disegnare la condizione odierna che vede una periferia urbana configurata come barra intercomunale continua nella Valle dell’Aterno con orientamento WNW-ESE, allungata per oltre 30 km, cioè quasi 10 km in più del diametro massimo del GRA di Roma (e Roma ha quasi 3 milioni di abitanti), nonché circa i 3/4 delle massime diagonali urbane di Parigi o di Berlino (metropoli con rispettivamente più di 6 milioni e 3,5 milioni di abitanti). A fronte degli interventi del centro storico, indubbiamente di elevata qualità tecnologica e architettonica che hanno prodotto esiti in alcuni casi entusiasmanti, lo stesso non si può purtroppo affermare per il periurbano post anni ’70 lasciato privo pressoché totalmente di progetto urbanistico (Forino, 2014). Forse, con gli importi già liquidati di oltre 2,5 miliardi di € (che diventano il doppio considerando i pareri già emessi) per l’edilizia privata e circa altrettanti per l’edilizia pubblica (dati USRA 2021-2022 https://usra.it/datipratiche/) sarebbe stato ragionevole aspettarsi anche qualche miglioria sul versante della riorganizzazione degli assetti spaziali.
L’iter del nuovo PRG: la lettura dei tessuti urbani
La Tab. 1 mostra il trend di alcuni parametri indicativi lungo cinque cronosezioni prima e dopo il sisma. La densità urbana del comune nel 2007 era pari a circa il 6,7% (contro un 2,4% medio dell’Abruzzo) e i circa 68 mila cittadini residenti prima del sisma avevano un carico di oltre 450 m2 di area urbanizzata pro-capite (contro un valore di 350 circa medio per l’Italia). Già nel 2014 le condizioni rilevate sono variate di molto: i volumi costruiti, relativi a circa 2000 edifici aggiuntivi, hanno subito una netta accelerazione con un 10% in più rispetto al 2007, la densità di urbanizzazione è incrementata di oltre due punti percentuali e l’urbanizzazione procapite ha superato i 550 m2/ab. È triplicata la velocità di costruzione degli edifici con quasi 1.700 m3/giorno lungo i cinque anni e più che duplicata la velocità media di edificazione dei suoli (da 90 a 207 m2/giorno). È implacabilmente diminuito il rapporto di copertura territoriale, proseguendo nel trend iniziato negli anni ’80, a testimoniare come l’impegno di nuovi suoli artificializzati e impermeabilizzati si sia svincolato sempre di più dalle dinamiche demografiche ed edilizie (Romano et al., 2022).
I numeri esposti forniscono lo spunto per riflettere su cosa la città era, su cosa sia diventata ora, e su come stia mutando ed assestandosi. Molto è stato e viene detto sulla città policentrica e sulla città “territorio”, modello descritto da molti autori, manifestando talvolta, anche nel recente passato, anche una sorta di compiacimento per il risultato di dilatazione della città, considerando questo attributo un titolo di merito per la sua governance. (Tab. 1)
Il lavoro sviluppato dall’Università dell’Aquila nella classificazione dei tessuti urbani ha però evidenziato diversi lati di debolezza funzionale degli stessi, analizzando qualità, pattern e condizioni di assetto.
Tale classificazione è stata condotta con un meccanismo multicriterio basato sulle caratteristiche cronologiche, fisico-strutturali, configurativo-distributive e funzionali che ha consentito di selezionare le categorie riportate nella Fig. 1.
Il diagramma di Fig. 2 mostra una sintesi della articolazione dei tessuti da cui emerge il peso rilevante della disorganicità (quasi la metà del totale) la cui eredità proviene dalle forti carenze di progettazione urbanistica riscontrabili tra gli anni ’80 e il 2000.
In termini campionari va segnalato che alcune delle zone del PRG 75 in cui era previsto un “intervento coordinato” (artt. 49, 50 e 85 delle NTA) si estendevano all’epoca per circa 300 ha, e, in effetti, nel 90% dei casi (270 ha) la regola del coordinamento ha prodotto tessuti classificabili come “completi e consolidati”.
Gli sviluppi successivi nel 2007 e 2014 mostrano, come ben noto, una importante flessione quantitativa rispetto ai periodi precedenti con una prevalenza di tessuti consolidati che si accresce nel 2014. Si deve però tener conto che quasi i tre quarti di tali tessuti rilevati in questa ultima cronosezione (167 ha su 227) sono formati dalle aree dove sorgono i progetti CASE, i MAP e i MUSP (Frisch, 2009).
