Intervista a Claire Tancons, Massimiliano Scuderi |
La comparazione tra due città distanti, New Orleans e L’Aquila, ci permette di capire come due realtà colpite duramente da eventi tragici possano rinascere anche attraverso il ricorso a politiche culturali innovative. L’abbiamo chiesto ad una delle più interessanti curatrici d’arte internazionali: Claire Tancons. Dalla Biennale di New Orleans a quella di Harlem, si occupa dell’organizzazione di eventi ispirati al concetto di Carnevale, tra creolizzazione della cultura e nuovi modelli relazionali.
MS: Da molti anni la tua ricerca si è incentrata sul concetto paradigmatico del carnevale applicato all’arte. Puoi spiegare meglio le ragioni e quali siano le radici culturali di questa scelta di campo? Ha a che fare con l’idea di métissage della cultura modernista e postmodernista occidentale?
CT: Quella del Carnevale non è tanto una sfera di applicazione dell’arte, quanto arte in sé. Approfondendo dal 2004 la ricerca sul Carnevale, da Trinidad al Brasile, sono arrivata a considerarlo come l’Arte Moderna delle Americhe, ad oggi ancora sconosciuta. È più che una provocazione sulla scoperta del Nuovo Mondo. Affonda le sue radici nella convinzione che, come Sylvester Ogbechie ha eloquentemente affermato, “i contesti occidentali e non devono le loro forme canoniche alle reciproche appropriazioni generate all’interno di un contesto internazionale di modernità” 1. Ciò che mi interessa particolarmente è inquadrare il Carnevale nella sua incarnazione moderna di Nuovo Mondo, come conseguenza del suo allontanamento dall’Europa – dove era considerata una forma tradizionale di intrattenimento popolare – e del suo trasferimento nelle Americhe durante l’Illuminismo, quando affiancò la colonizzazione europea. Al termine métissage, le cui connotazioni biologiche mi lasciano perplessa, preferirei quello di creolizzazione, in grado di descrivere in modo più appropriato ciò che può essere considerato esclusivamente un processo culturale. Alla luce del mio riferimento a Ogbechie, è evidente che considero il Modernismo come fenomeno intrinsecamente transculturale, sia in Europa che nelle Americhe. Considero dunque il mio progetto sul Carnevale più attinente alla Modernità che al concetto di métissage.
MS: Le parate ispirate al Carnevale che hai organizzato nascono come forme di protesta da una condizione di repressione di alcune culture?
CT: Ho curato due processioni ispirate al Carnevale: Spring (5 Settembre 2008) in occasione della VII biennale di Gwangju, Corea del Sud, e A Walk into the Night (2 Maggio 2009) per l’inaugurazione di CAPE09, Sud Africa. Spring si ispirava alla rivolta democratica del 18 maggio 1980, la protesta animata da studenti che aprì la via alla democratizzazione della Corea del Sud. Spring ha avuto luogo attorno alla May 18 Democratic Square, nella stessa location in cui la rivolta scoppiò trent’anni fa, ed è stata concepita e quindi inscenata da 200 studenti, discendenti simbolici di coloro che lottarono e morirono proprio in quei luoghi. A Walk Into the Night si riferiva ai trasferimenti forzati durante l’apartheid, quando intere popolazioni di gente di colore venivano dislocate dal centro della città alle periferie, oggi sobborghi neri. Attuata nei Company Gardens, metteva in scena il ritorno simbolico di queste popolazioni con un centinaio di partecipanti quasi tutti provenienti dal Carnevale di Cape Town, una tradizione storica per la gente di colore. Nelle Americhe, Carnevale e protesta sono strettamente legati. Il Carnevale fungeva da mezzo di copertura, e a volte esprimeva la palese ribellione sotto la maschera e il pretesto della festa. Spero che sia Spring che A Walk Into the Night abbiano dato il senso di come resistenza politica e culturale siano intrecciate fra loro e attuate in pratiche artistiche, come quella del Carnevale, considerate marginali ma in effetti al centro di un importante dibattito collettivo.
MS: Sarat Maharaj, in un dialogo con Daniel Birnbaum, parla ad un certo punto di Stuart Hall e della sua capacità di parlare in Gran Bretagna “dell’invisibile soggetto coloniale presente ora nel cuore del vecchio impero” 2. Ritrovi nel tuo impegno il senso di queste parole e si può considerare la tua impostazione una sorta di “culture switch”?
CT: L’invisibile soggetto coloniale era ad esempio quello delle colonie caraibiche inglesi, sia Trinidad che Jamaica, e coinvolto nelle sommosse di Notting Hill. Del resto, il Carnevale era stato al centro di resistenze politiche e culturali. Il Notting Hill Carnival a Londra, ispirato al Trinidad Carnival, Carnevale caraibico oggi riconosciuto come festival nazionale del Regno Unito, diventava teatro di scontri violenti tra neri in festa e polizia londinese. Questa e altre problematiche legate alla retro-colonizzazione sono state affrontate dal film maker Isaac Julian in Territories (1984), il cui lavoro ha molto a che fare con la “visione creolizzante”.
