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Riciclare città e paesaggi1. Mosè Ricci

 

Tutto è cominciato a Detroit. O, meglio, tutto è ri-cominciato a Detroit solo pochi anni fa’, alla fine del secolo scorso. Con la crisi dell’economia che l’aveva generata la più importante città fordista ha dovuto porsi il problema della sua sopravvivenza e del suo destino. E’ passata in pochi anni da 1.850.000 a 740.000 abitanti. Ha demolito più di 2000 edifici. La desolazione del centro in un’area di circa 8 miglia di raggio è drammaticamente evidente2. Detroit è la Pompei del capitalismo manifatturiero americano, con più di 320.000 posti di lavoro persi negli anni 2001-20083 e con un abbandono di circa il 57% della popolazione dal 1970 e del 25% negli ultimi dieci anni.  Charles Waldheim, ora chair di paesaggio a Harvard, con Georgia Daskalakis e Jason Young aveva capito subito che a Detroit stava succedendo qualcosa di decisivo per il futuro della città e dell’urbanistica, e dal 20014  ha cominciato a raccontarlo in presa diretta.

A 10 anni di distanza Detroit sta trovando, lentamente, un’altra dimensione.  Oggi il migliore itinerario di visita della città si chiama Cloudspotting Detroit, Best Places for Viewing the Sky ed è promosso dalla Pubblica Amministrazione.  Malgrado il suo nome questo giro accompagna il turista (meglio se in bicicletta) nei posti che è interessante visitare, quelli che vale la pena di venire a vedere a Detroit. Non sono tanti. Solo 31 places of interest per la undicesima città americana una ex(?)metropoli di 900mila abitanti nell’area urbana (erano due milioni negli anni ’50). La cosa importante è che molti tra i primi sedici luoghi cospicui della città sono, come li chiamerebbe Alan Berger, drosscapes e altri sono evanescenti.  Aree demolite, parchi potenziali, tombini fumanti di calore sotterraneo, grandi edifici pubblici abbandonati, mercati di cose usate e del baratto, villini vittoriani riconquistati dalla natura, case occupate dagli squatters, infrastrutture rinaturalizzate, quartieri abbandonati che diventano il luogo di installazioni artistiche … Nuvole di polvere, di vapore o di sapori che prendono il posto delle attrazioni urbane tradizionali (architetture, musei, librerie, perfino i negozi di base non ci sono più a Detroit) e riconsegnano i ruderi della città fordista alla narrazione e alla natura trasformando Detroit nella prima post-metropoli.

Queste ‘nuvole’ sono le icone dei nuovi dispositivi urbani materiali o impalpabili che, in altri termini, riducono riusano e riciclano quel che resta della città in un paesaggio. Cloudspotting significa appunto guardare le nuvole. Cose quasi senza materia e che di solito significano cattivo tempo, ma che possono assumere forme intriganti, far correre la fantasia e, improvvisamente, scoprire il cielo.

A Detroit la città moderna è finita, i suoi spazi fisici svuotati del senso non esprimono più una figura urbana. E’ qualcosa che non è possibile immaginare da una prospettiva europea, che non si riesce a concepire se non si va lì a vederla. Detroit ha un‘area metropolitana tra le più estese in America. Nel suo perimetro possono star dentro città come New York, Boston e Philadelphia. Al centro, all’interno del famoso eight mile divide, la città costruita nel secolo scorso in elegante stile vittoriano non esiste più come tale. Le case vuote con le finestre murate, quelle occupate dagli squatters, gli edifici alti con le finestre attraversate dagli uccelli in volo, i lotti industriali demoliti, i negozi abbandonati, i monumenti vuoti, …, hanno trasformato questa città in un’altra cosa. In qualcosa che è molto più vicino ad un’idea di parco e che, in fondo, non è affatto spiacevole. Oltre il cerchio delle otto miglia, intorno a questa nuova figura urbana in formazione, il suburbio sopravvive benissimo. E’ lì che si sono trasferite le attività economiche e le residenze. Nell’area periferica (una definizione che potrebbe essere desueta altrove) le autostrade sono trafficate e i centri commerciali sono in piena attività. il suburbio funziona bene a Detroit dove la città moderna è morta con il tracollo dell’economia che l’aveva realizzata.

