In the foreground

Una via europea alla sostenibilità. Alberto Clementi

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Intanto che si cerca di sedimentare l’insieme dei principi del Sustainability Sensitive Urban Design, le sperimentazioni si moltiplicano in numerose città, soprattutto in quelle che vantano tradizioni di maggiore consapevolezza rispetto alle questioni ambientali. Si sta dando vita a un robusto corpo di esperienze sul campo, in rapida evoluzione. E si offre di conseguenza l’occasione per un apprendimento comune sulle potenzialità e i limiti di questa nuova cultura, i cui risultati condurranno probabilmente a ridefinire non solo il campo di operabilità della nozione di sostenibilità, ma il suo stesso significato teorico.
Del resto, come sostiene Bidou, “lo sviluppo sostenibile non è un concetto irrigidito, ben definito, ma un modo di pensare, appropriato per immaginare collettivamente il mondo di domani. Un movimento comparabile con l’illuminismo del XVIII secolo, al quale ciascuno può apportare la propria impronta”.
In questo movimento contano le elaborazioni teoriche, il sapere tecnico, ma altrettanto importanti sono le pratiche sociali fondate sui reali comportamenti d’uso, e sulle disponibilità a interiorizzare individualmente valori della sostenibilità.
Dando dunque per scontato che lo sviluppo sostenibile non sarà l’esito di un approccio dettato dalla tecnica o dalle ragioni settoriali che presiedono al risparmio energetico, piuttosto che alla sostituzione delle fonti energetiche o al riciclo delle acque usate, resta comunque il problema di cogliere il senso del mutamento in atto nelle culture della progettazione che prendono sul serio il tema della sostenibilità.
Dopo aver dato conto dell’esperienza di Londra, che in occasione delle prossime Olimpiadi si candida autorevolmente a capitale europea della sostenibilità, in questo numero di EWT vengono riportate alcune esperienze in atto negli USA. In particolare Mosè Ricci descrive le innovative strategie adottate per risollevare una grande company town industriale come Detroit, rianimandola dallo stato di profondo degrado in cui è sprofondata a causa della gravissima crisi dell’industria automobilistica americana.
Documentare e mettere a confronto le esperienze dei diversi Paesi è una parte fondamentale del programma di EWT, che intende interrogarsi criticamente sulla possibilità di riconoscere le differenze negli attuali percorsi di “invenzione della tradizione” della sostenibilità. E che in particolare si domanda se – e quanto- si possa parlare di una via europea alla sostenibilità, in grado di mettere a fattor comune le esperienze di paesi avanzati come la Svezia, la Danimarca, la Finlandia, con quelle altrettanto significative della Germania, della Francia, della Gran Bretagna e – un po’ meno- della Spagna. Una via europea rispetto alla quale va traguardata anche l’Italia, un Paese ancora attardato per l’assenza di un’adeguata regia sul piano nazionale, ma vivacizzato da una molteplicità di esperienze locali che stentano a tradursi in una politica organica complessiva.
Proprio l’Italia, con la sua forte tradizione di tutela del paesaggio, potrebbe contribuire efficacemente a una tematizzazione della sostenibilità centrata sull’importanza delle valenze storiche del patrimonio, da sottrarre assolutamente alle distorsioni dei processi di sviluppo nella modernità. Invece lo stato dell’arte mette in luce una cultura del progetto sensibile al paesaggio ancora incerta e poco diffusa, forse perché soffocata dal primato del vincolo che caratterizza l’esperienza secolare del nostro Paese.
Significativa sotto questo profilo è la recente iniziativa “EcoLuoghi 2011”, promossa dall’Associazione Mecenate ’90 con il patrocinio del ministero dell’Ambiente. Questa consultazione progettuale per un alloggio minimo di 45 mq., da realizzare d’intesa tra progettisti e loro imprese di riferimento ( di cui diamo ampia notizia nel numero, pubblicando i materiali del concorso con le riflessioni di Ledo Prato, coordinatore per Mecenate ’90 e di Lucina Caravaggi, membro della Commissione giudicatrice), aveva ben formulato il bando di gara. Ai fini dell’attribuzione dell’“eco-bollo” da parte del ministero, erano stati considerati come requisiti determinanti del progetto sia l’efficacia dei dispositivi veri e propri della sostenibilità edilizia, che il corretto inserimento nel paesaggio, come peraltro richiesto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Ebbene, la stragrande maggioranza dei progetti presentati dimostra come ancora oggi la sostenibilità venga percepita come il frutto delle tecnologie ambientali che agiscono sull’oggetto edilizio, raramente diventando occasione per innovare la concezione architettonica ( come invece era accaduto con l’avvento dell’architettura moderna e della “ville radieuse” ), e ancor meno per istaurare un rapporto qualificato con il paesaggio circostante.