Se il mio progetto consiste nel dare visibilità a soggetti invisibili, esso punta a farlo attraverso le loro stesse strategie culturali, come ad esempio quella del Carnevale. Mi interessa di più sostenere le comunità all’interno delle loro pratiche culturali anziché legittimarle attraverso il controllo da parte della cultura mainstream. Essendo interessata al Carnevale del Nuovo Mondo, e ai suoi corrispettivi diasporici in Nord America ed Europa, trovo il contesto della strada e il format della processione soluzioni più efficaci rispetto all’istituzione del museo e al complesso espositivo. In questo senso il mio approccio opera una sorta di culture switch, in rapporto alle condizioni della cultura di cui mira a sostenere gli interessi.
MS: Parlando con Vito Acconci a Roma, ai tempi delle ultime elezioni in America, ci interrogavamo su quale potessero essere gli esiti di una creolizzazione della cultura occidentale e semmai l’avvento di Obama potesse favorire l’affermazione di tale nuovo orientamento culturale. Qual è la tua posizione rispetto a questa questione? Sta avvenendo qualcosa, in questo senso, in America?
CT: Come Édouard Glissant, e in contrasto con Stuart Hall il quale colloca la creolizzazione nell’Atlantico nero, credo che il mondo abbia subito tale processo molto tempo prima della colonizzazione europea nelle Americhe. Il fenomeno della creolizzazione potrebbe sembrare una nuova tendenza negli Stati Uniti, ma ciò è inesatto, specialmente nel caso di New Orleans, una delle città americane più eterogenee, più vicina ai Carabi che al Nord America, nonostante sia stata segnata dalla storia segregazionista americana e dal pregiudizio razziale. Il presidente Obama cristallizza le speranze e le paure di coloro che stanno su entrambi i versanti della linea multiculturale. Comunque, dal mio punto di vista, la sua capacità di dare una nuova immagine agli Stati Uniti ha poco a che fare con la sua eredità multirazziale che di per sé non lo dota di un particolare intuito, come invece fa con il suo sguardo umano sul mondo oltre i confini degli States.
MS: Ti sei occupata, tra le tante iniziative, di Prospect.1 New Orleans, la Biennale di New Orleans. Come tutti sanno la Biennale è nata anche per risollevare una comunità colpita e in forte difficoltà. Mi puoi parlare del progetto e di quali siano state le ricadute sul territorio e sulla comunità stessa?
CT: Prospect.1 (1 novembre 2008 / 8 gennaio 2009) è stata ideata da Dan Cameron nel periodo immediatamente successivo all’uragano Katrina (2005), allo scopo di incoraggiare la ripresa economica attraverso il turismo culturale. Sono stata curatore associato della Biennale. Sebbene essa abbia riscosso ampio successo popolare e da parte della critica, confermato dagli alti numeri in ricavi (circa 20 milioni) e presenza di pubblico (tra 89,000 secondo il sondaggio del giugno 2009 e 42,000 secondo un comunicato stampa di Prospect.1 del novembre 2009), si può discutere del suo vero impatto su New Orleans. Il sondaggio (disponibile sul sito del CAC di New Orleans) ha reso noto come l’83% di pubblico, locale e non, fosse composto da bianchi, mentre solo l’11%, di cui 8% locale e 3% non locale, da gente di colore. Considerando che New Orleans è per il 62% nera, il dichiarato successo della Biennale è mitigato da una scarsa presenza di tale pubblico. Analogamente, nonostante New Orleans Parish vanti un numero di imprese di gente di colore tra i più alti negli Stati Uniti, (27,6% contro i 5,2% nazionali – tutti i numeri della popolazione dell’US Census Bureau del 2008 sono disponibili online) sono curiosa di sapere quanti dei milioni dichiarati ne hanno tratto vantaggio. Non sono un economista, ma capisco che i benefici indiretti arrivano da lavori mantenuti o creati all’interno di uno schema più ampio di crescita economica positiva. Comunque, e come è noto, è la comunità nera impoverita di New Orleans che ha sofferto più a lungo dell’uragano Katrina. Allora la domanda è: quale era esattamente la visione della città di Prospect.1, a chi si pensava potesse giovare artisticamente ed economicamente e quali mezzi escogitava per raggiungere una popolazione eterogenea? I numeri di Prospect.1 seguivano i trend generali del mondo dell’arte ma si allontanavano allo stesso tempo da questi in punti significativi: l’ingresso alla Biennale era libero e il suo pubblico bianco per l’83%, sebbene istruito tendeva al contempo a essere più giovane e meno agiato (in contrasto col trend generale). Nonostante l’eterogeneità non fosse uno degli obiettivi di Prospect.1, (che erano principalmente di natura artistica ed economica), esso cercava di rivolgersi a un pubblico nero attraverso luoghi artistici storicamente neri. Uno di questi è il Lower 9th Ward, quartiere operaio afro-americano tra i più colpiti dall’uragano e in cui ha avuto luogo la tanto reclamizzata iniziativa di ricostruzione Make it Right promossa da Brad Pitt. Sebbene su scala più ridotta, Mrs. Sarah’s House, un progetto a tre fasi dell’artista di Prospect.1 Wangechi Mutu (esposto nel Lower 9th Ward), ha contribuito direttamente alla ricostruzione. La prima fase, secondo Mutu era intesa come “un lavoro sensibile al luogo, da edificare come tributo e sito di pellegrinaggio per i visitatori di Prospect.1 e in modo particolare per la gente del Lower Ninth”. Consisteva in “un disegno luminoso che dava vita ad una struttura fantasma nella notte… una sorta di miraggio, un tentativo di descrivere il sogno del ritorno a casa di Mrs. Sarah come di tanti altri” (dichiarazione dell’artista, 2008). Per la seconda fase, Mutu ha realizzato una stampa dal titolo Home, e dalla sua vendita è nato un fondo per la ricostruzione della casa di Mrs. Sarah. La terza fase è avvenuta di recente, quando l’11 aprile 2010 è stata inaugurata la casa ricostruita.