Non esiste un piano strategico complessivo per la rigenerazione del centro di Detroit. Né è mai stato concepito prima. Quello che sta succedendo - la trasformazione di una città derelitta in un luogo moderatamente attrattivo, l’aumento dei prezzi delle case (per la prima volta nell’autunno 2011 e in ragione percentuale più che altrove in America), la presenza dell’università come presidio, l’accoglienza dei primi flussi turistici nei villini vittoriani restaurati, il riposizionamento degli stadi al centro della città, il casinò nel quartiere greco, … - avviene in maniera apparentemente disarticolata, per spots. Eppure qualcosa di importante accade. Non si tratta un processo di riqualificazione o di rigenerazione urbana. Non è apprezzabile alcun tentativo di rigenerazione della città o del paesaggio della Detroit del secolo scorso. Non è presente un’idea di restauro di un’urbanità perduta quanto la creazione di nuovo valore attraverso la riduzione delle funzioni tradizionali, il riuso degli spazi derelitti e il riciclo dei materiali urbani superstiti. In definitiva proprio di questo si tratta di un processo riciclo della figura urbana che genera nuovi valori attraverso l’attribuzione di un nuovo senso a ciò che c’è.

Le letture per immagini satellitari di Mc Lean; le mappe e i diagrammi attraverso cui Stoss Landscape Urbanism elabora proposte per l’attivazione di processi di riciclo alla scala urbana; gli esperimenti di riuso di case bruciate e spazi in disuso di Dan Pitera, la riduzione del Michigan Theatre in un parcheggio, le “visioni” incentrate sulla pratica del recupero raccontate da Arens, costruiscono l’epica di una città che sperimenta le possibilità del riciclo, di un futuro altro per la città e per le discipline del progetto urbanistico

In questo senso Detroit è un paradigma. Sembra quasi che lo sforzo attuale della città serva a comprendere meglio cosa volesse intendere Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi cità al di là della banalizzazione del “piccolo è bello”. Sembra che la capacità di generare senso e bellezza espressa dall’idea del riciclo dopo l’abbandono a Detroit possa rappresentare una nuova frontiera per un progetto ecologico per la città e per il paesaggio.

 

Riciclare significa rimettere in circolazione, riutilizzare materiali di scarto, che hanno perso valore e/o significato. E’ una pratica che consente di ridurre gli sprechi, di limitare la presenza dei rifiuti, di abbattere i costi di smaltimento e di contenere quelli di produzione del nuovo. Riciclare vuol dire, in altri termini, creare nuovo valore e nuovo senso. Un altro ciclo è un’altra vita. In questo risiede il contenuto propulsivo del riciclaggio: un’azione ecologica che spinge l’esistente dentro il futuro trasformando gli scarti in figure di spicco.

L’architettura e la città si sono sempre riciclate. Esempi come Spalato, come  il Teatro di Marcello a Roma o il Duomo di Siracusa, per citare solo tre degli esempi più chiari, sono manifesti del riciclo. Non si tratta di restauro: l’idea della conservazione tende a imbalsamare l’immagine dello spazio architettonico o urbano attribuendo valore all’immutabile. Per gli interventi di riciclaggio il cambiamento è il valore, quando riesce a generare figure come quelle che i casi citati hanno saputo esprimere .

L’aspetto innovativo della condizione contemporanea risiede nel considerare strategica questa politica per l’architettura, per la città e per i paesaggi derelitti. Il paradigma del riciclo si contrappone a quelli della nuova costruzione e della demolizione che hanno dominato il periodo della modernità, ma non banalmente. Ciò che interessa in questa sede è guardare solo alle esperienze che attraverso il riciclo producono cultura della città, bellezza e qualità urbana.
La pratica del riciclo degli spazi e dei tessuti urbani è necessariamente contestuale e adattiva.  Non si può attuare con tecniche stereotipate o con strumenti tradizionali. Ogni luogo e ogni caso prevedono un progetto diverso. Si potrebbe parlare di diverse tattiche, nel senso in cui Fabrizia Ippolito usa questo termine per le azioni urbane 5, che rispondono a una sola, strategia di intervento. Una strategia orientata all’incremento delle qualità ambientali e di paesaggio nella città e, dall’altro lato, all’erosione della densità delle funzioni metropolitane.
L’idea del riciclo implica una storia e un nuovo corso. Coinvolge la narrazione più che la misura. Il suo campo di riferimento è il paesaggio, non il territorio. L’idea di territorio chiede all’architettura quantità, stabilità, persistenza nel tempo e progetti come decisione autoriale, in grado di stabilire la competitività tra i luoghi attraverso la firma d’autore. L’idea di paesaggio, invece, non chiede all’architettura tempi definiti, chiede di poter invecchiare insieme, di cambiare continuamente come continuamente i paesaggi cambiano. E chiede al progetto di essere poliarchico, deciso da molti, condiviso da tanti, di contribuire alla costruzione di quel paesaggio-ritratto, una bellissima immagine di João Nunes, che è il ritratto di una società e non di un autore.