In Italia, come altrove, la sostenibilità sembra essere ancora appannaggio degli approcci specialistici dell’impiantistica, dell’ingegneria e della tecnologia edilizia, piuttosto che l’espressione di una nuova cultura progettuale capace di reinterpretare l’architettura muovendo dalla cattura delle relazioni con l’intorno. Una cultura che considera l’opera come un organismo che respira insieme al suo contesto, alla ricerca del miglior equilibrio nei suoi flussi metabolici sia con l’ecosistema di appartenenza che con il paesaggio storicizzato di riferimento.
Più in generale, sembra che la prospettiva ambientale e quella del paesaggio non riescano ancora a fondersi in una nuova sintesi convincente, troppo condizionate dal peso delle rispettive tradizioni disciplinari, riferite rispettivamente ai valori scientifici dell’ecologia e a quelli umanistici della storia.
Sicché non c’è da sorprendersi troppo se questa diversità d’interpretazioni si traduce poi nella divaricazione tra due approcci d’intervento: l’enfatizzazione delle misure quantitative per la valutazione della sostenibilità, che ben si attaglia alla pretesa di scientificità di questo concetto; oppure il ricorso alle valutazioni fondate invece sulle argomentazioni di qualità e sulle possibili convergenze tra opinioni condivise intersoggettivamente, che riflettono la complessità delle relazioni in gioco nella trasformazione dell’esistente, ben oltre il riduzionismo dei parametri ambientali gestiti dai sistemi di accreditamento oggi in uso. 
Scopriamo allora come dietro lo sbilanciamento tra tecnologia e paesaggio evidenziato dal concorso “EcoLuoghi 2011” si celano questioni più profonde, che attengono alle diverse filosofie in gioco e agli interessi che sono in grado di mobilitare. L’una, di controllo quantitativo del funzionamento ambientale dell’oggetto edilizio e dell’insediamento residenziale, che appare assai più potente, perché espressione di obiettivi ben individuati (ad esempio la fortunata formula “20-20-20” preconizzata dall’Unione europea per quantificare gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento, di miglioramento dell’efficienza energetica e di incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili ), commisurata anche alle logiche dell’industria delle costruzioni e del settore immobiliare, e in particolare alle possibilità di far apprezzare dal mercato il maggior valore degli edifici realizzati all’insegna dei valori di sostenibilità. L’altra che invece rinvia al modo di abitare il paesaggio e di condividerne i valori culturali, riportando la sostenibilità a una “misura del mondo”, ovvero al modo di pensare il prelevamento delle risorse naturali e la sua compatibilità all’interno dei quadri di vita  più complessivi che danno senso alla nostra condizione nel mondo (appunto, un modo di pensare totalizzante come quello dell’illuminismo citato in precedenza).
Seguendo questo secondo percorso, il progetto sensibile alla sostenibilità si può imbattere tra l’altro sulle riflessioni che stanno producendosi intorno al tema del riciclaggio. Si tratta di una pratica che va emergendo come convergenza tra diverse strategie d’intervento interessate alle relazioni di senso piuttosto che alle figurazioni dell’oggetto, considerata per questo da Ciorra come “una delle forme più sofisticate e attuali della ricerca espressiva degli architetti contemporanei”.
Così i progetti urbani che “lavorano con tecniche assimilabili a quelle del riciclo architettonico” tendono a incarnare le risposte della cultura progettuale al problema della sostenibilità: “ ri-costruire invece  di costruire; costruire sopra sotto intorno dentro addosso con i materiali di scarto, invece che costruire, abitare la rovina invece di costruire, rinaturalizzare invece che riurbanizzare”.  Diventano espressione di una cultura avanzata della sostenibilità soprattutto quei progetti che sanno rielaborare i materiali urbani di scarto, già usciti dal loro ciclo di vita, ma suscettibili di trasformarsi in una risorsa strategica, che induce nuovi stili di vita più sensibili all’ambiente, e che è in grado perfino di trascinare la valorizzazione delle aree circostanti, contribuendo in modo rilevante alla rigenerazione della città esistente.
E’ questo il caso della High Line di New York analizzato da Gasparrini e Sassanelli in questo numero di EWT. Ma è anche il caso di numerosi progetti presentati alla mostra Recycle  da poco conclusa al MAXXI, museo dell’arte e dell’architettura contemporanea a Roma, recensita da Mosco per EWT.





















































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EWT/ EcoWebTown
Magazine of Sustainable Design (Quadrimestrale on line sul progetto di città sostenibile)
Edizione SCUT, Università Chieti-Pescara
Registrazione al tribunale di Pescara n. 9/2011 del 07/04/2011