MS: Lo scorso anno la città dell’Aquila in Italia, come New Orleans e Haiti pochissimo tempo fa, è stata colpita da un evento naturale catastrofico, un forte terremoto, che l’ha messa in ginocchio. Possono secondo te l’arte e la cultura in generale rilanciare il senso d’identità di una comunità afflitta da tali eventi? È avvenuto questo, ad esempio, a New Orleans?
CT: Ci vuole tempo per registrare l’impatto culturale ed economico di simili eventi, sempre che essi possano essere sostenuti. Sono scettica riguardo alle rivendicazioni condotte nell’interesse delle popolazioni, specialmente se in luoghi privati dei diritti ed economicamente impoveriti come New Orleans o Haiti. Penso anche che possano esservi ansie giustificate circa la natura neocoloniale del trend internazionale della Biennale, che tende a imporre un modello culturale occidentale come dominante in località non occidentali, la cui eredità culturale spesso smentisce l’idea secondo cui l’arte contemporanea sia un valore culturale condiviso a livello globale. Tornando a New Orleans, mi chiedo fino a che punto queste pratiche artistiche nere che sono state presentate da Prospect.1, come la mostra del Mardi Gras Indian, Victor Harris (da me organizzata), fossero più che semplici segni di apprezzamento della cultura nera inserita nel mix di un evento culturale prevalentemente bianco in una città prevalentemente nera. La domanda è sempre: chi parla da dove, per chi e a quale scopo? Penso che le biennali facciano molto ventriloquo culturale quando parlano alle popolazioni locali dei vantaggi presumibilmente ottenuti, avendo definito in anticipo ciò che era positivo per loro secondo un’agenda che potrebbe essere lontana dalle loro aspirazioni e obiettivi.
MS: Quali sono i tuoi prossimi progetti?
CT: Ho appena concluso un anno di viaggi di ricerca in oltre venti paesi. Il mio scopo era quello di estendere l’indagine dalle Americhe al contesto più ampio dell’Atlantico nero e dal Carnevale ad altre mascherate e tradizioni processionali in contrasto con lo scenario dei movimenti di protesta globale. Mi sono concentrata sul Tchiloli di São Tomé così come ho fatto con i Carnevali di Angola e Capo Verde, la performance art in Nigeria e le cosiddette Konsumprozession anticapitaliste in Germania. Attualmente sto lavorando a due progetti collegati. Il primo, Carnival: Art to and from New Worlds, progetto itinerante che comprende una mostra, workshop e processioni e sarà presentato al CAC New Orleans nel 2013, punta a includere le pratiche artistiche contemporanee all’interno del Carnevale così come l’arte contemporanea attuale in parate e processioni che considero indirettamente collegate. L’altro, un libro dal titolo Carnival, Procession and Protest: Art, Agency and the Re-Possession of Perception, sviluppa il concetto di Carnevale nelle Americhe come Arte Moderna che, a differenza del Modernismo occidentale del XIX secolo definito da Jonathan Crary come “sospensione della percezione” a vantaggio della visione, ha operato una “riacquisizione della percezione” attraverso esperienze pansensoriali. Sto inoltre lavorando alla prima edizione della Biennale di Harlem fissata per la primavera del 2012. Mi è stato chiesto di ideare un modello per una processione-evento ricorrente che, dalle parate dell’UNIA di Marcus Garvey del 1920 al primo Carnevale di Harlem del 1947, attinge alla storia di Harlem così ricca di… Carnevale, processioni e proteste.
In Arte e Critica, n 63 - Junho/Julho 2010.
Note:
1Ogbechie, Sylvester, Ben Enwonwu: The Making of an African Modernist (Rochester U Press, 2008, p7)
2Sarat Maharaj, Geografie filosofiche, in Fare Mondi (catalogo 53° Biennale di Venezia), Ed. Marsilio, 2009
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