In questo senso la strategia del riciclo rappresenta lo sfondo concettuale e l’obiettivo generale di una serie di progetti che marcano una fase cruciale della cultura urbanistica contemporanea. E’ il passaggio da un sistema di misure (il territorio) a un sistema di valori (il paesaggio). Forse le esperienze più interessanti sono quelle che coinvolgono un’intera città e identificano un’impresa collettiva, non sporadica, che dimostrano la possibilità il consenso e la convenienza di uno sviluppo urbano di tipo diverso.

A Monaco di Baviera nel 2008 l’Amministrazione, in contemporanea con la presentazione della variante allo strumento urbanistico generale, decide di bandire un concorso per giovani progettisti under ‘40 . Con Open Scale, questo il nome del concorso, Monaco chiede ai giovani architetti di immaginare la Monaco degli anni 2020-2030. Quella che loro stessi vivranno e progetteranno. Vince il progetto Agropolis, di un gruppo di progettisti coordinato da Jörg Schröder 6, che contrappone alla logica dello sviluppo metropolitano un’occupazione temporanea degli spazi in attesa di nuova edificazione, con aree agricole per la produzione del cibo nella città. Questa logica episodica di filiera corta può espandersi ed essere attuata su scala regionale occupando spazi sempre maggiori e ridisegnando il paesaggio metropolitano. Inoltre le coltivazioni e gli orti come un’epidemia, possono espandersi fino a contaminare i terrazzi e i tetti delle abitazioni private e i parchi pubblici che è troppo costoso mantenere. Si tratta di una politica sociale, che riguarda la qualità del cibo e della vita dei cittadini, che prende in considerazione sia la natura rurale sia l’invecchiamento della popolazione e la crisi occupazionale. Ma è anche una strategia paesaggistica di ridefinizione dell’immagine e della qualità urbana complessiva attraverso il ridisegno e la governance degli spazi aperti nella città, che tornano ad essere produttivi. E’ il progetto riciclo di una struttura urbana obsoleta in un paesaggio agricolo in grado di esprimere nuove qualità estetiche e ambientali nella città. O, come ha detto Pierre Donadieu, Agropolis è "a bearable Utopia of agri-urban landscapes". Nel 2010 a Monaco è stato aperto il primo cantiere del progetto Agropolis.

Anche Barcellona si ricicla. Nella città densa con un’azione sinergica, contemporanea e non completamente integrata, lo studio di architettura Gausa-Raveau con il progetto Multiramblas, l’assessorato all’Ecologia Urbana diretto da Salvador Rueda con un piano di abbattimento degli impatti urbani e il geografo Francesc Munoz con il seminario Recycling Barcelona elaborano a più mani una strategia di riciclaggio del tessuto a isolati del Plan Cerdà. Il concetto di intervento è legato all’adozione di uno schema analogo a quello del piano GATPAC-Le Corbusier che fa funzionare lo scorrimento del traffico urbano su una maglia di tre isolati per tre isolati, invece che 1x1. All’interno di questa superquadra e le strade carrabili vengono riciclate in spazi pubblici, aree verdi, orti urbani. L’assessorato all’Ecologia Urbana ha dato il via ai primi interventi di rinaturalizzazione delle strade carrabili nel 2010. Dalla parte opposta della città, sulle colline verso l’aeroporto, un altro progetto esemplare è in fase di completamento. Si tratta della rinaturalizzazione della più grande discarica urbana Barcellona (150 ettari situati nel parco naturale del Garraf), ormai esaurita dal 2006, dopo aver ha ospitato negli anni oltre 20 milioni di tonnellate di rifiuti depositati nel fondovalle per uno spessore che arriva fino a 18 metri di profondità. Il progetto “la Vall d’en Joan” ha vinto il premio per la categoria energia al world architecture festival 2008. L’idea del progetto, costato circa 11milioni di euro, è quella di disinquinare il sito captando l’energia prodotta e ricoprirlo con un tappeto vegetale adagiato su 11 terrazze a vocazione agricola, dove sono coltivate diverse specie di piante native, con scarsa richiesta di acqua ed a basso impatto ambientale. La centrale per il biogas costruita nell’area produrrà circa 550 milioni di metri cubi di metano. Il progetto produce un’azione di disinquinamento e di ripristino ambientale per fasi. In circa 15 anni il ciclo di recupero ambientale sarà compiuto e la forma del progetto oggi ancora molto riconoscibile svanirà nel paesaggio, come un’opera zen, cancellata dalla natura che torna dovunque.