La formulazione critica di un unico metodo per due emisferi di qualità e valori
È evidente che trattare con criteri simili (modello comeradovera) i tessuti storici e quelli “recenti” non tiene in conto diverse e sostanziali differenze che influenzano profondamente i risultati finali. Varie le cause e diversi gli attori che hanno portato all’affermazione indiscriminata di tale modello operativo a scapito di una riprogettazione urbanistica nei casi in cui ciò era opportuno e dovuto: quasi ogni tentativo in tal senso è stato stigmatizzato. Tutti gli edifici danneggiati sono stati puntellati, senza fare alcuna distinzione nel merito del loro pregio storico-artistico-architettonico, e ricostruiti, o comunque con una ricostruzione in programma.
Tale modalità di agire, è dovuta, in prima istanza, ad una resistenza emotiva della popolazione a cambiamenti radicali della configurazione di spazi di relazione e alloggi rispetto alla fase pre-sisma, nella illusione di recuperare lo status preesistente, minimizzando il trauma della discontinuità nello stile di vita (Ciccozzi, 2015).
Seppur in alcuni casi dolorose e impopolari, alcune scelte si sarebbero dovute fare e, forse, le decisioni conseguenti avrebbero condotto a differenti approdi di risultato. Scelte e decisioni indubbiamente da affidarsi ad esponenti del sapere tecnico e amministrativo, depurate dall’emotività, per comprendere cosa, dove e come, valesse la pena (e l’impegno economico) ricostruire e cosa no. Le amministrazioni sono state colte impreparate (del resto, pur se l’area era ben nota come altamente sismica, i lunghi tempi medi di ritorno dei fenomeni catastrofici hanno indotto rimozioni durature nella consapevolezza sociale), e non hanno saputo impostare, dopo una apprezzabile ed efficace azione di prima emergenza (Anzalone, 2008; Margheriti et al., 2011), strategie di intervento di medio termine adatte alla situazione (Bramerini et al., 2013; Guidoboni, 2014). È stato certamente carente il ruolo ordinatore della parte pubblica che, sebbene finanziatrice degli interventi, non ha voluto attribuirsi anche una veste di regia nell’affiancare e indirizzare l’azione di ricostruzione edilizia imponendo anche la riqualificazione urbanistica nella logica dell’interesse pubblico. Non è stata quindi colta una opportunità unica e quasi irripetibile di sviluppo e di miglioramento della città e dei borghi che si è presentata a seguito del sisma: se ciò non avrebbe certamente alleggerito la enorme tragedia umana vissuta da una larga parte della comunità locale, avrebbe però temperato alcune ulteriori ed evitabili conseguenze negative innescando un moto di vera rigenerazione culturale e urbana (Pedrocco et al., 2011; Filpa e Lenzi, 2013) .
Tale processo ha peraltro trovato un “rinforzo” nella oggettiva convenienza del mondo professionale che, dal canto suo, per minimizzare i contrasti e le discussioni con la “committenza” privata, prevedibili nei casi di consistente revisione della configurazione spaziale e dimensionale dei volumi edilizi e delle pertinenze esterne, di ridisegno delle proprietà fondiarie comuni (modalità con cui, per inciso, ottenere anche una contrazione dei tempi di ricostruzione degli immobili), ha optato nella quasi totalità dei casi per interventi all’”identique”.
È d’uopo fare ora una distinzione dicotomica tra centro storico e periferie. Mentre nel primo caso si può affermare, certo non senza generare dibattiti, che si è agito in maniera apprezzabile, soprattutto tenendo conto del fatto che, a seguito dell’emergenza, c’era necessità di intervenire con una certa rapidità, lo stesso non si può dire per le periferie: in questi luoghi sarebbe stata d’obbligo un’operazione di riprogettazione urbanistica estesa e sistematica. Tale opportunità purtroppo non è stata colta: come esempio si espone il caso emblematico riportato in Fig. 3, in cui troviamo ricostruito tutto il patrimonio edilizio esistente nel comparto, mantenendo rigorosamente gli impianti distributivi di partenza strettamente legati alle proprietà fondiarie originarie. La Fig. 4 presenta invece un episodio di espansione urbana sempre contraddistinto da una insufficienza di disegno urbano. Nel panorama delle carenze operative che, dal punto di osservazione tecnico, è inevitabile notare, quella appena tratteggiata fa il paio con la “deflagrazione” subita dall’insediamento disperso dopo il sisma: anche da questo fenomeno non governato sono, purtroppo, derivate conseguenze che non sarà più possibile mitigare o invertire (Romano et al., 2017).
Bibliografia
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