A Bruxelles Gilles Clement realizza un progetto piccolo ma straordinario come manifesto e per forza espressiva. L’Escalier Jardin è un’operazione di de-monumentalizzazione. E’ come uno sfregio alla città tradizionale dove una struttura monumentale inutile viene lasciata invadere dalla natura spontanea e è riciclata in un giardino della biodiversità. A Parigi l’Ile Seguin di Michel Desvigne ritrova un parco tra i ruderi di una fabbrica Renault.

In Italia succede ancora poco. Forse le ferrovie dello Stato sono l’attore principale dei processi di riciclaggio delle strutture urbane. Tra i diversi interventi attivati quello delle Officine Grandi Riparazioni, dello studio 5+1AA, è probabilmente quello che meglio interpreta il senso del tempo con un progetto aperto e in parte non finito che trasforma questa apparente incompiutezza in valore estetico aggiunto nella città. A Prata Sannita il centro antico della  città è stato trasformato dai Feld 72 nel Million Donkey Hotel. Un’impresa collettiva di riciclaggio di un borgo abbandonato per la creazione di una struttura ricettiva embrionale con lo scopo di accendere una possibilità di sopravvivenza in una condizione urbana di spopolamento tipica dell’Italia interna del centro-sud.

Negli Stati Uniti due città, New York e Detroit, propongono due diverse declinazioni del paradigma di riciclo. A New York la Highline e la ex discarica di Fresh Kills, tutti e due su progetto di James Corner e Field Operation (con Diller Scofidio e Renfro nella Highline)  dimostrano quanto i progetti di riciclo possano essere attraenti e glamourous e come siano contagiosi. La loro capacità di generare emulazione e replica al margine produce effetti di riqualificazione e nuove economie. Di Detroit si è già scritto all’inizio. Dopo la crisi dell’economia industriale la città svanisce e il suburbio oltre la 8 miles divide continua a funzionare. Quello che ci coglie impreparati a Detroit non è solo la scomparsa della figura della città moderna ma anche l’assenza di un’idea di sviluppo. A Detroit finisce anche l’idea moderna del futuro delle città. Il riciclo interviene per punti sulla spinta dell’auto organizzazione. Il progetto Heidelberg, il Michigan Theatre, l’Università, il mercato ... Non esistono prospettive di intervento condivise, né programmi strategici. E forse non se ne sente nemmeno il bisogno. La città ora vive questa condizione. E talvolta Detroit, come le sue nuvole di vapore, riesce a far correre la fantasia e a scoprire il cielo.



1Queste note presentano in sintesi i contenuti della sezione urbanistica e paesaggio della Mostra Recycle Strategie per l’Architettura la Città e il Pianeta, (MAXXI, Roma, Dicembre 2011-Aprile 2012).
2 Edward Glaser “Brains over Buiding”, in Scientific American special issue, 305,3.  New York, September 2011.
3 dati U.S. Labor Department, 2010.
4 cfr. Charles Waldheim, Georgia Daskalakis, Jason Young, Stalking Detroit, ACTAR, Barcellona, 2001.
5 cfr, F. Ippolito, Senza Paura, in Ventre. La rinascita dell’architettura n. 2, nuova serie, Cronopio, aprile 2004. Numero monografico su città e paura.
6 cfr. Jörg Schröder, Kerstin Weigert + bauchplan, Agropolis München, Monaco, Germania, 2009.

 

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Magazine of Sustainable Design (Quadrimestrale on line sul progetto di città sostenibile)
Edizione SCUT, Università Chieti-Pescara
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